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Dov'è Leo Messi?

Giuseppe Pastore

Da sempre silenzioso e impalpabile fuori dal campo, Messi ha iniziato a vedere crollare i pezzi della scenografia del grande “Truman Show” di cui era protagonista. E ha deciso di camminare da solo

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Pretendiamo troppo dagli atleti? In un illuminante pezzo di appena sedici pagine incastonato al centro di Considera l’aragosta, intitolato Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore, la buonanima di David Foster Wallace si stupiva di quanto fosse noiosa e vuota l’autobiografia della ragazzina prodigio Tracy Austin, a fronte di una carriera da tennista fulminante e tragica, spezzata dagli infortuni a soli ventuno anni, e quindi meritevole di una prosa altrettanto avvincente. E invece quel libro era una vera ciofeca: melensa, autocelebrativa e per nulla interessante da un punto di vista drammaturgico, tanto che Wallace dubitava che la giovane Tracy fosse realmente un essere senziente, e alla fine concludeva che la vacuità mentale di questi grandi atleti dovesse essere il naturale contrappeso del loro talento atletico sovrumano.

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Pretendiamo troppo dagli atleti? In un illuminante pezzo di appena sedici pagine incastonato al centro di Considera l’aragosta, intitolato Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore, la buonanima di David Foster Wallace si stupiva di quanto fosse noiosa e vuota l’autobiografia della ragazzina prodigio Tracy Austin, a fronte di una carriera da tennista fulminante e tragica, spezzata dagli infortuni a soli ventuno anni, e quindi meritevole di una prosa altrettanto avvincente. E invece quel libro era una vera ciofeca: melensa, autocelebrativa e per nulla interessante da un punto di vista drammaturgico, tanto che Wallace dubitava che la giovane Tracy fosse realmente un essere senziente, e alla fine concludeva che la vacuità mentale di questi grandi atleti dovesse essere il naturale contrappeso del loro talento atletico sovrumano.

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Pretendiamo troppo da Messi? Da anni è lampante la distanza tra la qualità celestiale del suo gioco e l’assoluta inconsistenza del personaggio fuori dal campo, tanto che si fa fatica a ricordare una frase celebre, una battuta, la voce stessa di Messi. Ma questo indimenticabile 2020 ha portato un’altra grande novità: l’alzata di testa fuori copione dopo un’intera carriera vissuta in una teca di cristallo sterilizzato, lo scatto imprevisto di ribellione colpendo il boss sotto la cintura, dove fa più male, nel portafoglio.

  

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Si direbbe, il frutto maturo e meditato di una bollitura a fuoco lento, in coda a risultati sportivi sempre più avvilenti – almeno per il livello di un Messi, dove la Champions League, parafrasando un noto claim aziendale, è “l’unica cosa che conta”. Invece l’ultima “Orejona” Leo l’ha alzata nel 2015 a Berlino, prima di edizioni via via sempre più sconsolanti, una catena di figuracce iniziata a Torino nel 2017, proseguita a Roma nel 2018 e degradata a Liverpool nel 2019, fino allo sprofondo dantesco del 2-8 di due settimane fa. Del dissesto finanziario del Barcellona e dell’incredibile vicenda chiamata Barça-gate probabilmente già sapete, anche se forse a uno come Messi interessa relativamente che gli venga danneggiata un’immagine pubblica che svela sempre con estrema parsimonia. Più fastidiosa la diatriba da lockdown sui tagli agli ingaggi dei giocatori e dei dipendenti del club, in cui la società si è mossa in modo ancora ambiguo e sgradevole, provocando l’irritazione di Messi a mezzo social.

   

Forse però, a 33 anni e poche primavere da leone ancora da trascorrere, ha realizzato che la bambagia da cui è sempre stato circondato fin dagli esordi in Prima Squadra non era una semplice protezione ma qualcosa di più sottile, un modo per escluderlo, per nascondergli la visuale come si fa al cinema coi bambini davanti a una scena scabrosa, per suggerirgli: stai nel tuo. Deve averlo toccato nel vivo l’inabissamento progressivo e totale del transatlantico Barça, la squadra che appena un decennio fa riscriveva in meglio la storia del calcio, precipitato in questi mesi in cui le blau-grane sono fragorosamente rotolate a valle nel più classico dei piani inclinati. “Ma allora mi hanno sempre preso per il culo!”, urlava Fantozzi nella notte mentre leggeva Marx, imprecando contro “il padronato”. Messi non è tipo da queste crasse esternazioni: la sua lenta e progressiva consapevolezza, la crescita da bambino prodigio a essere totalmente pensante somigliano semmai alla presa di coscienza di Jim Carrey nel Truman Show. 

