La libertà secondo Zuckerberg
Facebook oscura i partiti di estrema destra. Riflettere prima di esultare
Facebook ha cancellato decine di siti legati a CasaPound e ai suoi dirigenti sia sulla piattaforma principale sia su Instagram, proprio il giorno dell’insediamento del nuovo governo. L’azienda ha spiegato che la decisione rappresenta l’esito di un lungo processo di analisi, che ha convinto i gestori che si tratti di un soggetto politico che diffonde odio e violenza e per questo è in contrasto con i princìpi della piattaforma. Di fronte a questo avvenimento ci si trova a dover commisurare due princìpi, entrambi rilevanti: la difesa della libertà di espressione, che deve essere garantita anche a chi suscita disgusto per le sue opinioni, e l’esigenza di evitare che campagne di odio favoriscano l’instaurarsi di un clima di violenza, per giunta in nome di un’ideologia alla quale la Costituzione (la stessa che garantisce la libertà di espressione) preclude l’organizzazione in forma di partito.
Non è il caso, naturalmente, di esaminare il messaggio di CasaPound, appunto perché non si può e non si deve misurare la libertà concessa secondo l’accettabilità delle opinioni espresse. Non siamo in uno stato etico, e naturalmente non ci piace l’idea che a introdurlo a livello globale sia l’azienda di Zuckerberg.
Invece ci si può interrogare sulla questione dell’incitazione all’odio dell’apologia di fascismo. Si tratta di reati variamente considerati nel codice penale italiano, per i quali, per la verità, negli ultimi cinque anni la magistratura ha emesso una ventina di ordini di arresto. Ma non sono mai state applicate nei confronti di un’organizzazione le norme delle leggi di Mario Scelba e di Nicola Mancino contro la ricostituzione del partito nazionale fascista. Non c’erano prove sufficienti o il reato non è stato commesso? Spetta alla magistratura deciderlo, nel corso di regolari processi. Può però un’organizzazione privata come Facebook anticipare eventuali sentenze, applicare una specie di principio di precauzione che renda il sospetto o gli indizi sufficienti a comminare la sua “pena”, cioè l’esclusione dalla piattaforma, con gli effetti di limitazione della libertà di espressione che ne conseguono? Non è una domanda oziosa o retorica e interroga senza facili risposte le nostre coscienze di democratici.
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