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il foglio del weekend

X Factor in un brodo di miele

Simonetta Sciandivasci

E’ finita l’ultima edizione del talent show che si è trasformato in reality. La dittatura dell’emozione e il nuovo linguaggio che vuole convincerci che l’artista ci commuove con la sua vita, non con la sua opera

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L’emozione non ha voce. Che verso. E che canzone. Era il 1999, i talent show non esistevano e nemmeno lo streaming – si compravano gli ultimi cd, arrivava Napster. Adriano Celentano cantava quelle parole dentro una canzone d’amore bellissima, ruvida e un po’ brusca, che si chiamava “Io non so parlar d’amore”, dentro un disco con lo stesso nome, che vendette due milioni di copie e più. Vent’anni e passa dopo, a nessuno verrebbe in mente di cantare o dire che l’emozione non ha voce. Nessuno lo penserebbe nemmeno. Non scherziamo.

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L’emozione non ha voce. Che verso. E che canzone. Era il 1999, i talent show non esistevano e nemmeno lo streaming – si compravano gli ultimi cd, arrivava Napster. Adriano Celentano cantava quelle parole dentro una canzone d’amore bellissima, ruvida e un po’ brusca, che si chiamava “Io non so parlar d’amore”, dentro un disco con lo stesso nome, che vendette due milioni di copie e più. Vent’anni e passa dopo, a nessuno verrebbe in mente di cantare o dire che l’emozione non ha voce. Nessuno lo penserebbe nemmeno. Non scherziamo.

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Per noi l’emozione ha voce e, di più, è voce. Significa che, prima ancora di provarla, forse persino indipendentemente dal provarla, la comunichiamo, la evochiamo, la diciamo con insistenza, come si fa con le cose smarrite, i sogni confusi, i ricordi sbiaditi. Senza emozione non comunichiamo, non giudichiamo, non memorizziamo. E’ condizione e condizionamento. Metro, partenza, arrivo. Non conta cos’hai da dire, conta se lo dici emozionandoti ed emozionando. L’emozione ci emoziona. L’edizione di X Factor di quest’anno, la quattordicesima, lo ha dimostrato a ogni puntata, per tre mesi, fino a giovedì scorso, quando s’è conclusa nella sola maniera possibile: premiando l’artista che meglio si è prestato a quella particolare narrazione e al suo potere fantasmatico. Casadilego ha diciassette anni, i capelli verdi, gli occhi a volte verdi altre azzurri, veste spesso di blu, il colore che per Kandinskij aveva il senso delle cose, quando canta sussurra, controlla, non sbaglia. All’inizio del programma, era una delle poche che, oltre alla bravura, aveva un’intensità struggente, delicata, di fuoco e cristalli. L’anno scorso, per definire un gruppo con una voce simile (i Seawards), Samuel aveva usato Shakespeare: ghiaccio bollente.  

 

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Casadilego era ghiaccio bollente, e non diceva niente, cantava e basta, e si truccava poco, e si vestiva in modo che le si vedessero soltanto gli occhi, ma poi Hell Raton ha fatto il suo lavoro di giudice, s’è messo a sottolineare, evidenziare, marcare, straparlare, e dalla costola di un’adolescente talentuosa ha creato il prototipo del vincitore del Fuori Sanremo. I detrattori hanno detto che è stato la summa delle edizioni peggiori, perché di artisti di talento ce ne sono stati meno di sempre, e i giudici hanno fatto uno sporchissimo lavoro da tv del dolore, parlando tutti come un tempo parlava Simona Ventura. E’ un’analisi sbrigativa. Quest’anno hanno contato i giudici che, più che guidare i concorrenti, li hanno plasmati a immagine e somiglianza dei loro discorsi. La musica era scialba, il talento scarseggiava, e allora la potenza verbale e la narrazione hanno rattoppato, sostituito, adornato e, addirittura, creato. I giudici non hanno mostrato quello che il pubblico non riusciva a vedere, aiutando l’artista a tirarlo fuori: i giudici hanno mostrato qualcosa che non c’era, parlandone. Con enfasi, con emozione, con esagerazione. L’opera d’arte è l’esagerazione di un’idea, scrisse Gide.

