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L'intervista

“Mentre balliamo sul Titanic, il futuro del calcio è in Mls”, dice Andrea D'Amico

Antonello Sette

Il procuratore ci spiega perché campioni come Insigne a Bernardeschi hanno scelto Toronto, in fuga da una Serie A in crisi

"Il futuro del calcio è la Major League Soccer. Lo dico da quando nel 2015 portai a Toronto Sebastian Giovinco”. La voce di Andrea D’Amico, procuratore da una vita e profeta indiscusso del nuovo che avanza, rimbalza forte e chiara dai 20 gradi piovosi di Toronto, dove ha portato a buon fine, dopo quello di Lorenzo Insigne, anche gli accasamenti dell’ex capitano del Genoa Domenico Criscito e del top player, già juventino, Federico Bernardeschi. “Qui hanno tutto: organizzazione, strutture, risorse, stadi, sponsor e tanto entusiasmo. Qui il calcio non è solo business, ma un nuovo entusiasmante modo di vita. Qui le guerriglie di casa nostra sono impensabili. Si va allo stadio con tutta la famiglia per la gioia di assistere a un evento sportivo. La partita è il cuore di un intrattenimento, che è diventato un rito. Si beve, si mangia, si ride, si esulta, si stacca la spina e ci si ricarica dopo una settimana di lavoro”. Per D’Amico, il futuro è la Mls, e a chi annaspa nella calura insopportabile di Roma sembra che la nuova frontiera sia la città di Toronto. “A Toronto il calcio è la parte emergente di una dimensione molto più vasta. Vi è un’unica proprietà per le squadre di calcio, di basket, di football canadese e di hockey su ghiaccio. Non dimentichiamo, poi, che nella Greater Toronto Area vivono un milione e mezzo di italiani. Anche per questo il calcio ha stravolto tutte le gerarchie, diventando lo sport più importante”.

 

Qualcuno obietta che a giocare nella Mls vanno solo calciatori a fine carriera e che dai tempi dei Cosmos di Chinaglia e Pelè non è cambiato niente… “Giovinco arrivò qui, quando aveva 28 anni. Bernardeschi ha la stessa età, Insigne ne ha 31. Esattamente un anno fa si sono laureati campioni d’Europa con l’Italia e sono entrambi all’apice della carriera. La Mls non è più il cimitero degli elefanti. E il mercato non è più unidirezionale. Basta pensare al texano Weston McKennie, acquistato dalla Juventus. La tendenza delle nuove grandi proprietà è, peraltro, quella di acquisire squadre in tutte le zone del mondo. Il calcio, lo ripeto da tanto tempo, non conosce più frontiere. Quello che conta è il capitale, l’affidabilità e la qualità delle società. Del resto, accadono cose che solo dieci anni fa sarebbero stato impensabili. Noi i Mondiali li guarderemo da casa. Il Canada li giocherà sul campo”.

 

Che cosa risponde a chi pensa che i procuratori siano la rovina del calcio? “E’ un’affermazione apodittica, che non ha riscontri nella realtà. E’ come dire che le agenzie immobiliari sono responsabili della stagnazione delle compravendite o i medici della crisi della sanità. E’ troppo facile dare sempre la colpa agli altri e non a se stessi. Ci saranno anche dei procuratori che si comportano male, ma tutti gli scandali e i fallimenti che si sono susseguiti da Calciopoli in poi non mi sembra che abbiamo coinvolto qualche appartenente alla categoria, fermo restando che chi sbaglia è giusto che paghi. Le regole che ci impongono sono sempre più stringenti. C’è un albo a cui si accede solo superando un esame. E poi non mi sembra che abbiamo l’importanza e il potere che ci vengono attribuiti. Del resto, nella Figc sono rappresentati tutti: professionisti, dilettanti, donne, arbitri e quant’altri. Noi no”.

 

Guadagnate troppo? “Siamo liberi professionisti e c’è una libera negoziazione. Non è certo il nostro costo a mettere in crisi le società. E’ un argomento, che viene tirato in ballo solo per deviare l’attenzione dai veri problemi, che sono altri. Senza dimenticare che i contratti li firmano le società e i calciatori. Non i procuratori. Prendersela con i procuratori è pura demagogia. Oltretutto, noi non abbiamo diritti, ma solo doveri. Le faccio un esempio. Se una società fallisce, il mio avere non è riconosciuto come credito sportivo”. Quali sono i mali del calcio italiano? “Sono quelli strutturali. Le regole sono le stesse di 60 anni fa, ma il mondo economico e l’importanza, che nel frattempo ha assunto l’azienda calcio, sono distanti anni luce da quella realtà. Siamo ancorati, ad esempio, al sistema delle promozioni e delle retrocessioni, dove chi retrocede subisce un fallimento economico, oltre che sportivo. Ogni anno spariscono tre o quattro società. Sono falliti il Novara, il Carpi, il Chievo. Tutte squadre che, prima di tornare indietro come i gamberi, erano salite dalla serie C alla A. Erano falliti il Napoli, il Bari e il Palermo. Delle due l’una: o cambiamo sistema o bisogna dare più soldi alle piccole squadre. Altrimenti ogni retrocessione seguiterà a equivalere a un fallimento economico, a una cancellazione talvolta senza ritorno”. 

Altri mali congeniti? “Siamo maledettamente autocelebrativi. Noi balliamo sul Titanic che affonda. Anzi su una nave che è già affondata”.