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Il sublime che nasce da una ragazza punk di NY

Stefano Pistolini

Lo so, questa volta l’accusa di voltagabbana non me la toglie nessuno. Com’è possibile che tu sia così infedele? Non passa mese che non tiri fuori una nuova cantante americana, nei confronti della quale esprimi una devozione di quelle che si possono dedicare solo a una donna nella vita – vabbè, al massimo a due. Invece?

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Lo so, questa volta l’accusa di voltagabbana non me la toglie nessuno. Com’è possibile che tu sia così infedele? Non passa mese che non tiri fuori una nuova cantante americana, nei confronti della quale esprimi una devozione di quelle che si possono dedicare solo a una donna nella vita – vabbè, al massimo a due. Invece? Non passa stagione che non prendi una nuova cotta, e l’ultima è sempre meglio di quella che l’ha preceduta, la sua voce è più soffice e sexy e le sue canzoni t’ipnotizzano e le ascolti per giorni, senza mai cambiare disco. Sai cosa sei? Un collezionista. Fissato e un po’ pervertito. Vergogna. Ok. Sono stato smascherato. Del resto siamo un po’ tutti difensori di Fort Alamo, no? Funziona così, non posso farci niente: chiodo scaccia chiodo. Le sento e cado in deliquio. Per Alynda, per esempio. Amore a prima vista. Nome completo: Alynda Lee Segarra. Se volete i suoi dischi dovete cercarli alla sigla Hurray for the Riff Raff, il nome del suo gruppo. Alynda è una portoricana del Bronx, origini che non c’entrano niente con la musica che fa. Comincia frequentando i giri punk del Lower east side, entrando nel giro del collettivo femminista delle Bikini Kill. Poi parte alla scoperta dell’America, da sola, saltando sui treni, come detta la vecchia tradizione. Non sono cose che si fanno oggi, a meno che non ti porti dentro, che tu sia consapevole o meno, una certa letterarietà. Che è esattamente ciò che si evince ascoltando “Small Town Heroes”, il suo quinto album (il primo pubblicato da un’etichetta vera, e non autoprodotto). Alynda ha imparato a suonare il banjo e a cantare con una voce morbida e sensuale che ci richiama la prediletta Iris DeMent, ma in un contesto musicale completamente diverso. Infatti, al termine delle sue peregrinazioni per il paese, ha messo radici a New Orleans (ed è una colonia che si va infoltendo, quella dei musicisti della Grande Mela che traslocano verso la vita più frugale e l’intatta musicalità della città del Delta, ancora convalescente dopo lo choc Katrina). Qui la Segarra mette in piedi il nucleo del gruppo, stringendo alleanza con il violinista transessuale Yosi Pearlstein (“sì, siamo una band omosessuale. Anzi, è ancora più complicato di così”, dice Alynda, che non fa mistero di essere gay), con un bassista/corista e un bravo pianista honky-tonk. Il fatto è che dall’insieme di queste musicalità, attraverso gli influssi dell’ambiente circostante e l’amicizia col produttore Andrija Tokic (lo stesso degli Alabama Shakes), il sound della band diventa qualcosa di particolare e d’inedito: gli addetti ai lavori lo etichettano “southern gothic country”, sperando che la sigla raduni abbastanza implicazioni da essere esaustiva, ma invece non basta per definire il lavoro che fanno questi ragazzi e che li rende speciali. Perché l’idea di Alynda e dei suoi è di utilizzare i diversi linguaggi per comodità radunati sotto l’ombrello del country, non per riproporre, in modo più o meno fedele all’originale, un canone musicale, ma per partire da lì per una profonda revisione d’aggiornamento, che è la precisa sensazione che si coglie ascoltando la poderosa scaletta di “Small Town Heroes” – 12 pezzi senza un singolo cedimento. C’entra forse lo spirito apertamente queer della faccenda (tutt’altro che abituale, in area country) a giustificare questa volontà di dolce sovversione che, ad esempio, porta al centro dei temi delle canzoni argomenti inusuali, come quello della violenza sessuale (“The Body Electric”, dedicata a Damini, la ragazza indiana violentata e uccisa da una gang di Delhi nel 2012)? Ipotesi probabile, strana e affascinante. Strana come il fatto che dal punk di Alphabet City si finisca a suonare il banjo a New Orleans, e come qui la lezione dell’onestà intellettuale imposta dal punk rifiorisca sotto forma di rivisitazione culturale del country. E affascinante come il riuso d’uno standard country come la murder ballad, utilizzata sotto forma di denuncia e non di lamentazione. Al termine di questo elogio, tenete comunque presente che ascoltando gli HftRR, ciò che davvero vi conquisterà sarà la voce caramellosa di Alynda Segarra, il suo fraseggio che appartiene al passato e al presente, il suo dialogare coi musicisti, neppure fosse sulle tavole d’un avanspettacolo del sud profondo, un secolo fa. E poi la sua faccia sfrontata e quel modo di farsi fotografare, senza costumi tradizionali, stivali o cappelli Stetson, con l’aria di una ragazza irrequieta, che s’è alzata da poco e ancora non ha fatto i piani per vivere, nel giro di poche ore, pronta per un’altra notte indimenticabile.

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