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La Danimarca è un romanzo familiare

Enrico Veronese

 Gli Schmeichel, i Laudrup, Eriksen e Kjaer. Perché ci piacciono i biancorossi 

Li avevamo lasciati mentre piangevamo tutti per Eriksen e per la partita d’esordio malamente lasciata alla Finlandia. Li abbiamo accompagnati nella strenua ma vana resistenza al Belgio, appoggiati nella riscossa a suon di gol contro la Russia, seguiti nel trionfo di Amsterdam opposti ai dragoni gallesi, fino alla doppietta sofferta che ha steso il pur ottimo Schick. Questa sera, per la Nazionale che fu Danish Dynamite, è semifinale a Wembley: di fronte si troverà gli undici di Southgate e l’Inghilterra tutta, smaniosa di riportare il football a casa e di cancellare 55 anni di delusioni in maglia bianca. Anche terminasse qui, il percorso dei sudditi di Margherita II sarebbe senza dubbio positivo e al di là delle previsioni: non fosse per l’Ineluttabile, il fiato sospeso di un continente che ha condizionato l’avvio del torneo, e ha montato nuove ali alla squadra anziché abbatterla, supportata dalla benevolenza di tutti.

Nel calcio dal volto umano praticato dai danesi, in ossequio alla tradizione nazionale dei “buoni” (pratiche positive, sostenibilità nordica, pol. corr.), gli alti valori contano come e più del fatto tecnico: quello biancorosso è un romanzo familiare, plasticamente rappresentato dal passaggio di consegne in porta tra Peter Schmeichel – eroe del 1992 – e il figlio Kasper, saracinesca della favola Leicester. Il primo era tra i migliori del mondo nel ruolo, piglio da leader capace di lancio lunghissimo e gol in extremis; il secondo, non si è avvicinato all’immanenza paterna pur rappresentando, assieme agli altri senatori, la force tranquille che governa la squadra. In panca non siede un guru quale Piontek o uno zio saggio come Moller Nielsen (il ct Hjulmand pare appena uscito dallo yacht nel sentiero verso la club house, con le olive già in tavola), quindi è logico che la leadership sia corale, concertata, quasi corinthiana.

 

Una seconda casa

Prendere Kjaer, per esempio: una carriera di alti e bassi, slanci e topiche, l’imprevista solidità dimostrata al Milan e qui, proprio nel quadrato di Copenhagen, i primissimi soccorsi al capitano tra la vita e la morte, tenda umana a sua protezione, la vicinanza a Sabrina Eriksen quando ancora non si vedeva la luce in fondo al tunnel. Circostanze che hanno accresciuto il suo ascendente nel gruppo, cementatosi per regalare al compagno e alla nazione momenti del tutto opposti a quelli drammatici del Telia Parken. Beninteso, l’eventuale affermazione danese questa volta non sarebbe propriamente una “favola”: i titolari e molte riserve vincono infatti nei principali campionati, con particolare destino verso la Serie A. E il caso Eriksen ha portato molti appassionati a scegliere la Danimarca quale “seconda casa”: come negli anni Ottanta e Novanta, quando la classe pura dei fratelli Laudrup e il gioco frizzante degli Olsen (Morten e Jesper, loro però non consanguinei) aveva conquistato schiere di fan da ogni dove all’équipe con quella strana maglia Hummel bipartita.

Alle 21 il fischio del signor Danny Makkelie, la truppa gentile di Hjulmand alzerà gli occhi durante l’esecuzione dell’inno e vedrà qualche organica macchia rossa sugli spalti: i Roligans, antitesi diametrale dei vecchi hooligans con la Union Jack, quando i primi erano gioiosi e i secondi inibiti dall’Uefa. Pierre-Emile Höjbjerg, in forza al Tottenham pure londinese, avrà sicuramente dimenticato il rigore fallito contro i finnici e sarà concentrato solo verso l’ultimo passaggio, la sua arte, in grado di mandare in gol una formazione nata per essere verticale. Al di là del divo Christian, che forse tornerà ma altrettanto probabilmente lo farà lontano da San Siro, è un felice momento sportivo per lo Jutland e dintorni: in bicicletta ci si esalta per Fuglsang, Kragh, Pedersen già iridato, da Tokyo arriverà qualche oro. Ma niente sarebbe paragonabile al sacco di Wembley, al football che perde ancora una volta la strada di casa, alla guardia reale che con Matteo Bruschetta potrebbe ribadire: “C’è del calcio in Danimarca”.

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