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Toglietemi tutto, ma non i miei dati

Paola Peduzzi

Lasciamo tracce di noi ovunque, anche se ci consideriamo al di sopra di ogni manipolazione. Il documentario “The Great Hack” racconta cosa succede quando queste tracce diventano un interesse politico e sì: “A me non succede” è una bugia

Milano. Lasciamo tracce di noi ovunque, in ogni momento, anche quando pensiamo – presuntuosi – di essere al di sopra di ogni manipolazione, di ogni condizionamento, perché più attenti, più istruiti, più cauti, più sgamati. “A me non può succedere” è la grande bugia che ci diciamo per sentirci al riparo da questo enorme contrabbando di dati personali che è diventata la nostra vita, virtuale e no. “The Great Hack - Privacy violata”, il documentario sullo scandalo di Cambridge Analytica che Netflix manderà in onda in tutto il mondo il 24 luglio, racconta questa presunzione e la smantella fin dalla prima scena, rappresentandola come una nuvola di quadratini – sono pixel, sono dati, siamo noi – che esce da ogni cosa: dal nostro smartphone, app, chat, conversazioni, dalla cara Alexa cui chiediamo giulivi il meteo ogni mattina, dal bancomat, dalla tessera della metropolitana, dai commenti, i cuori, i like, dalle foto in cui ci mostriamo e mostriamo il mondo attorno a noi. Questa nuvola esce dagli uffici, dalle case, dai palazzi, una nuvola che sembra inquietante e tossica e che invece è quanto di più prezioso abbiamo: quello che siamo, noi.

 

“The Great Hack” ricostruisce la vicenda di Cambridge Analytica, la società di consulenza politica che ha segretamente raccolto i dati di 87 milioni di utenti Facebook ignari e li ha utilizzati a fini politici, in particolare nella campagna per la Brexit e in quella che ha portato all’elezione di Donald Trump. La storia è complicata e in divenire – gli autori hanno dovuto decidere di mettere un punto, di chiudere: c’era un aggiornamento al giorno – ma dalla ricostruzione dei fatti non emergono soltanto i buoni e i cattivi, chi chiede di avere indietro i suoi dati e chi nega di averli mai trafficati, ma anche e soprattutto l’erosione progressiva della libertà di scelta individuale. “The Great Hack” non canta il rimpianto e la frustrazione di chi è contro la Brexit e contro Trump: come dice Carole Cadwalladr, la giornalista che ha svelato i dettagli dello scandalo, in pericolo è la possibilità di avere elezioni giuste e libere, l’autonomia degli elettori, la formazione dell’opinione pubblica, la nostra democrazia, che sia nel Regno Unito, in America o a Trinidad e Tobago (dove è accaduta una cosa simile, nel documentario è raccontata bene).

 

L’erosione della libertà di scelta è rappresentata da una delle protagoniste del documentario, Brittany Kaiser, e dalla sua crisi di coscienza (che fino all’ultimo non si sa se sia genuina o no). La Kaiser è una dipendente di Cambridge Analytica che si dimette nei primi giorni dello scandalo e inizia a dare informazioni sulle attività dell’azienda e a collaborare con le inchieste aperte nel Regno Unito e in America. La Kaiser nasceva come un’attivista per i diritti umani, lavorava alla campagna di Barack Obama, quella che rese i dati personali e i social rilevantissimi, e poi è passata a Cambridge Analytica, perché lo stipendio era buono, perché se fai consulenza politica non devi necessariamente condividere le idee politiche del tuo committente: devi dare i consigli giusti. All’inizio, quando la Kaiser racconta com’era il suo lavoro – la prima intervista si svolge in una piscina in Thailandia – è convinta che la libertà di scelta individuale sia inscalfibile: ti possono raccontare quello che vogliono, ma comunque sei tu che liberamente scegli se fornire la carta di credito o mettere una croce su un certo partito.

 

All’ultima intervista, quando la sua versione e quella dei suoi capi non coincidono, quando emergono le ads pagate dai russi, quando i puntini si uniscono, la Kaiser scappa, fruga nella borsa disperata alla ricerca del passaporto, singhiozza: la libertà di scelta individuale non è più inscalfibile, la nuvola là sopra dei nostri dati è la prova di un reato, e sembra ormai inafferrabile. “A me non può succedere” è una bugia non soltanto perché la ripetiamo come alibi al nostro narcisismo. “Non posso che continuare a chiedermi se anche io potrei essere manipolato. E tu, tu puoi essere manipolato?”, è la domanda che pone David Carroll, il buono di questa storia, il professore della Parsons School of Design di New York che per primo si era rivolto a una corte di Londra per riavere indietro i propri dati da Cambridge Analytica: non li ha avuti. Oggi la campagna di Carroll – e della Kaiser – è quella di dichiarare i diritti sui propri dati come diritti umani, #OwnYourData, ma nessuno riesce per ora a riacciuffare la propria nuvola, e anzi la continua ad alimentare, perché dai social non è possibile uscire, l’iperconnettività è la nostra conquista e “a me non può succedere”. “The Great Hack” apre uno squarcio che va oltre lo scandalo: non siamo soltanto consumatori, siamo anche elettori. Nel momento in cui andiamo a mettere le nostre crocette in un’urna la libertà di scelta individuale diventa un interesse comune, e se quella libertà è erosa o manipolata, l’esito riguarda ognuno di noi. A me non può succedere diventa: succede a tutti.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi