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L’altro mondo di Jovanotti

Stefano Pistolini

Un piano di viaggio rudimentale, l’America latina, la fame di vita. Arriva su RaiPlay un diario estremo

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Ma dove vai, Lorenzo in bicicletta? Era l’altro mondo, quello remotissimo tra gennaio e febbraio del 2020, un secondo prima della grande botta. Ed era anche, geograficamente, l’altro mondo, non proprio agli antipodi, ma quasi – Cile, Argentina, giù di lì. E’ stato là e allora che Cherubini, ragazzo dei grandi estremi, ne ha tentata un’altra. Andando a cercare quello che c’è all’opposto del Jova Beach Party e della sua balneare comunione dei corpi, nella solitudine/beatitudine delle Ande, a 5.000 metri di altezza, dove non c’è niente e c’è tutto, dove l’avventura, lo spazio, il sentimento e se stessi non bisogna cercarli, perché ci sei talmente dentro che l’unico pericolo è non vederli. Il pieno e il vuoto affascinano Jovanotti e per capirlo basta ascoltare i suoi dischi. Ma il satòri dello spirito collettivo che un anno fa ha italianizzato con quello show sulle spiagge, oggi assume una dimensione remota, sfiora il “proibito” nell’elenco di raccomandazioni anti contagio e va incasellato come un momento classico. Intanto, però, prendi una bici e vai.

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Ma dove vai, Lorenzo in bicicletta? Era l’altro mondo, quello remotissimo tra gennaio e febbraio del 2020, un secondo prima della grande botta. Ed era anche, geograficamente, l’altro mondo, non proprio agli antipodi, ma quasi – Cile, Argentina, giù di lì. E’ stato là e allora che Cherubini, ragazzo dei grandi estremi, ne ha tentata un’altra. Andando a cercare quello che c’è all’opposto del Jova Beach Party e della sua balneare comunione dei corpi, nella solitudine/beatitudine delle Ande, a 5.000 metri di altezza, dove non c’è niente e c’è tutto, dove l’avventura, lo spazio, il sentimento e se stessi non bisogna cercarli, perché ci sei talmente dentro che l’unico pericolo è non vederli. Il pieno e il vuoto affascinano Jovanotti e per capirlo basta ascoltare i suoi dischi. Ma il satòri dello spirito collettivo che un anno fa ha italianizzato con quello show sulle spiagge, oggi assume una dimensione remota, sfiora il “proibito” nell’elenco di raccomandazioni anti contagio e va incasellato come un momento classico. Intanto, però, prendi una bici e vai.

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E sei già altrove – e questo è lodevole. Il ritmo stavolta è quello delle pedalate che ti portano su e il tempo è variabile, mica inchiodato alle battute della cassa, prodotto piuttosto dai capricci della stagione. “Non c’è montagna più alta di quella che non scalerò”, canta a un certo punto Lorenzo vagando su un altopiano al confine con la Bolivia: in ogni caso si deve andare, staccare, sostituire un registro con un altro, interpretare il proprio destino da eroe involontario, si deve provare e vivere, non lasciare che l’amore muoia davanti alla tv. Una vibrazione di fame di vita, che Jovanotti assapora prima per se stesso, per placarsi, e poi anche per noi, il pubblico affezionato a cui lui parla instancabilmente, in quel monologo cominciato chissà quante lune fa e mai interrotto, perché proprio la condivisione frenetica è il segreto del suo successo. Tutto ciò stavolta prende la forma di un programma tv-diario di viaggio in 16 brevi puntate, intitolato “Non voglio cambiare pianeta”, da domani in onda su RaiPlay, il canale web instradato a diventare un luogo di composte sperimentazioni per immagini (ma il titolo è solo la sintesi del pensiero espresso a perdifiato dall’autore: “Ci ha proprio detto culo di nascere in questo pianeta… mamma mia!”). Un piano di viaggio rudimentale, partenza da La Serena, Cile, direzione nord lungo la Cordigliera. Anni fa Lorenzo aveva fatto qualcosa del genere in Patagonia e ne era uscito il libro “Il grande boh” che, tra i gorghi di un fiume di parole, cominciava a disegnare il “secondo piano” della sua personalità adulta, dismessi momentaneamente i panni di Jovanotti: uno spirito febbrile, che è perfino banale apparentare a quello dei beat, che come lui non stavano fermi un momento e davano il meglio più nell’atto del progettare, che nel dare forma definitiva ai loro progetti.

