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Il miracolo del noioso Tim Cook, il re Mida di Apple

Eugenio Cau

Quando l'attuale amministratore delegato ha sostituito Steve Jobs tutti pensavano al fallimento. Eppure grazie a lui oggi Apple è diventata la prima azienda al mondo a superare una capitalizzazione di mercato (cioè il valore di Borsa) di tremila miliardi di dollari

Quando Tim Cook divenne ceo di Apple, il 24 agosto del 2011, tutti credevano di sapere come sarebbe andata. E quando, un mese e mezzo dopo, il 5 ottobre, Steve Jobs morì, per molti la decadenza di Apple era solo questione di tempo. Non era semplicemente un presentimento dovuto al fatto che Jobs era geniale e Cook noioso, c’erano i precedenti. Jobs fondò Apple assieme a Steve Wozniak nel 1976. Per un decennio la società crebbe in maniera spettacolare, creò prodotti iconici come il Macintosh e divenne il primo produttore di computer negli Stati Uniti. Poi nel 1985 Jobs fu costretto a dare le dimissioni a causa di una congiura interna, e Apple crollò – non fallì, certo, ma ebbe un decennio di perdite economiche e cattive idee. Jobs tornò nel 1997, risollevò Apple, creò l’iMac, l’iPod e infine l’iPhone, fece la storia. Nel farlo, però, aveva reso ben chiara a tutti una lezione: senza Steve Jobs, Apple crolla.

Peraltro, anche il fattore “Jobs era geniale, Cook è noioso” era piuttosto importante per i pessimisti – cioè, nel 2011, praticamente tutti gli analisti del mondo. Al momento della morte di Jobs, Apple non era una società qualsiasi, ma era una società che Jobs aveva reso grande praticamente a forza di colpi di genio. Aveva creato il computer perfetto, il computer portatile perfetto, il lettore musicale perfetto, e infine lo smartphone e tutto il mercato di internet mobile. L’aveva fatto con una personalità esorbitante e tormentata, che l’aveva trasformato in una delle persone più famose del mondo. Tim Cook, invece, era un manager esperto di logistica che aveva fatto buona parte della sua carriera a Ibm e poi a Compaq, una società che, per chi se la ricorda, negli anni Novanta produceva brutti computer di plastica grigia per gli uffici. Quando arrivò ad Apple, nel 1997, sembrò un manager efficiente ma arido, “completamente privo di una personalità degna di nota”, come ha detto qualche tempo fa un ex manager di Apple a Bloomberg, che comprensibilmente non ha voluto rivelare la sua identità. Cook lavorava 18 ore al giorno, e di notte continuava comunque a mandare email. Quando non era in ufficio, sembrava vivesse in palestra. “L’ho sempre trovato eccezionalmente noioso”, ha detto l’ex manager, e questa era più o meno la sensazione che tutti avevano, nel 2011.
 

La situazione di Apple nel 2011 era potenzialmente preoccupante: dopo aver perso il suo nume tutelare, si trovava con una nuova guida “eccezionalmente noiosa” – e le previsioni funeste sembrarono semplici da fare. Tanto più quando si scoprì quali furono le prime mosse di Tim Cook da nuovo ceo. Tra le altre cose, si mise a rivalutare la catena degli approvvigionamenti dell’azienda, i rapporti con i fornitori e la gestione dei magazzini. Ecco il burocrate che trasforma Apple in un’azienda arida, rassegnata e infine fallimentare, come Compaq, pensarono tutti. Sull’“arido” avevano un po’ ragione. Per molti versi, oggi Apple è un’azienda molto più convenzionale di quanto non fosse undici anni fa. Sul “fallimentare”, oggi sappiamo che ovviamente no.

Si può facilmente dire che Apple sia l’azienda più ricca e di maggior successo al mondo, e una delle più importanti della storia, e in gran parte grazie a Tim Cook. La scorsa settimana è diventata la prima azienda al mondo a superare una capitalizzazione di mercato (cioè il valore di Borsa) di tremila miliardi di dollari. Nell’agosto del 2020, era diventata la prima azienda a fare duemila miliardi di dollari. E nell’agosto del 2018 era diventata la prima a fare mille miliardi. In pratica: per fare il primo “trillion” (così si chiama in inglese) Apple ci ha messo 42 anni. Per fare il secondo, Tim Cook ci ha messo due anni. Per fare il terzo, gli è bastato un anno e mezzo.

