Dombrovski vince, De Marchi in rosa. Ribalta e ribaltamento al Giro d'Italia

Giovanni Battistuzzi

A Sestola il Giro ha iniziato a salire con il naso all’insù, a superare le colline per guardare le montagne. La fuga è arrivata ancora, l'americano e l'italiano hanno visto il sole nella pioggia emiliana

“Perché prestiamo tanta attenzione al meteo?”, si chiedeva il premio Nobel per la letteratura Saul Bellow in un articolo sulla rivista News from the Republic of Letters. Una domanda a cui rispondeva poche righe dopo: “I nostri discorsi sono pieni di riferimenti legati al sole, alla pioggia, al vento o alla neve, come se il sole, la pioggia, il vento o la neve fossero davvero importanti. È così davvero? Penso che tutto ciò sia un qualcosa che sopravvalutiamo enormemente. A volte l’ossessione per il tempo climatico è solo un riflesso di quello che ci portiamo dentro”.

 

Anni fa, sul lungomare di Trieste, un signore guardava il cielo colmo di nuvole che scaricavano secchiate d’acqua sulla città e sul molo Audace e diceva gioioso che un sole così bello non l’aveva mai visto. Mica semplice dire se avesse davvero torto. La pioggia sembrava non disturbarlo, rideva felice come in una giornata assolata di primavera.

 

Lo stesso sorriso che è si è rivisto oggi nei volti di Joe Dombrovski e Alessandro De Marchi dopo aver superato il traguardo della quarta tappa del Giro d’Italia 2021. La pioggia che aveva bagnato i loro corpi per tutto il giorno, la stessa che aveva intriso le strade che conducevano a Sestola, sembrava non disturbarli. L’aveva fatto prima, mentre pedalavano, ma non in quel momento. Tutto era passato, nonostante le gambe pesanti e il freddo che iniziava a farsi sentire. Quello che era apparso in quel momento era un sole incredibile, che a stare attenti lo si poteva scorgere davvero. Un vento che aveva spazzato tutto, un colpo di Bora improvviso capace di sgombrare qualsiasi nuvolone, anche il più insistente.

 

Joe Dombrovski il sorriso l’aveva lustrato e mostrato ancor prima avesse superato lo striscione d’arrivo. Gli si era formato quando si era girato a qualche centinaio di metri dal traguardo e aveva visto il corridore della Israel Start-up nation troppo indietro per recargli preoccupazioni. Era esploso mentre alzava le mani dal manubrio e le scuoteva in segno di vittoria.

 

Nel volto di Alessandro De Marchi il sorriso si è invece palesato qualche metro decina di metro dopo l’arrivo. Il tempo di annullare il rammarico per non essere riuscito a vincere la tappa per sostituirlo con quello, forse ancora più incredibile, di essere il primo della classe, di poter vestire la maglia rosa. Cosa da non crederci, dicevano i suoi occhi e poi le sue parole al microfono di Stefano Rizzato. “È tutto il giorno che sta cosa mi girava in testa, ed era forse già qualche giorno che dentro di me ci pensavo. Oggi ne sono successe di tutti i colori, pensavo di aver perso l’occasione e mi avrebbe dato davvero un grande dispiacere arrivare lì lì e perderla per qualche errore. Alla fine è successo, ha prevalso la vecchia regola: non mollare mai”.

   

    

Mica è uno che molla Alessandro De Marchi. È da anni che naviga di fuga in fuga avanti al gruppo, da anni che raccoglie un’enormità di vento in faccia e di chilometri di avventure. E qualche vittoria. Vittorie di tigna, di impegno. Vittorie di ribalta e ribaltamento. Oggi una vittoria mancata si è trasformata in una maglia rosa ottenuta.

  

L’inverso di quanto capitato a Joe Dombrovski. Per l’americano è il quarto successo in carriera, il primo in un grande giro, in una di quella corsa nelle quale erano stati in molti a credere potesse inserire il suo nome se non nell’albo dei vincitori, quantomeno in quello dei podi. Non è andata così. Per qualche tempo ha provato a inseguire tutto ciò. Poi ha capito che per lui il ciclismo era altro, era provare a inseguire la stramba idea che non sempre le ragioni di chi insegue sono più forti di quelle di chi fugge. E ha iniziato a fuggire.

   

Foto LaPresse  
    

A Sestola il Giro ha iniziato a salire con il naso all’insù, a superare le colline per guardare le montagne. Quentin Hermans, Rein Taaramae e Christopher Juul-Jensen hanno sperato che le prime potessero essere la rampa di lancio per le seconde. Hanno fatto male i conti.

  

Di conti non ne hanno fatto troppi invece chi pensa che ci sia ancora tempo per prendere la maglia rosa, perché ha la velleità di portarsela addosso sino a Milano. Hanno inseguito gli avanguardisti, hanno provato a tenerli a distanza di sicurezza, poi hanno pensato che con tutta quella pioggia che scendeva era meglio pensare alla loro di sicurezza. La maglia rosa Filippo Ganna ha inseguito i fuggitivi quasi da solo, ha onorato la maglia che indossa ancor più di quello che avrebbe potuto fare cercando di difenderla. Ha reso evidente che anche il primo della classe può sacrificarsi per il bene, o in questo caso per il meglio, della sua di classe. Indipendentemente da cosa di pensi della strategia della Ineos,

 

Gli altri si sono limitati a darci dentro sull’ultima salita, quella che portava in cima al Colle Passerino. Lì Giulio Ciccone ha provato a vedere l’effetto che fa anticipare tutti. Lì Mikel Landa ha provato a vedere l’effetto che fa essere il primo a fare sul serio. Lì Egan Bernal ha provato a vedere l’effetto che fa far vedere in giro e al Giro quanto si sente bene con le gambe. Con loro sono arrivati Aleksandr Vlasov e Hugh Carthy. Tutti gli altri almeno undici secondi dopo. Almeno per Remco Evenepoel, Romain Bardet, Simon Yates, Dan Martin Davide Formolo, Alberto Bettiol e Damiano Caruso. Per Vincenzo Nibali, Emanuel Buchmann, Marc Soler, Jai Hindley e compagnia è andata peggio: 34 secondi in saccoccia. Per Tobias Foss e George Bennett diversi di più. Per Joao Almeida molti di più.