Il futuro dell'Italia nel mondo delle nuove imprese è nel biotech, dice Pierluigi Paracchi

Maurizio Stefanini
A settembre, assieme all’Ospedale San Raffaele Genenta Science ha firmato un accordo con la californiana Amgen, numero uno del biotech mondiale con un fatturato di oltre 21 miliardi di dollari, per sperimentare un'innovativa terapia genica contro i tumori basata su cellule staminali. Ma nel 2002 fu il socio fondatore di Quantica Sgr, di cui fu anche ad.

"Bene il Digital, bene anche il Medicale, ma il vero futuro dell’Italia nel mondo delle start up è nel biotech. È lì che abbiamo un vantaggio comparativo dalla nostra parte. Purtroppo, però, i fondi di Venture Capital non sembrano essersene accorti”. A parlare così al Foglio è Pierluigi Paracchi, che oggi è chairman & ceo di Genenta Science, start up milanese del biotech che ha recentemente raccolto 10 milioni di euro di investimenti. A settembre, assieme all’Ospedale San Raffaele ha firmato un accordo con la californiana Amgen, numero uno del biotech mondiale con un fatturato di oltre 21 miliardi di dollari, per sperimentare un'innovativa terapia genica contro i tumori basata su cellule staminali. Ma nel 2002 fu il socio fondatore di Quantica Sgr, di cui fu anche ad. E Quantica, nel suo racconto, è stata “non solo la prima esperienza di Venture Capital italiano, ma anche l’unica che ha avuto ritorni positivi”.

 

Proveniente da un’esperienza di trader puro, ricorda di aver avuto l’idea di mettere assieme ricerca scientifica e finanza in un momento molto difficile, dopo che era appena esplosa la bolla della New Economy. “Abbiamo iniziato con il consorzio Rete Ventures, che aveva al suo interno sia l’Istituto nazionale di Fisica della materia, sia due consorzi interuniversitari che univano tutte le università e tutte le facoltà con Chimica e Fisica all’interno dei loro atenei. Rete Ventures fu socio fondatore di Quantica insieme a partner privati. I maggiori azionisti eravamo io e il mio vecchio amico Stefano Perugini, ma  nel nostro consiglio di amministrazione avevamo anche Gian Maria Gros-Pietro che bontà sua ha continuato da allora a fare una splendida carriera, e anche il presidente del Sincrotrone di Triesten Carlo Rizzuto”.

 

La vicenda è definita “di grosso successo dal punto di vista della gestione”. “Ci mettiamo due anni e mezzo a lanciare un fondo che si chiama Principia, che fa 10 investimenti. Ovviamente eravamo attratti soprattutto dal digital, come da clima del momento. Ma presto ci siamo resi conto che le opportunità migliori erano nel biotech. Le ragioni le ho capite in seguito. Grazie a internet, il digitale nel mondo si è sviluppato soprattutto a partire dagli investimenti nell’industria della Difesa, pensiamo agli Stati Uniti o a Israele. L’Italia in Difesa non ha investito molto, ma in compenso ha investito moltissimo in Sanità. Con le inefficienze che sappiamo, ma alla fine ci siamo trovati con scienziati e centri di ricerca di livello mondiale: pensiamo a nomi come quelli di Alberto Mantovani, Luigi Naldini o lo stesso Umberto Veronesi, morto due giorni fa. Dove sono i Mantovani, i Naldini o i Veronesi del digitale italiano?”.

 

E’ stato appunto orientandosi sul biotech che Quantica ha avuto il grande successo di EOS, di cui questa rubrica ha già parlato. Ma Paracchi tiene comunque a ricordare che c’è stato anche un successo nel digitale con Banzai, che è stata quotata. Però, osserva con una punta di amarezza, dal punto di vista industriale la vicenda fu invece “un gran casino”. I due consorzi infatti sparirono perché troppo frammentati, l’Istituto di Fisica della Materia fu messo sotto il Cnr, e con questa realtà pubblica che Paracchi definisce “molto politicizzata, molto frammentata e molto romanocentrica” ci furono incomprensioni. Da qui la decisione di rivendere a altri privati, che poi rivendettero ulteriormente, facendo nascere Principia: anche di questa storia la rubrica si è occupata. 

 

Modello e mito americano

 

Terminate con successo le storie già avviate di Eos e Banzai, Paracchi si è dunque dedicato alla nuova avventura. Sulla moda delle start up vede un sicuro risvolto positivo. “Noi quando parlavamo di start up nel 2002 eravamo dei marziani, adesso invece Università e investitori istituzionali sanno di cosa si tratta”. Però, come in tutte le mode, secondo lui c’è un rischio di prendere le cose con approssimazione: soprattutto se si crede troppo ai miti americani della startup digitale nata nel garage, e non si comprende che il grande vantaggio comparativo italiano è invece nel biotech.  “La prima ondata di fondi di Venture Capital partita poco dopo di noi non sta a oggi ridando i capitali che hanno raccolto. E l’ondata più recente è quasi tutta orientata al digitale, o al massimo alle tecnologie medicali. Abbiamo un grande vantaggio comparativo nel biotech, ma un fondo di Venture Capital dedicato appunto a farmaci e terapie manca”.

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