 

Oggi Apple è un’azienda più prospera e influente di quanto lo fosse con Steve Jobs, che in alcuni settori di business ha un dominio completo non soltanto sul mercato, ma sull’immaginario. Non solo. E’ impossibile ovviamente fare la storia con i se, ma si potrebbe perfino dire che oggi Apple sia un’azienda più prospera e influente di quanto non sarebbe stata sotto Steve Jobs. Dopo aver creato una serie di prodotti perfetti e rivoluzionari, è probabile che a un certo punto l’eccezionale creatività di Jobs avrebbe rallentato – un po’ come era successo durante la prima crisi di Apple, negli anni Ottanta. Dan Wang, un professore di Business alla Columbia University, ha detto al Financial Times che sotto Jobs Apple era come un’azienda di alta moda: bisognava sempre tenere le dita incrociate e sperare che la collezione di quell’anno fosse un successo, altrimenti erano guai. Jobs aveva fatto un decennio di collezioni perfette, ma non sarebbe potuta andare così per sempre. Un paio di prodotti sbagliati, e chissà cosa sarebbe successo ad Apple, e al carattere rancoroso di Steve Jobs. Il miracolo del noioso Cook è stato quello di liberare Apple da questo tormento e darle una solidità oltre alle esplosioni geniali di Jobs: tenerla viva senza il bisogno di avere sempre il motore al massimo.

 

Cook ci è riuscito principalmente in tre modi. Anzitutto, tutte quelle attività da burocrate che Jobs un po’ disprezzava, tipo occuparsi della catena degli approvvigionamenti e gestire i rapporti con i fornitori, tenere bassi i prezzi di produzione e gestire magazzini e forniture, sono state in realtà una delle più grandi rivoluzioni di Tim Cook. Cook è un genio della logistica, che ha capito che per dare continuità e prosperità al business di Apple era necessario renderlo più razionale e sistemare alcuni eccessi dell’èra Jobs, negoziando con i fornitori per ogni centesimo e lavorando per creare il sistema di supply chain più efficiente del mondo. Cook ha anche limato i costi, creando prodotti che non rispondevano soltanto al senso di perfezione estetica di Jobs ma anche alle necessità di guadagno dell’azienda. Come racconta Bloomberg, l’esempio perfetto è l’iPhone 6, uscito nel 2014: Cook spinse i progettisti ad abbandonare il costoso design degli iPhone precedenti, con i loro bordi squadrati e tagliati alla perfezione, in cambio di un design più tondeggiante: più convenzionale e soprattutto conveniente. (Apple avrebbe recuperato il design squadrato nel 2020, con l’iPhone 12).
In secondo luogo Cook ha capito che non c’era bisogno che, come al tempo di Jobs, i prodotti di Apple fossero sempre eccezionali. Era sufficiente che fossero eccellenti con una certa continuità, e il resto l’avrebbe fatto il “l’effetto network”. Con “effetto network” si intende una teoria economica resa celebre da Theodore Vail, uno dei primi grandi imprenditori americani delle telecomunicazioni, che scoprì nei primi del Novecento che il valore dei servizi offerto dalla rete telefonica aumentava con l’aumentare delle persone che si collegavano alla rete. In pratica, più sono le persone a cui puoi telefonare, più il telefono è importante per te e per il suo stile di vita. Sembra un concetto banale, ma l’effetto network è ancora oggi alla base di tutta l’economia di internet. Basti pensare a Facebook: se non ci sono le persone dentro, Facebook non vale niente.

