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Il pallone come prodotto da vendere. Il calcio secondo il City Football Group

Giorgio Coluccia e Federico Giustini

C'è molto di più del Manchester City nella galassia calcistica di Abu Dhabi. Come funziona il modello di business del gruppo che potrebbe prendere il Palermo

“Il pallone non entra mai per caso”. L’articolo determinativo fa sì che non si scambi questa frase per una delle massime di Vujadin Boskov, quegli aforismi che dietro a un’apparente semplicità racchiudono il senso stretto del gioco del calcio. Si tratta invece del titolo del libro di Ferran Soriano, attuale Ceo del City Football Group ed ex vicepresidente dell’area economica del Barcellona tra il 2003 e il 2008. Un volume dato alle stampe nel 2009, all’interno del quale Soriano illustra il suo pensiero su come gestire un’impresa calcistica: i migliori club devono ragionare come la Disney, gigante dell’intrattenimento, e considerare dunque lo spettacolo come il principale prodotto da vendere. Ecco che diventa necessario rendersi sempre più visibili, cercare nuovi pubblici e fan. Il mezzo migliore non può che essere quello di portare il proprio brand in giro per il mondo, creando delle academy o addirittura delle filiali. Soriano ci provò nel 2005, tentando di acquistare un posto nella Major League Soccer per iscrivere un Barcellona statunitense al campionato, ma non c’erano franchigie disponibili. Una volta diventato dirigente del Manchester City, nel 2013, Soriano riuscì però nel suo intento: nacquero allora, a distanza di poco tempo, il New York City e il City Football Group.

 

Se tra qualche mese Guardiola potrà aggiungere anche Haaland al suo già forte attacco, Soriano potrebbe collocare un’altra puntina sul planisfero. È in corso già da qualche giorno, infatti, la due diligence sui conti del Palermo, che sembra destinato a entrare a far parte del City Football Group. Il club rosanero si aggiungerebbe a una già lunga lista di squadre ed entrerebbe in un sistema alla cui base c’è una filosofia comune che si declina con alcune differenze nei vari club, con accordi di sponsorizzazione validi in blocco per più squadre del network e un database comune di informazioni per tecnici, preparatori e medici delle varie squadre su tattiche, sedute d’allenamento e recuperi dagli infortuni. Gli investimenti nel Girona in Spagna, nel Lommel in Belgio e nel Troyes in Francia - le piazze scelte per il gradone europeo della piramide - rispondono all’esigenza di poter selezionare il contesto più adatto alla crescita dei giovani calciatori in base ai differenti livelli competitivi e alle caratteristiche di ogni campionato. Mantenere i migliori prospetti sotto l’egida del City Group permette inoltre alla proprietà di muoversi tra le strette maglie dei regolamenti imposti dalla Brexit: impossibile mettere sotto contratto minorenni non britannici per le squadre inglesi o tesserare più di tre under 21 a sessione; esiste inoltre un sistema a punti per ottenere il permesso lavorativo che tiene in grande considerazione il campionato di provenienza dell’atleta.

   

Per il City Football Group è stato importante raggiungere gli altri continenti e posizionarsi nei rispettivi mercati: dopo New York, la successiva incorporazione ha riguardato il Melbourne City, per poi raggiungere l’Asia con partecipazioni nel club giapponese degli Yokohama F Marinos nel 2014 e poi, nel 2019 nella squadra cinese del Sichuan Juniu, e successivamente acquisire il 65 per cento del Mumbai City, che gioca nella Super League indiana. La scelta del Montevideo City Torque, così come la collaborazione con l’Atletico Venezuela, è dettata più dalla ricerca dei giovani calciatori in un territorio ad alta densità di talento. Scenari che possono favorire anche la strategia del player trading.

 

In vetta alla piramide del City Football Group non può che esserci il Manchester City, acquistato dall’Abu Dhabi United Group nel settembre 2008. Il primo giorno di quel mese è simbolico, in quanto venne chiuso l’accordo per portare il brasiliano Robinho dal Real Madrid all’Etihad Stadium per quasi 40 milioni di euro, diventando così la prima trattativa conclusa sotto le sfarzose insegne degli Emirati Arabi. Proprio nella stessa giornata del passaggio di consegne ufficiale dal businessman thailandese Thaksin Shinawatra al principe Mansour bin Zayed Al Nahyan. Da quel famoso giorno i Citizens hanno messo in bacheca 16 trofei dopo 35 anni di digiuno totale. Una rivoluzione arrivata dal Golfo e che negli anni ha gettato parecchie ombre sulla gestione societaria: dall’essere tacciata come strumento di soft power in mano ad Abu Dhabi (il principe Mansour è vice primo ministro, ministro degli affari presidenziali e componente della famiglia reale di Abu Dhabi; il suo fratellastro Khalifa bin Zayed Al Nahyan è presidente degli Emirati Arabi Uniti ed emiro di Abu Dhabi) all’inchiesta del 2018 del quotidiano tedesco Der Spiegel sul tentativo di aggirare il Fair Play finanziario Uefa, con finanziamenti intestati alle società di Abu Dhabi per mascherare gli esborsi della proprietà.

 

Tra le mail hackerate e venute a galla in quell’occasione con i Football Leaks, ci sono anche quelle dell’australiano Simon Pearce, figura centrale per lo sceicco Mansour e componente del board del City Football Group. È il responsabile delle comunicazioni strategiche emiratine, descritto dal Wall Street Journal come “uno dei funzionari più influenti degli Emirati Arabi, incaricato dal 2006 di costruire e proteggere la reputazione di Abu Dhabi”. Dalle conversazioni rese pubbliche si legge come Pearce - anche in relazione alle questioni calcistiche - metta in guardia le alte sfere sulle “vulnerabilità degli EAU riferendosi a diritti umani, ricchezza, donne e Israele, temi che potrebbero mettere a repentaglio gli interessi commerciali di Abu Dhabi”.

 

Il discorso si ricollega al peso dell’entità statale dietro a un club di calcio e Nicholas McGeehan, direttore di FairSquare Research and Projects, ha fatto notare che l’acquisto di una società è collegato alla necessità di ripulire la reputazione: “C’è un contrasto tra le politiche del governo e l'immagine progressista che la squadra deve proiettare per prosperare. Nutro forti dubbi sul fatto che la proprietà riguardi la generazione di reddito”. McGeehan ha aggiunto che il Manchester City e il connesso City Football Group hanno indirizzato la strategia di Abu Dhabi su tre versanti: “Presentando Mansour come un ricco e benevolo uomo d'affari; inondando i media di articoli su quanto siano progressisti gli Emirati Arabi; attaccando la credibilità e le motivazioni di chi critica gli abusi ad Abu Dhabi e dintorni”. Adesso all’orizzonte si stagliano Palermo e la Sicilia. Così l’ennesima bandiera potrebbero presto issarla anche sull’Italia.

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