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Occupy l’algoritmo

Eugenio Cau

I driver di Uber vogliono sapere come funziona, e sempre più aziende tech devono fare i conti con la trasparenza

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Milano. Un gruppo di driver del Regno Unito ieri ha cominciato un’azione legale contro Uber presso il tribunale di Amsterdam, dove si trova il quartier generale internazionale dell’azienda. I driver, che sono degli attivisti sostenuti da sindacati e associazioni, vogliono da Uber una cosa ben precisa: non paghe e orari migliori, ma informazioni su come funziona l’algoritmo segreto che regola e gestisce le corse delle loro auto, le tariffe, i percorsi. Ufficialmente, l’azione intrapresa dai driver britannici è una richiesta di accesso ai propri dati personali, fatta tramite il Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati. I driver chiedono di sapere quali informazioni detiene Uber sul loro conto, e come sono trattate e conservate. Ma poi, a un certo punto del documento presentato ad Amsterdam, chiedono accesso anche a informazioni su “l’esistenza di processi di decision-making automatizzato” e “informazioni utili sulla logica che sottende” a questo decision-making, che in pratica significa: vogliamo saperne di più su come funziona l’algoritmo. Questa richiesta si chiama “trasparenza algoritmica” ed è uno dei diritti più invocati dagli attivisti digitali. Anzitutto dai driver di aziende come Uber e dai rider delle aziende di food delivery, che sentono che il loro lavoro è dominato da algoritmi imperscrutabili: perché a un certo punto le tariffe delle corse su Uber aumentano e poi si riabbassano? Come succede che due rider stanno aspettando seduti sulla stessa panchina, a uno arriva da fare una consegna lontanissima e poco remunerativa e a un altro una consegna facile e rapida? I lavoratori dicono che vogliono sapere quali calcoli determinano il loro destino, le aziende invece sono restìe a svelare i loro algoritmi, perfino in piccola parte, e non hanno tutti i torti: gli algoritmi sono segreti industriali preziosi capaci di determinare il successo di un business, ed è un po’ come se i dipendenti della Coca-Cola volessero conoscere la ricetta segreta.

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Milano. Un gruppo di driver del Regno Unito ieri ha cominciato un’azione legale contro Uber presso il tribunale di Amsterdam, dove si trova il quartier generale internazionale dell’azienda. I driver, che sono degli attivisti sostenuti da sindacati e associazioni, vogliono da Uber una cosa ben precisa: non paghe e orari migliori, ma informazioni su come funziona l’algoritmo segreto che regola e gestisce le corse delle loro auto, le tariffe, i percorsi. Ufficialmente, l’azione intrapresa dai driver britannici è una richiesta di accesso ai propri dati personali, fatta tramite il Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati. I driver chiedono di sapere quali informazioni detiene Uber sul loro conto, e come sono trattate e conservate. Ma poi, a un certo punto del documento presentato ad Amsterdam, chiedono accesso anche a informazioni su “l’esistenza di processi di decision-making automatizzato” e “informazioni utili sulla logica che sottende” a questo decision-making, che in pratica significa: vogliamo saperne di più su come funziona l’algoritmo. Questa richiesta si chiama “trasparenza algoritmica” ed è uno dei diritti più invocati dagli attivisti digitali. Anzitutto dai driver di aziende come Uber e dai rider delle aziende di food delivery, che sentono che il loro lavoro è dominato da algoritmi imperscrutabili: perché a un certo punto le tariffe delle corse su Uber aumentano e poi si riabbassano? Come succede che due rider stanno aspettando seduti sulla stessa panchina, a uno arriva da fare una consegna lontanissima e poco remunerativa e a un altro una consegna facile e rapida? I lavoratori dicono che vogliono sapere quali calcoli determinano il loro destino, le aziende invece sono restìe a svelare i loro algoritmi, perfino in piccola parte, e non hanno tutti i torti: gli algoritmi sono segreti industriali preziosi capaci di determinare il successo di un business, ed è un po’ come se i dipendenti della Coca-Cola volessero conoscere la ricetta segreta.

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In risposta all’azione legale dei driver, Uber ha fatto sapere che “lavora sodo per fornire tutti i dati personali necessari” e che cerca di spiegarli quando non è possibile farlo. Le aziende di food delivery sostengono che i loro algoritmi sono completamente neutrali: l’ha fatto Deliveroo in una conversazione con il Foglio qualche mese fa. (Ovviamente gli algoritmi sono scritti da esseri umani e portano con sé i pregiudizi di chi li crea, ma l’idea è che le discriminazioni siano limitate il più possibile). I lavoratori però non sono convinti. Molti lavori giornalistici hanno raccolto materiale aneddotico su presunti problemi, e da ultima, in Italia, è stata la Cgil a fare causa perché l’algoritmo di food delivery consentirebbe “pratiche discriminatorie”.

  

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Non sono soltanto i driver e i rider a volere la trasparenza algoritmica. E’ una richiesta che viene fatta molto spesso anche alle altre aziende tech americane come Facebook, Twitter, Google, Amazon. Chiunque gestisca un sito internet, produca contenuti digitali, abbia un’attività online o venda prodotti sui grandi store digitali conosce la frustrazione da algoritmo: alcuni contenuti e prodotti hanno maggior successo di altri per ragioni spesso imperscrutabili, e qualunque tentativo di fare ingegneria inversa sui meccanismi di funzionamento delle decisioni automatiche è quasi sempre inutile. Sui social network come Facebook, Twitter, YouTube, la diffusione di bufale e disinformazione viaggia ovviamente grazie all’algoritmo. L’anno scorso, al Senato americano fu presentato un disegno di legge bipartisan per obbligare i social a spiegare agli utenti in base a quali ragionamenti dell’algoritmo vedono certi contenuti e non altri. Gli algoritmi, inoltre, sono sempre più spesso alla base di decisioni importanti della vita fuori da internet: negli Stati Uniti prendono parte alle sentenze giudiziarie calcolando per esempio la possibilità di recidiva di un imputato, o sono utilizzati nelle indagini di polizia: sui giornali americani abbondano i racconti di arresti sbagliati o pene ingiuste perché la macchina ha fatto confusione, oppure perché l’algoritmo tende a penalizzare gli afroamericani.

  

E dunque ci sono tante ragioni per chiedere agli algoritmi più chiarezza, e più le nostre vite saranno dominate da decisioni automatiche più la trasparenza algoritmica sarà importante. In alcuni casi, come negli algoritmi usati nei tribunali, è essenziale. In altri, come con Uber, bisogna cercare soluzioni di compromesso: i lavoratori devono sapere come è gestito il loro lavoro, ma senza la ricetta segreta la Coca-Cola non esisterebbe.

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