Tim Cook ha perfezionato questo sistema in maniera eccezionale: ha trasformato l’insieme dei prodotti di Apple in una grande stanza degli specchi, in un eterno gioco dei rimandi. Chi compra un iPhone è spinto gentilmente (non con l’obbligo, come faceva Microsoft, ma dall’eccellenza del prodotto) a usare anche i servizi a pagamento di Apple, e magari a comprarsi anche un Apple Watch, che è compatibile solo con iPhone; chi compra un Mac potrebbe voler usare un iPad come secondo schermo; chi vuole guardare Ted Lasso, una bella serie tv prodotta da Apple, potrebbe volerla vedere nella migliore definizione possibile su una Apple TV; chi sviluppa applicazioni sa che gli utenti Apple pagano un po’ di più di quelli Android per le loro app, e quindi sarà incentivato a fare app migliori – e così via. Per creare questo eterno gioco dei rimandi, Cook ha scommesso tantissimo sui “servizi”, dalla musica alle serie tv al cloud, che adesso fruttano ad Apple 70 miliardi l’anno e che secondo alcuni analisti potrebbero costituire il 25 per cento del fatturato entro il 2025.

Per aumentare i riverberi dell’effetto network, Cook ha anche allentato un po’ l’austera linearità del pensiero jobsiano, per esempio aumentando di molto la quantità dei prodotti venduti. Alla morte di Jobs, Apple vendeva due modelli di iPhone e uno di iPad. Oggi offre otto modelli di iPhone e cinque di iPad, con dimensioni e specifiche variabili: convenzionale ma efficace. Cook ha anche prodotti che può definire come suoi, e che hanno avuto un successo enorme, su tutti l’Apple Watch e le AirPods. Niente di rivoluzionario, ma sull’autobus ormai le cuffiette bianche senza fili ce le abbiamo quasi tutti. Alcuni analisti ritengono poi che nei prossimi anni Cook tenterà di rafforzare la sua legacy proponendo anche lui, come il suo predecessore, un prodotto nuovo e capace di cambiare la società, come fu l’iPhone. Si parla molto, ma per ora con scarsa sostanza, di automobili elettriche e occhiali connessi.

 

L’ultima sorpresa di Tim Cook è che il ceo di Apple si è rivelato in questi anni uno dei più raffinati diplomatici dei tempi recenti. Il successo di Apple è appeso a diversi fili: il suo rapporto con la Cina, che per Apple è il secondo mercato più grosso e dove l’azienda ha circa il 90 per cento della produzione; il rapporto con l’Amministrazione americana, per ovvie ragioni, e il rapporto con l’opinione pubblica mondiale, che deve continuare a considerare Apple non soltanto come un’azienda, ma come un simbolo. E’ un’impresa quasi impossibile: la Cina e gli Stati Uniti non si amano, e l’opinione pubblica è molto volatile. Ma Cook c’è riuscito con un equilibrismo quasi ammirevole. In un momento in cui tutto il mondo odia le grandi aziende tecnologiche come Facebook e Google, è riuscito a tenere alta la reputazione di Apple, in parte grazie alle sue campagne a favore della privacy (che danneggiano opportunamente la concorrenza) e per l’ambiente. Per le sue posizioni, Cook è diventato perfino un’icona minore della sinistra americana. Ma al tempo stesso, come racconta Bloomberg, quando l’orribile Donald Trump entrò alla Casa Bianca Cook se lo fece amico, andava a trovarlo quasi una volta al mese e gli telefonava spesso. Si prestò perfino a una finzione elettorale di Trump: nel 2019 lo accompagnò nell’unica fabbrica di computer Apple ancora presente negli Stati Uniti e gliela fece inaugurare, prendendosene il merito, anche se la fabbrica era aperta da sei anni.

La diplomazia di Cook gli ha consentito anche di superare indenne la guerra commerciale tra Trump e la Cina, e di tenersi buoni da un lato l’Amministrazione Trump, dall’altro il regime comunista cinese: delle grandi aziende tecnologiche americane, Apple è una delle pochissime che ancora può operare in Cina, e questo sia perché si occupa solo marginalmente di contenuti sensibili (vendere telefoni è meno compromettente di gestire un social network), sia perché, quando il regime chiede di censurare, Apple censura quasi sempre.

Insomma, in undici anni Tim Cook ha fatto di Apple la più eccezionale tra le aziende convenzionali del mondo, e adesso tutti hanno lo stesso timore che avevano nel 2011, ma alla rovescia: quando Tim Cook lascerà Apple (secondo indiscrezioni si parla del 2025) ci sarà qualcuno bravo abbastanza per sostituirlo?
 

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