 

A X Factor, l’opera d’arte è l’esagerazione di un’emozione – non storcete il nasino, i concorrenti di un talent show sono pulcini delle primavere di altri artisti, ma pur sempre artisti. Molto più delle performance e dei giudizi successivi, decidevano le introduzioni alle performance: Emma che diceva al pubblico che Blind è un ragazzo splendido, autentico, con un cuore enorme anche se inspessito dalla vita, uno che ne ha viste tante e forse perfino troppe; Hell Raton che si teneva la mano sul cuore, facendo un cuore con le mani, mentre ci preparava all’esibizione di Casadilego, avvisandoci che aveva scelto un brano che per lei aveva un significato personale molto profondo e importante mentre lei piangeva e diceva che no, non poteva raccontare altro, forse un giorno lo avrebbe fatto, chissà; Manuel Agnelli che ci spiegava che stavamo assistendo a una rivoluzione nella storia della televisione, oltre che della musica, perché non s’è mai visto un gruppo hard rock, noise, duro, col cantante che canta come suona la batteria e suona la batteria come canta; Mika che si professava seguace, adepto, incantato pazzo di Naip, un genio della canzone, del movimento, del live, del pensiero. Al pubblico, spronato e imbottito di parole steroidee, i giudici sembravano non voler lasciare altra scelta che farsi mesmerizzare, sembravano volerli saziare e deliziare di antipasti, stordire di parole incensate. Molto più della qualità musicale dei Little Pieces of marmalade ha contato quello che di loro ha raccontato Agnelli, che non ha mai mancato di indicare in loro gli apripista di una nuova era, i picconatori del pregiudizio indie che impedisce agli indie di andare in televisione per timore di venirne stritolati, deturpati, omologati, sgrassati, lavati, stirati. Ed è vero: X Factor ha lasciato che i Little Pieces of Marmalade fossero chi sono, perché tutto quello che non sono (geni, inediti, nuovi, coraggiosi) lo ha detto Agnelli e tanto è bastato. Il suo racconto partecipato, emozionato, coinvolto, esagerato non li ha investiti di una responsabilità: ha costruito la loro identità. Non è maieutica: è invenzione. Gli altri giudici hanno lavorato nel medesimo modo. Tutti. I detrattori hanno ragione quando lamentano l’insipienza dei giudizi, la scarsa attenzione al dato musicale, la preponderanza dell’emotività, il fatto che a nessun concorrente sia stata mai detta una parola dura perché tutto andava bene purché fosse fatto “col cuore”: ma questo è sempre capitato, almeno nelle edizioni dell’ultimo lustro. Quest’anno è successo, in modo più forte e impressionante, che le parole sulla musica hanno deciso la musica. Che parole erano? Edulcorate, deformanti, insincere. Soprattutto insincere. Come hanno potuto, quattro popstar senza niente da perdere, molto strutturate e affermate, produrre una così devastante mole di balle? Se ne sono rese conto? Quando il pubblico ha mandato Blue Phelix a casa, Emma Marrone ha detto che l’Italia non era pronta alla dirompente novità di un travestito con un microfono in mano (agli italiani, capite, agli italiani che hanno visto Loredana Bertè e Renato Zero quando Emma giocava con i boccoli delle bambole e Blue Phelix non aveva nemmeno i capelli, perché non era nemmeno nato). I giornali ne hanno parlato per giorni, al bar qualcuno ne ha dibattuto, in qualche disperata chat WhatsApp alcuni ventenni che Renato Zero se lo ricordano già vecchio si sono detti: ma in che paese viviamo, a quanti secoli di distanza siamo da Lady Gaga (una che peraltro da Zero e Bertè qualche giacca l’ha copiata).

