La dirigenza di Uber sorride durante il debutto dell’azienda a Wall Street lo scorso maggio (Brendan McDermid / Reuters)

Il Foglio Innovazione

Il modello Silicon Valley è in crisi per assenza di fantasia

Adam Arvidsson

Il sistema di innovazione delle startup americane è nato negli anni Settanta e non è riuscito davvero a tenere il passo di internet, come mostra il caso WeWork. Provocazione

Il mondo delle startup della Silicon Valley è scosso dopo il disastroso tentativo di esordire in Borsa da parte della società di coworking WeWork, che è passata da essere una delle startup di maggior valore al mondo a trovarsi sull’orlo del fallimento. Tutti parlano delle valutazioni eccessive concesse ai pluricorni, le società valutate in multipli di miliardi di dollari, e si chiedono se siamo davanti a un modello ancora in grado di reggersi. E’ chiaro che una valutazione di 20 miliardi di dollari (poi diventati 47) per una società che affitta spazi di lavoro in uffici condivisi “non esiste”, è impensabile, come disse lo stesso cofondatore ed ex ceo di WeWork, Adam Neumann, nel 2017. Neumann preferiva giustificare l’enorme credito attribuito alla sua azienda parlando di “energia e spiritualità” piuttosto che di introiti.

 

La stessa magica relazione fra flussi di cassa e valore di mercato la troviamo in quasi tutti i pluricorni dell’economia digitale, e questo fenomeno riguarda tanto aziende della nuova generazione come Uber (valutazione 68 miliardi di dollari, ma business in costante perdita di circa mezzo miliardo all’anno, con un picco di oltre 5 miliardi nel secondo trimestre del 2019), Spotify o Netflix quanto realtà consolidate come Amazon (valutata a 227 volte gli utili, o circa dieci volte la media dello Standard & Poor’s 500) e Facebook. Secondo i dati, le performance di mercato dei cosiddetti giganti della Silicon Valley sono scarse. Soltanto le azioni Apple hanno un rapporto prezzo/utili migliore della media S&P. Alphabet e Facebook sono profittevoli la metà di una multinazionale media, Amazon dieci volte meno, e quasi tutte le società dell’ultima generazione, quella della cosiddetta sharing economy, sono in perdita. Queste piattaforme dominano il discorso sull’innovazione digitale, ma generano scarsa crescita economica e ancor meno utili significativi – almeno non in relazione alle somme enormi di capitale investito. Con l’eccezione del boom dot.com degli anni Novanta, anche i fondi di venture capital hanno avuto una performance non esaltante. Il sistema startup avrebbe dovuto generare una New Economy composta da una moltitudine di business sostenibili e innovativi ma ha creato poche società giganti con una performance economica pessima. Complessivamente non è stato in grado di rendere il digitale più redditizio di vecchi settori della Old Economy come, per esempio, quello automobilistico.

 


Un motivo sta nella natura del venture capital. Nato per fornire capitale ad alto rischio alla nuova industria dei semiconduttori negli anni Settanta, si è evoluto per gestire investimenti in mercati dove il futuro rimane imprevedibile, come quelli creati dall’esplosione del web negli anni Novanta. Il risultato è un approccio spray and pay dove i pochi successi devono compensare i molti fallimenti. Questo ha portato a una logica dove il venture capital serio, quello che fa scalare e crescere le startup, praticamente non si interessa di società con un potenziale valore al di sotto di un mezzo miliardo di dollari: cercare il prossimo Facebook o il prossimo Uber è l’unico modo per ottenere ritorni accettabili. Come sistema, il venture capital, assieme agli incubatori e acceleratori che lo accompagnano, non è orientato alla creazione di piccoli business sostenibili, ma di veicoli finanziari capaci di crescere in valore, o scalare – anche artificialmente se necessario.

 


L’unico modo in cui gli unicorni possono sostenere una tale valutazione è monopolizzando un settore di mercato (o, più spesso, mantenendo la promessa più o meno credibile di poterlo fare un giorno). In questo modo il modello Silicon Valley ha favorito la monopolizzazione di mercati esistenti come l’ospitalità, i trasporti o il mercato pubblicitario da parte di grandi intermediari digitali. La possibilità di sottomettere interi settori a tali forme di piattaformizzazione dipende in parte dell’efficienza degli algoritmi che vengono usati per coordinare le transazioni. Ma, principalmente, dipende dall’apertura di questi mercati, spesso consolidati da decenni, a nuovi attori disposti a lavorare per ricompense limitate come i rider di Deliveroo e i driver di Uber. Spesso, la volontà di pagare per i servizi offerti è così bassa che gran parte del venture capital viene utilizzato per sovvenzionare gli utenti. Ofo e le molte società di sharing di biciclette o di mezzi elettrici che hanno proliferato negli ultimi anni praticano un modello di business recentemente definito V2C (venture capital to consumer): cioè una specie di welfare finanziario dove il venture capital finanzia, ad esempio, monopattini a noleggio per i quali nessuno è disposto a pagare il vero prezzo di mercato.

 


La tendenza negli ultimi anni è stata di posticipare il più possibile il debutto in Borsa, la Ipo. Questa è addirittura diventata la strategia principale del fondo d’investimento giapponese SoftBank, che adesso si trova in cattive acque dopo la débâcle di WeWork. Di conseguenza la maggior parte dei capital gains tende a essere realizzata sul mercato privato, cosa che ovviamente favorisce un piccolo cerchio di investitori interni al sistema. Da un modello che aveva una razionalità nel finanziare l’espansione di nuovi mercati per l’hardware e il software nel secolo scorso, la Silicon Valley si è trasformata in un sistema per l’appropriazione di guadagni finanziari che non contribuisce molto in termini di crescita economica reale.

 


Alla radice del problema c’è la mancanza di immaginazione. Per il venture capital il futuro è per definizione imprevedibile, è una singularity di cui non si può sapere niente. La dottrina di disruptive innovation che sta al cuore del sistema predica che le innovazioni radicali creeranno i loro mercati, chi poteva prevedere Facebook 15 anni fa? Ma più che un fiorire di idee radicalmente nuove, un “Cambrian moment”, termine che l’Economist usò per salutare l’arrivo della nuova app economy cinque anni fa, il risultato è stato una standardizzazione dell’innovazione in forma di contributi marginali a una società di consumo novecentesca ormai senza futuro: intelligenza artificiale per selezionare le playlist via Alexa o app che ti permettono di ordinare la pizza senza chiamare la pizzeria sotto casa. Se il modello Silicon Valley si sta esaurendo è soprattutto per questo motivo, manca un’idea di che tipo di mondo costruire con le tecnologie digitali, un’idea di un futuro diversa dal presente.

 

Adam Arvidsson
Università Federico II

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