E oggi rieccolo, da solo a zonzo nell’estraneità primordiale di una terra straniera, eccolo pedalare accompagnato soltanto dalla sua ombra, ogni tanto traversato da un fiotto di nostalgia per le sue donne a casa, che l’hanno lasciato partire, perché mica lo puoi tenere al guinzaglio – ma andargli dietro, santa Madonna, anche no. Lorenzo, una GoPro sempre a rigirarsela tra le mani, e “si parte si parte / il dito sulle carte”: gli restano le sue elucubrazioni free, Il vento che copre la voce, la strada tutta da inventare e i mille fantasmi che vengono a fare un brandello di viaggio con lui, Pantani e Terzani, Pratt, Fellini e Neruda, tra soliloqui e deliri. Lorenzo ulula, urla, abbaia e intanto continua a pedalare, dieci, dodici ore al giorno, ride molto, sorride, ripete “bello il mondo” e un po’ alla volta la visione di questi filmini diventa ipnotica. Lui mica è un ragazzino, ha passato i 50, è bruciato come un peperone, un po’ indifeso sulla sua tecno-bici da nerd, pronto a fidarsi degli altri, però guardingo, alla perenne ricerca di piccole gioie. Finché a metà del viaggio non lo raggiunge l’amico meccanico di Forlì e fa un pezzo di strada con lui, gli cambia la catena, lo sostiene e gli aumenta il gusto dell’impresa, scalando salite infinite, in un Far West punteggiato di villaggi al reggaeton. Poi l’amico torna a casa e Lorenzo è di nuovo solo e nel frattempo ha sconfinato in Argentina, plana verso la pampa, in quella civiltà argentina che ci è così affine, ricostruita a testa in giù, finché non si scoccia, sale su un bus e trascorre gli ultimi giorni per le fascinose strade di Baires, tra il café di Cortazar, la Bombonera, il teatro Colon e i favolosi tanghéri.

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Appena tornato a casa Lorenzo, insieme a tutti noi, farà un altro viaggio, ben diverso, quello nella paura e nella quarantena. E così avrà passato le giornate rivedendo queste immagini e scrivendo, quasi soltanto con la chitarra, una colonna musicale per il film che è un piccolo oggetto da preservare, con tante sorprese inedite e non, da una versione di “Vivere” ad alto tasso di sbornia da altura andina, a un Bocelli rivisitato, a “I found my love in Portofino” riletto alla sciué sciué. “Non voglio cambiare pianeta” è un episodio non trascurabile del Jovanotti minore, indispensabile per chi abbia ancora voglia di esplorare l’artista, esempio di come oggi si possa giocare con la produzione di immagini mischiandole col nostro vissuto e, nel caso di Lorenzo, col suo irrequieto rapporto con la bellezza, la ricerca delle conferme, il sussultare del motore interiore delle domande e delle risposte. Quando ci saluta, sulle ultime pedalate del trip, lui dice: “Sono determinato a far cose che mi accendono” e a commuovere non è la dichiarazione d’intenti, quanto la determinazione con cui la pronuncia. Che viene dalla vita florida e piuttosto eccezionale che ha vissuto, ma anche dal suo essere figlio di un secolo che s’allontana alla velocità della luce e dal ricordarci che il lavoro non è mai finito. Perché ci sono altre cose da fare, imparare e perfezionare e non dobbiamo mai smettere di ringraziare la sorte che ci ha fatti esistere così – capaci perfino d’inventare la bicicletta.

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