Il Foglio sportivo
Il mondo visto dall'eterno fanciullo GPO. Intervista a Gian Paolo Ormezzano
Il noto giornalista sportivo si racconta in questa intervista. Tanti i temi trattati: dalla carriera, al calcio, passando per il ciclismo e per il rapporto complesso con Gianni Agnelli
I migliori Gianni del giornalismo sportivo non ci sono più. Nel giro di poco tempo se ne sono andati Mura, Clerici e Minà, preceduti tre decenni prima dal sommo Brera. Ci rimane solo un altro Gian (Paolo), che dei quattro è stato amico fraterno: l’ultimo dei grandissimi ha passato gli 88 ed è Ormezzano. È ancora in forma, GPO. Energia e genialità, la sua cifra stilistica sin dagli anni Cinquanta quando ha iniziato la carriera a Tuttosport, diventandone poi anche direttore.
“Non sto bene e non sto male, grazie di chiedermelo e ricordarti di me, del Toro e del ciclismo, tanta mia vita. Ho patito tre Covid infernali, un’operazione difficile, troppi ospedali, qualche guasto noioso ma sopportabile. Vado per gli 89, soffro ancora la gotta, ho di recente detto di no a un’offertissima di ritornissimo sulle scene, per pudore, per stanchezza, per decisione che devo smetterla, con questo giornalismo e questo sport, ma soprattutto per continuare a scribacchiare sul Corriere della Sera di Torino, pagato un nulla ma talora in pagina accanto a un pezzo di mio figlio che ci lavora duro”.
Sarà presente alla partenza della centosettima edizione della corsa a tappe italiana, che da inviato ha coperto per 29 volte?
“Sono andato a Superga tante volte, anche adesso, per conto mio, evitando ultimamente il troppo ufficiale 4 maggio. Il mio pellegrinaggio speciale, eravamo in tantissimi, il lunedì dopo lo scudetto 1976 (la sera della domenica avevo fatto il giornale)”.
Voi del Toro percepite ancora il senso di quella tragedia?
“Il senso della tragedia per noi del Toro, per noi che siamo il Toro, è sempre più forte, a mano a mano che crescono popolarità, agi, protervie, ricchezze, cretinerie del cosiddetto grande calcio”.
Lo storico magazziniere del Toro Antonio Vigato una volta disse con le lacrime agli occhi: "A Superga morirono in tanti, nel 1967 uno solo. Ma la tragedia per noi del Toro è sempre uguale”.
“Gigi Meroni era unico, io lo conobbi una notte estiva al semaforo nella Torino semideserta: lui su una spyderona, io su una vecchia Giulietta, mi sfidò da semaforo a semaforo, vinse lui e mi portò a conoscere i suoi quadri e la sua splendida donna. Io, affetto da prosopagnosia (non accoppio facce a nomi), non sapevo chi fosse, né lui sapeva chi ero io. Diventammo amici al volo, dopo una settimana ci eravamo bene identificati, durò sino alla sua fine. Non gli importava molto del Toro e anche del calcio, era semplicemente un grande giovane saggio, un buon pittore, un fantastico ragazzo. Mi toccò scrivere dell’incidente, Caminiti mandato da Tuttosport era troppo emozionato e crollò, e la mia fu una quasi assurda prova di professionalità spinta al limite...”.
Sette anni prima la morte di Fausto Coppi.
“Il primo gennaio del 1960 sono il solo sveglio in redazione (non avevo avuto il biglietto per partecipare anch’io, meno che abusivo, al gran veglione dei giornalisti) e mi mandano a Tortona, dove Coppi è stato ricoverato con febbre alta, lui muore il 2, io resto una settimana e copro tutto il possibile dell’evento. Al ritorno per premio Antonio Ghirelli, direttore di Tuttosport, mi manda (sciavo e nuotavo bene) ai Giochi invernali di Squaw Valley, California, prima delle mie venticinque Olimpiadi, record sino a poco fa mondiale”.
Oggi c’è qualche giocatore granata che le sta nel cuore più di altri?
“Nel Toro si sta accostando al mio modulo sentimentale Alessandro Buongiorno, ma la strada è lunga e le tentazioni sono forti”.
Il suo rapporto con la Juventus è sempre stato complesso?
“Ma con Gianni Agnelli, offertomi e mediato da Boniperti che è stato per me una sorta di anomalo fratello maggiore, parlai spesso del mio Toro, lui capiva”.
Come se la passano questi due sport, calcio e ciclismo?
“Il ciclismo ricomincia mentre il calcio è finito, c’è un nuovo sport anzi gioco orrendo e finto e teleconfezionato. Ho la tv accesa ora su una partita, prima simulazione urlata dopo quaranta secondi. Si può?”.
Primo Giro d’Italia seguito nel 1959.
“Soprattutto per telefonare agli stenografi i pezzi di Carlin, Carlo Bergoglio direttore di Tuttosport. Conoscevo e decifravo la sua grafia. In cambio mi facevano scrivere in quel Giro 1958 un pezzetto di colore. Ero eccitato, al mattino in pratica inauguravo io il villaggio di partenza. C’era Emilio De Martino, mio idolo, leggendario autore del libro La squadra di stoppa, lì per la sua rosea, ogni giorno gli auguravo buona tappa e lui: Grazie caro, ti leggo. Manco sapeva chi fossi”.
Lo scoop realizzato in più di 70 anni di carriera?
“1974, in Sudafrica per la Davis con implicazioni politiche (apartheid), leggo che a Kinshasa, Congo, hanno rinviato Ali-Foreman, telefono a Roma al fratello Minà, uno dei massimi Gianni della mia vita piena di Gianni, mi procura Clay a disposizione, due ore tutto per me, intervistona”.
Usciamo per un attimo dallo sport.
“Nel 1966 in Cina (l’Italia non ha rapporti diplomatici), con carta di identità del ministero dello sport francese avuta grazie ad una mia amica nuotatrice e poi giornalista che diventerà megadirettrice del Cio, Monique Berlioux, io solo italiano nella Pechino di sole biciclette. Peccato che tornai presto perché dovevo subito buttarmi sul Giro, comprimendo il reportage cinese! Nel 1969 al lancio lunare di Apollo 11 (record mondiale di salto in alto, dissi per convincere la direzione), faccio anche, a Los Angeles, un grande Usa-Urss di atletica. Nel 1973 in Nigeria, Giochi africani, ho un visto non per la sola Lagos e allora rischio e vado nel Biafra appena pacificato dopo la guerra civile, ne scrivo per Famiglia Cristiana”.
Ricordo dei ricordi?
“Roma 1960 e il ritorno da quei Giochi a Torino portando sulla mia utilitaria, in un’Italia quasi senza autostrade e in attesa del suo eroe, Livio Berruti oro sui 200, compagno di scuola al liceo classico Cavour. Un viaggio memorabile”.
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