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Facebook contro Twitter

Redazione

Sull’affaire Trump, i due social mostrano differenze di strategie e di valori

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non otterrà la vendetta che desidera dal suo attacco di questi giorni ai social network: il suo ordine esecutivo è un’arma spuntata che travisa il testo della legge e sarà presto eliminato dai tribunali. Ma una conseguenza, in questa disputa social che ha distratto il presidente dall’emergenza Covid e dalle rivolte in Minnesota, c’è stata: ha reso evidenti le differenze di valori e di strategia tra i due social più citati nelle news, Facebook e Twitter. Mentre Twitter inaugurava una politica più assertiva contro le bufale pericolose e dannose per la democrazia, e ha deciso di segnalarle anche quando è l’uomo più potente del mondo a diffonderle (ma ha fatto lo stesso anche con un tweet fuorviante del portavoce del governo comunista cinese), il ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, andava in tv a dire che i social non sono “l’arbitro della verità di tutto quello che viene detto online”. Zuckerberg non si è fatto intervistare da una tv qualsiasi, ma da Fox News, per garantirsi che il suo messaggio passasse ben chiaro: signor presidente, io non sono come Twitter, qualunque cosa dirà io non mi permetterò di contraddirla. Nell’idea che i social non devono essere “arbitri della verità di tutto quello che viene detto online” c’è del giusto. Ma questo non è ciò che ha fatto Twitter, che si è limitato ad agire su pochi e specifici casi definiti in precedenza: pochi giorni fa Trump ha falsamente accusato di omicidio un giornalista nemico, e Twitter non ha toccato quel tweet. Il dibattito attorno ai social si gioca su un filo sottilissimo che comprende libertà d’espressione, libertà d’impresa, politica e responsabilità. I metodi usati da Twitter per frenare la deriva del discorso online sono incerti e probabilmente sbagliati, ma il principio di assumersi almeno un po’ di responsabilità è corretto. Facebook invece non ne vuole sapere.

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non otterrà la vendetta che desidera dal suo attacco di questi giorni ai social network: il suo ordine esecutivo è un’arma spuntata che travisa il testo della legge e sarà presto eliminato dai tribunali. Ma una conseguenza, in questa disputa social che ha distratto il presidente dall’emergenza Covid e dalle rivolte in Minnesota, c’è stata: ha reso evidenti le differenze di valori e di strategia tra i due social più citati nelle news, Facebook e Twitter. Mentre Twitter inaugurava una politica più assertiva contro le bufale pericolose e dannose per la democrazia, e ha deciso di segnalarle anche quando è l’uomo più potente del mondo a diffonderle (ma ha fatto lo stesso anche con un tweet fuorviante del portavoce del governo comunista cinese), il ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, andava in tv a dire che i social non sono “l’arbitro della verità di tutto quello che viene detto online”. Zuckerberg non si è fatto intervistare da una tv qualsiasi, ma da Fox News, per garantirsi che il suo messaggio passasse ben chiaro: signor presidente, io non sono come Twitter, qualunque cosa dirà io non mi permetterò di contraddirla. Nell’idea che i social non devono essere “arbitri della verità di tutto quello che viene detto online” c’è del giusto. Ma questo non è ciò che ha fatto Twitter, che si è limitato ad agire su pochi e specifici casi definiti in precedenza: pochi giorni fa Trump ha falsamente accusato di omicidio un giornalista nemico, e Twitter non ha toccato quel tweet. Il dibattito attorno ai social si gioca su un filo sottilissimo che comprende libertà d’espressione, libertà d’impresa, politica e responsabilità. I metodi usati da Twitter per frenare la deriva del discorso online sono incerti e probabilmente sbagliati, ma il principio di assumersi almeno un po’ di responsabilità è corretto. Facebook invece non ne vuole sapere.

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