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Quando a casa sono stati spediti i Melancholia, Agnelli che in loro vedeva “la novità più incredibile di tutta la storia di X Factor in Italia”, ha detto che eravamo tutti sconfitti, che il paese procedeva come un gambero (o come un penitente a una processione del venerdì santo?), un passo avanti e tre indietro, o dieci, o cento. Ci credeva davvero? E noi, ci abbiamo creduto davvero? La recita del talent show che è sempre più un reality show e del reality show che è sempre più un controllatissimo feuilleton si regge su una complicità tra attori e pubblico? La soluzione di continuità c’è ma non si vede? E’ nebbia o faro? Com’è possibile che il linguaggio di verità per la verità crei e, insieme, offuschi? Al di là del bene e del male c’è un mondo da semantizzare e la sola semantica possibile è l’emozione? Al di là del bene e del male, più semplicemente, c’è l’emozione. Il linguaggio che si presta a tutto questo è reduce da anni di politicamente corretto, poi scorretto, poi ricusato, poi cancellato, poi rifondato. Un linguaggio smarrito dove la sola bussola è il sentire, il sentirsi: l’essenziale, l’emozione. E ora, a che punto siamo? Ora che siamo così emotivi, provati dalla pandemia, terrorizzati dai crimini culturali, aizzati all’ostensione perpetua di pregi e difetti dal body positive, indotti all’esposizione dall’esemplarità dei social network, ora che persino Angela Merkel ci fa commuovere e lo fa non tanto per la bellezza e il senso di quello che dice – “Cosa diremo quando guarderemo indietro?”, il miglior monito di sempre alla responsabilità – ma per come lo dice (i titoli dei giornali erano quasi tutti su questo, sul fatto che la Cancelliera, l’altro giorno, nel suo discorso alla nazione tedesca – sì, nazione – ha quasi pianto). Ora che persino Maria Elena Boschi ci fa compassione, perché Lilli Gruber fa con lei il suo lavoro, e le fa delle domande dirette, precise, forse antipatiche, ma le fa senza metterci nemmeno una pausa, un sorriso, niente di quello che su una chat alleggeriremmo con un adesivo, un cuoricino, un vocale cantato. A che punto sono le nostre parole? Nel pantano dell’emozione. Pantano, sì. “Moriamo. Forse questo è il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse questa è la misura delle nostre vite”, ha scritto Toni Morrison.

 

