Foto LaPresse

Verso Italia-Spagna. Mancini e Luis Enrique si sono scambiati la pelle

Giovanni Battistuzzi

Le due nazionali non sono diverse dai loro allenatori, rispecchiano i calciatori che sono stati. Mancini, Luis Enrique e la metamorfosi di Azzurri e Furie Rosse

Tra forma e sostanza è una questione di scelte. Almeno nel calcio e non solo nel calcio. A volte possono andare assieme, la ricerca della prima conduce in un modo o nell’altro alla seconda. In molti casi questo rapporto si spezza, il piacere estetico rimane negli occhi, non si trasforma in materia, quella preziosa di una coppa. Accade mai che si trasformi la seconda nella prima sul campo da gioco. Poco male: se la sostanza è vincente facilmente ci si dimentica della forma, la libidine da vittoria cancella qualsiasi altra cosa, provoca dimenticanza, fa passare tutto in secondo piano.

Italia-Spagna molto spesso è stato lo scontro tra la ricerca calcistica di queste due dimensioni. Questioni di padri. Da un lato Vittorio Pozzo, dall’altro Francisco Bru. Stessi anni, i Venti del Novecento; stessa formazione, quella inglese passata per la lezione danubiana, l’unica possibile; opposte interpretazioni e credo. Da una parte il Metodo, ossia – a farla breve e spiccia – predilezione per la fase difensiva, lanci lunghi e contropiede, dall’altra il Sistema, ossia ricerca del fraseggio, del gioco corale, dell’offensività.

È negli anni Venti che il mondo del calcio si spacca e diventa ideologia. Gli italiani il loro Metodo se lo inventano, gli spagnoli si adattano al Sistema inglese. Matt Busby, l’allenatore che trasformò il Manchester United in una grande squadra tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, sosteneva, a inizio anni Novanta, che “la storia del calcio, lì dove non è stato inventato, non si  discosta molto dalle origini. Per il semplice fatto che non la si può cambiare. Vedrete anche la rivoluzione di Sacchi fallirà”. Sbagliò, non sbagliando. Cambiò il modo di giocare, ma non l’atteggiamento, il punto di vista iniziale dal quale principia a costruire una squadra.

Il Tiki-taka non poteva non nascere e prosperare in Spagna, luogo che il Paron definì “paradiso del calcio barocco”, con un certo piglio polemico. Nereo Rocco aveva sfidato in amichevole il Real Madrid e trovò il gioco del Blancos “lezioso fino all’eccesso”, tanto da opporsi nell’estate 1961 all’arrivo del grande fantasista dell’Atletico Madrid Enrique Collar che il presidente Rizzoli voleva regalargli per rinforzare la squadra: “Ho bisogno di calciatori, non di ballerini”, si sentì rispondere dal tecnico.

Il Tiki-taka venne per anni considerato sinonimo di bel calcio. Passaggi, passaggetti, triangolazioni ripetute divennero la gioia di chi si schierava per il bel gioco. Fu un calcio vincente che durò qualche stagione, un decennio abbondante se si considera la coda lunga. La Spagna griffata Barcellona ne approfittò vincendo due Europei e un Mondiale.

Gli iberici partivano dalla fase offensiva e da quella costruivano la squadra, mentre gli italiani ancora agivano all’opposto. La tradizione è qualcosa che rende difficile il cambiamento. Non che l’Italia fosse ancora tutta catenaccio e contropiede, anche il nostro calcio si è evoluto, è passato per Arrigo Sacchi e Carlo Ancelotti, Marcello Lippi e Antonio Conte, allenatori tutt’altro che catenacciari. È quello che Azeglio Vicini chiamò “l’imprimatur fondativo”, ossia il modo nel quale venivano create le fondamenta di una squadra che non cambiò, soprattutto in Azzurro: prima attenzione alla fase difensiva, poi si passava a costruire il resto.

Poi arrivarono il giocatore meno spagnolo degli anni Novanta e quello meno italiano degli anni Ottanta e Novanta a cambiare le cose, a scambiarsi pelle e passato.

Don Balon nel 1995 scrisse che “Luis Enrique sembra un giocatore italiano che per sbaglio è nato in Spagna”, perché “solido, essenziale, coriaceo, degnissimo per questo di ben figurare in Serie A”. Di Roberto Mancini invece Gianni Brera scrisse che “la bellezza e il senso estetico del suo giocare lo avvicina al calcio spagnolo per visione in avanti del campo, o meglio a quei campioni sudamericani che impreziosirono di fantasia le squadre iberiche”. Le loro nazionali non sono diverse da loro, rispecchiano i calciatori che sono stati. E così forma e sostanza hanno in questi ultimi anni cambiato sede, intrapreso un doppio viaggio opposto. Questa sera si vedrà se la forma continuerà a essere anche sostanza e se quest’ultima continuerà ad essere tale.

Di più su questi argomenti: