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Gli inglesi non sono scaramantici, cantano it's coming home e ci credono davvero

Giuseppe Pastore

La nazionale di Southgate si è imposta all’attenzione del mondo come rarissimo caso di Nazionale inglese avveduta tatticamente e sono i grandi favoriti per l'accesso alla finale

In quest’Europa balcanizzata che s’illude di essere unita solo per una competizione calcistica, popoli che per altissime e bassissime ragioni scaramantiche sono disposti a non cambiare le lenzuola per tre mesi purché la loro squadra superi un turno dopo l’altro dividono lo stesso cielo con civiltà che si ritengono più evolute, tanto da inondare stadi reali e virtuali con un coro-frase-tormentone di incredibile potere auto-iettatorio, in spregio a ogni elementare buonsenso: it’s coming home. I tifosi inglesi sono talmente persuasi e pervasi dalla voglia di alzare una coppa dopo 55 anni che glissano amabilmente sulle origini di quella canzone datata 1996, incisa per celebrare un titolo europeo da vincere a Wembley che non vinsero mai, battuti ai rigori in semifinale dalla Germania (l’equivalente delle nostre micidiali Notti Magiche). Ma non si staranno portando sfiga da soli?, specula tra sé l’Uomo Mediterraneo, assai sensibile a questi argomenti. Loro invece no, procedono tetragoni nelle loro massicce convinzioni: it’s coming home.

Approdato alle semifinali, ogni grande torneo per Nazionali deraglia in una sovrabbondanza finanche stucchevole di predestinazioni e interpretazioni dei sogni e dei segni. Il campo di calcio non è più sovrano, sovrastato da corsi e ricorsi: da un lato l’Inghilterra felix degli anni Novanta, dall’altra lo spirito del Novantadue che per i danesi non è un anno tragico come per noi italiani bensì il più dolce di tutti, quello sì autenticamente “magico”, senza finali amari che abbiamo preferito dimenticare. Molto più modestamente, la verità è che stasera l’Inghilterra è largamente favorita su una Danimarca evidentemente in missione per conto di Eriksen ma inferiore in tutto, sebbene gli scoppiettanti danesi siano l’ultima squadra riuscita a passare in vantaggio a Wembley in casa degli inglesi (14 ottobre 2020, Nations League, gol per l’appunto di Eriksen). Quello zero alla voce gol subiti è rumorosissimo e potrebbe paradossalmente trasformarsi nel punto di rottura di una squadra che in questo Europeo – nonostante l’ingiudicabile 4-0 all’Ucraina arrivata ai quarti di finale completamente lessa – sta attaccando sempre un po’ meno della partita precedente, come succede di frequente a chi non subisce gol da tanto tempo, finendo poi in qualche modo vittima della paura che la striscia s’interrompa.

Già da tre anni l’Inghilterra di Southgate si è imposta all’attenzione del mondo come rarissimo caso di Nazionale inglese avveduta tatticamente (“merito degli allenatori stranieri”, dicono quelli bravi che poi nell’editoriale successivo sparano a zero su Guardiola): senza riferimenti fissi, con un centrocampo scientemente svuotato di valore tecnico e affidato ai galli da combattimento Rice e Phillips, allo scopo di dominare sulle fasce e alimentare una batteria di trequartisti e mezze punte mai così ricca nella storia inglese. Cui, tuttavia, Southgate ricorre con parsimonia, avendo fin qui cavato qualcosa dal solo Sterling, decisamente il più elettrico della compagnia: Foden sembra aver bruciato troppe energie nell’immaginarsi il grande torneo che non sta vivendo, mentre il vanesio Grealish, idolo locale, sembra molto più efficace buttato nella mischia a mezz’ora dalla fine. L’uomo dell’ultimo miglio potrebbe essere Jadon Sancho, pagato a peso d’oro dal Manchester United e scongelato nel quarto di finale. Nell’attesa di elevare il proprio tasso estetico all’altezza di una semifinale o finale europea, gli inglesi seguitano a collezionare un sacco di corner e calci piazzati che battono benissimo già da tre anni, aiutati sabato scorso dalla dabbenaggine della difesa ucraina che ha subìto tre gol di testa dal limite dell’area piccola in un quarto d’ora. La differenza in meglio o in peggio potrebbe marcarla Wembley, che noi continentali speriamo diventi una pentola a pressione per le teste e i corpi troppo affollati di sogni della banda Southgate: ma va detto che contro la crepuscolare Germania lo stadio di Londra è stato un valore aggiunto e il miedo escenico può essere neutralizzato solo scendendo in campo con la testa leggera. Fortunatamente per i danesi, è proprio il loro caso.

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