Nel 1999, quando Celentano cantava che l’emozione non ha voce, il politicamente corretto già esisteva ma non era centrale nel dibattito pubblico. Il problema di come dire le cose se lo ponevano in qualche università americana, e nessun perdeva il lavoro per un insulto, una frase ambigua, un reato culturale. Esisteva già la tv del dolore, il sentimentalismo cialtrone dell’editoria, il surplus economico del buonismo, ma nessuno badava né ai traumi che i crimini culturali potevano incidere nella coscienza delle persone, né al fatto che le parole sbagliate producevano fatti sbagliati e, prima ancora, sottoculture sbagliate. I discorsi più esasperati e morbosamente emotivi, nel 1999, riguardavano la fine del mondo: ci aspettavamo un gran boato, un’apocalisse digitale, il millennium bug, il cortocircuito di tutto, e invece non successe niente. “Il Duemila è stato un grande mito finché non è diventato una realtà. A tradimento, si realizzò il più normale capodanno e io non ricordo nemmeno dove sono andata a cena”, scrisse Franca Valeri nella prima pagina di “Il secolo della noia”. L’11 settembre cambiò tutto, l’occidente cominciò a parlare di islam, terrorismo, religione, fede, multiculturalismo, integrazione, distinzione, e dall’uso accorto e consapevole delle parole cominciarono a dipendere la geopolitica, la pace, la guerra, le relazioni. Il riverbero sulla vita di tutti i giorni ci mise anni a mostrare la sua influenza e soltanto nei mesi successivi al #MeToo ci rendemmo conto davvero di quali e quante cose quella gigantesca breccia che si aprì nella coscienza occidentale nel 2001 aveva illuminato e di come ciascuna di quelle cose reclamasse il suo posto e i suoi diritti. Nella prima parte degli anni Zero, il politicamente corretto era per alcuni il linguaggio necessario alla transizione verso un nuovo mondo, tutto da definire e risemantizzare, per altri una specie di dottrina totalitaria che si rifiutava di definire le cose con il loro nome, annacquandole per non accettarle e, soprattutto, correggerle. Poi, dal produrre una protezione, ha cominciato a essere una barriera e l’effetto di riottosa esasperazione non s’è fatto attendere. Dopo Obama, la presidenza degli Stati Uniti è andata a Donald Trump, che secondo alcuni ha vinto perché diceva tutto quello che, per anni, gli americani non avevano potuto dire, era tremendamente sincero e sinceramente tremendo, uno di loro, uno di tutti nell’ora di tutti. Quella sincerità di Trump, naturalmente, era affabulazione, menzogna capitale, al pari della verità dei reality show, ma contava l’enunciazione, contava la corrispondenza tra brutalità e schiettezza. “Il problema di questo paese è il politicamente corretto”, è stata una delle prime cose che Trump ha dichiarato da presidente degli Stati Uniti. Negli anni della sua presidenza c’è stato un ennesimo ripensamento: l’odio sovranista e le semplificazioni meschine dell’estrema destra hanno collaudato una riflessione più ampia sull’importanza del linguaggio. Sui social network, gli hater, il razzismo, la cancel culture e i rigurgiti neofascisti, a un certo punto, hanno cominciato a far notizia come fossero guerre e il loro condizionamento è parso una catastrofe socioculturale tale per cui il solo modo per opporsi a quel montare di furia e disumanità è parso essere la disintossicazione del linguaggio e, insieme, l’ostentazione dei buoni sentimenti. “Descrivere è diventato un reato”, ha detto alcuni mesi fa Barbara Alberti a questo giornale. Erano le settimane in cui le statue di Colombo venivano buttate giù negli Stati Uniti, in Italia si discuteva della necessità di rimuovere il busto di Indro Montanelli da un giardino pubblico e ci si divideva sulla rimozione di “Via col vento” a tempo determinato. Quello che X Factor ha mostrato in modo molto evidente, di questa nuova parentesi che si apre nell’uso del linguaggio, di questo nuovo modo di esagerare con le parole, è che non solo non siamo in grado di accettare la realtà: siamo diventati bravissimi a costruirne una con le parole. Una realtà a prova di indignato, naturalmente. Ma pure una realtà continuamente simulata. Manuel Agnelli straparla di rivoluzione del rock, nel rock, per il rock e diventa vero, e l’underground sembra rispondere alla sua chiamata, e il vecchio rivitalizza il nuovo, e si fa l’amore a ognuno come gli va. All’inizio della discussione sul pol corr, uno degli annessi fondamentali fu il dibattito sulle fake news: era un dibattito molto delicato, che trattammo in modo grossolano, finendo presto con il far coincidere fake news e menzogna. Ma la fake news era qualcosa di più sfaccettato di una bugia: era il prodotto dell’imprecisione, dell’improprietà del linguaggio, che si espandeva con la grande propagazione dei social network.

 

Adesso, il motore di quella improprietà non è l’imprecisione e nemmeno l’ignoranza, ma l’emotività. E’ infarcendo di emotività ogni discorso e racconto che impediamo alla realtà di mostrarsi, emergere, parlarci. Blind non ha alcun talento? Ricamiamoci sopra. Emma Marrone ha detto: essere rock’n’roll oggi significa dire quello che ti passa per la testa, senza pensare alle conseguenze. Alcune cariatidi e certi puristi si sono arrabbiati: come si permette una cantante che fa pop commerciale di parlare di rock’n’roll e, per giunta, ridefinirlo? Il punto interessante, naturalmente, non è questo quanto il fatto che Emma usi un genere musicale per difendere la libera espressione, che per lei è prima di tutto un’attitudine emotiva. “Hai fatto sentire tutto il disagio di Giovanni Lindo Ferretti”, ha detto lei a Naip, uno dei concorrenti in gara, quando ha commentato la sua interpretazione di “Annarella” dei CCCP. Una canzone che con il disagio non c’entra niente, che parla di abbandono e dono di sé. Ma di disagio, periferia, emozione, cuore, nervi, ribellione i giudici di X Factor ritengono che il pubblico sia ghiotto e allora ne hanno visto e segnalato tonnellate anche dove non ce n’era neppure l’ombra. Dire “disagio” serve a rendere inattaccabile chiunque, perché la nuova ondata di comunicazione illiberale vuole convincerci che l’artista ci commuove con la sua vita, non con la sua opera. A rendere quell’opera interessante ci pensa un giudice televisivo, mecenate trimestrale, con le sue parole di burro. Di miele. Di fiele.

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