Il retroscena

Cosa c'entrano Musk, i sauditi e la libertà d'espressione? Follow the money

Pietro Minto

La Silicon valley e chi investe per la conquista di Twitter è l’ennesima conferma dello strapotere che pochi fondi di investimento – privati o legati a monarchie del petrodollaro – hanno nel settore tecnologico

Il fondo sovrano del Qatar, il principe saudita Al Walid bin Talal, il fondo di investimenti a16z, oggi particolarmente attivo nel campo del crypto, e l’onnipresente Sequoia Capital, società di venture capital della Silicon Valley. Sono solo alcuni dei diciotto investitori che aiuteranno Elon Musk a conquistare Twitter, riducendo in parte l’esposizione debitoria a cui il miliardario è andato incontro per comprare il social network. Sono i soliti noti delle acquisizioni, da un certo punto di vista; dall’altro, però, non possono che confondere e preoccupare chi segue la querelle Elon Musk-Twitter, nata come una crociata del ceo per la difesa della “libertà d’espressione”. Cosa c’entri quest’ultima con un principe dell’Arabia Saudita, nazione che si piazza al 170esimo posto nella classifica annuale dell’associazione Reporters Sans Frontières sulla libertà di stampa e parola, è poco chiaro.
 

Ma la presenza di Al Waleed tra gli investitori non deve stupire: il principe è dal 2015 uno dei principali azionisti del social network, di cui deteneva il 5,2 per cento  di azioni. Quando Musk annunciò il suo piano di conquista di Twitter, poche settimane fa, fu proprio il saudita a rispondere con scetticismo, definendo troppo bassa l’offerta del fondatore di SpaceX. Seguì uno scambio di tweet tra i due che si concluse con due domande di Musk: la prima, sulla percentuale di Twitter riconducibile al Regno dell’Arabia Saudita; la seconda:  “Quali sono le posizioni del Regno sulla libertà di espressione giornalistica?”. A giudicare dalla notizia di giovedì sera, che ha ufficializzato l’accordo tra le due parti, la risposta finale deve averlo convinto – o forse sono state le 35 milioni di azioni comprate dal principe per 1,89 miliardi di dollari.


Tra gli investitori, troviamo anche Marc Andreessen, fondatore del fondo a16z, il quale nei mesi scorsi ha bisticciato via tweet con Jack Dorsey, ex ceo di Twitter che pare molto vicino a Musk. Tutte le parti sembrano però d’accordo sull’utilità che l’acquisto del social potrebbe avere per il settore delle criptovalute. Lo dimostrerebbe anche la presenza di Binance, il maggiore servizio di scambio del mondo crypto, già noto per aver interrotto le transazioni nel pieno di alcuni crolli di borsa.


L’allegro carrozzone non rappresenta quindi una novità, quanto l’ennesima conferma dello strapotere che pochi fondi di investimento – privati o legati a monarchie del petrodollaro – hanno nel settore tecnologico. Già nel 2018 il Wall Street Journal aveva notato che il regno saudita era diventato il principale investitore nelle startup della Silicon Valley. Denaro che arriva direttamente dai fondi del paese, oppure attraverso VisionFund, un fondo per investimenti tecnologici e digitali che nel 2018 valeva 92 miliardi di dollari.
VisionFund è un veicolo finanziario di SoftBank, potente holding fondata a Tokyo da Masayoshi Son nel 1981, che ha ricevuto 45 miliardi di investimenti dal principe saudita Mohammed bin Salman. Lo stesso principe che, secondo la Cia, sarebbe stato il mandante dell’assassinio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, avvenuto nell’ottobre del 2018 presso il consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul.


Negli ultimi anni VisionFund, anche grazie al denaro saudita, ha fatto il bello e cattivo tempo nella Valley e non solo, investendo in ByteDance (società cinese proprietaria di TikTok), eToro, Uber, WeWork e decine di altre startup. Da tempo, quindi, i luminosi ideali di queste aziende che, almeno a parole, vogliono creare “un mondo migliore”, sono in netto contrasto con l’origine dei loro fondi. Un’influenza che non è diminuita nemmeno dopo le indagini sul caso Khashoggi.


Elon Musk non ha quindi causato il coinvolgimento dei sauditi in Twitter. A giudicare dai suoi tweet, materiale però piuttosto difficile da interpretare, sembra averlo saputo (o essersene ricordato) solo dopo il tweet in cui Al Waleed puntava i piedi contro l’acquisizione del social network. Alla fine, però, la crisi è rientrata. Anche questa volta la libertà d’espressione è salva.

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