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La settimana santa della musica

Quel che resta di cinque ore di Festival, senza le canzoni

Massimo Adinolfi

La scaletta in gara da sola non dice gran che: c'è bisogno di tutto il resto per tenerla in piedi e per tenere in piedi il programma. Se la serata sfiora le cinque ore e i brani occupano poco più di tre quarti d'ora, il resto che cos'è?

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Ho fatto un conto. Quattordici canzoni prendono, ascoltandole di fila, poco più di tre quarti d’ora. La singola serata sanremese sfiora le cinque ore. La musica è al centro, garantisce il direttore artistico: il resto, allora, cos’è? È spettacolo, certo, che va dai monologhi alle ospitate, dalle esibizioni collaterali ai siparietti, dalle reunion agli anniversari e sale su su fino al presidente della Repubblica, ma in termini scientifici, se posso dir così, di che si tratta? Di Dna spazzatura. Mi spiego subito: non vorrei essere frainteso come un Salvini qualunque, a cui non ne va bene una e che riceve giustamente da Amadeus l’invito a lasciar perdere il Festival, se proprio non gli piace (che sorpresone: Salvini nei panni radical chic di quelli che disdegnano Sanremo!). Il Dna spazzatura è una roba seria. Inizialmente si sapeva solo che c’è tutta una parte del genoma umano che non viene utilizzato per “fabbricare” le proteine (il materiale di costruzione della vita, come si dice a scuola). S’è pensato perciò che non servisse a nulla: che fosse, appunto, spazzatura. Con qualche imbarazzo, però, visto che rappresenta quasi il 99 per cento del genoma umano.

 

Ma la biologia molecolare progredisce, come tutte le scienze, e oggi è in grado di formulare diverse ipotesi sulle funzioni del Dna non codificante (così lo si chiama attualmente) – ivi compresa quella, adatta pure per i palinsesti tv, di mettere un po’ di spazio tra i geni, per facilitarne la decifrazione. Pure la sociologia semiologica san-remese ha fatto passi avanti, nel frattempo, e approfittando di una preziosa indicazione di Fiorello (che, sia detto en passant, va seguìto sempre, pure alle due di notte) accreditati studiosi del fenomeno hanno potuto suggerire che tutto quello che al Festival non codifica, che cioè non viene trascritto nella competizione canora, è proprio ciò che conferisce al Festival il suo carattere rituale, liturgico, sacrale. La settimana santa della musica, diceva appunto Fiorello, e non è un’esagerazione. Perché infatti le società stanno insieme? Perché gli individui hanno bisogno gli uni degli altri per scambiarsi il necessario. Poi, però, c’è tutto il resto, tutto quello che gli uomini fanno al di là della razionalità ristretta dello scambio. La spazzatura. E cioè, la festa, il dono, il riso, l’arte, l’erotismo.

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Prendete perciò un gioco, uno qualunque, e provate a ridurlo allo scheletro delle sue regole: non ci riuscirete, il suo “senso” sarà sempre di più e oltre la mera applicazione regolamentare (a meno che non abbiate un Codacons tra i piedi, ma questa perversione era sconosciuta a Georges Bataille, al quale abbiamo sin qui chiesto in prestito i concetti). E così è anche per la serata sanremese: la scaletta delle canzoni in gara da sola non dice gran che. E non basta neppure una spiegazione economicistica, in termini di introiti pubblicitari e dati d’ascolto (peraltro impressionanti). Bataille parlava perciò di “spreco” e “impiego improduttivo”, e effettivamente non saprei trovare parole migliori per descrivere queste mie serate davanti alla tv. Non trascrive nulla, non codifica un bel niente, non spiega e non si spiega. Però, cavolo, arriva.

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