    

Arrivato al compimento del trentesimo anno di vita, il buon Truman Burbank – uno dei personaggi più paradigmatici e profetici degli ultimi tre decenni di cinema americano – trascorre una vita perennemente imperturbabile. Si scompone appena quando viene sfiorato da un riflettore cascato dal soffitto color cielo azzurro dell’immenso set televisivo in cui vive dalla nascita: su quel riflettore c’è scritto “Sirio”. Diventa sempre più insofferente agli assurdi divieti e alle risposte evasive che riceve alle sue domande: cosa c’è oltre i confini della sua città, perché non riesce mai a salire su un traghetto, che fine ha fatto suo padre… Poi finalmente si decide, affronta le sue paure, elude le telecamere di sorveglianza e si imbarca in mare aperto (o in quello che lui crede sia il mare), affrontando anche la tempesta che l’onnipotente regia televisiva gli scatena contro per indurlo alla marcia indietro. Milioni di telespettatori americani lo guardano incantati, sperando o temendo che il suo tentativo di libertà vada a buon fine. E si arriva al duello finale. 

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Il vulcano Messi ha iniziato a ribollire da lontano: il 2-8 contro il Bayern e il gelido e tremendo burofax spedito alla società hanno solo reso evidente che era arrivato il momento di imbottire il letto di cuscini e giocarsi il tutto per tutto, convinto di avere il vento a favore. Non è certo casuale che pochi minuti dopo che era stata resa nota la sua volontà, sia arrivato il messaggio del Mahatma Puyol – uno che negli ultimi due mesi aveva twittato solo per fare i complimenti al Siviglia – che ha imposto il sigillo papale: “Amico mio, rispetto, ammirazione e tutto il mio appoggio”. Naturalmente c’entra molto, forse tutto, l’orribile gestione Bartomeu; ma siamo certi – come sostiene qualcuno – che basterebbe servire alla Pulce la testa del presidente su un vassoio d’argento per indurlo alla marcia indietro? Sarebbe una scelta banale, un finale appiccicato con la saliva; eppure allo stesso modo non possiamo aspettarci scelte epocali da Lionel Andrés Messi Cuccittini, non possiamo pretendere che a settembre vada a giocare a Rosario, luogo in cui migliaia di fulminati (alcuni anche italiani) amano collocare le origini del calcio; né a Napoli, per seguire le orme del suo Gufo Ufficiale Maradona, né in altri posti molto romantici ma impraticabili dove si esercita l’opposizione al calcio che conta, dal Benfica al Borussia Dortmund.

   

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I ben informati giurano che ha già fatto il biglietto per Manchester, che si è sentito numerose volte con Pep Guardiola e che spostare una multinazionale come Leo Messi non è un affare che si mette in piedi in una settimana. Que serà serà: a ogni modo, più che una destinazione che sembra scontata per tutta una serie di motivi, è molto più interessante speculare sui pensieri che affollano la testa del giocatore più forte del mondo (o addirittura di sempre come sostengono, non a torto, gli aficionados) mentre è indaffarato a riempire gli ultimi scatoloni prima di lasciare la squadra, la città e l’ambiente che l’hanno reso uomo.

    

Proprio da Puyol inizieremmo, e da Piqué, e da Xavi e Dani Alves e Suarez e tutti gli altri colonnelli del grande Barça che hanno mostrato pubblicamente e privatamente il pollice verso all’imbarbarimento del Dream Team prima di Guardiola e poi di Luis Enrique. Sono gli attori non protagonisti esclusi uno alla volta nel grande Truman Show messiano, molti dei quali per “dissidi con la produzione”, impassibile mentre la scenografia cadeva a pezzi, faretti, riflettori,  meteoriti come il costosissimo e improduttivo Coutinho che, beffa delle beffe, nell’Armageddon di Lisbona ha piantato il settimo e l’ottavo chiodo nel feretro di Bartomeu. Il supporto degli amici di una vita rafforza i pensieri di Leo, da sempre rimproverato di non aver mai avuto il coraggio di camminare con le sue gambe in un’altra squadra, in un altro paese – o peggio ancora, di averlo fatto sempre in modo incerto e goffo come un paperottolo nelle sue delicatissime performance estive con l’Argentina, più simili a supplizi che a partite di calcio. Una critica puntuale e puntuta che è ormai diventata sberleffo, l’arroganza dello sfottò verso un uomo da oltre 700 gol in carriera, “senza Guardiola Messi non vale niente” (buffo: lo stesso cliché si sente spesso anche al contrario). La curiosità di sperimentare l’altro, ora che il tramonto si avvicina – certo, pur sempre nella bambagia diversa ma ugualmente comoda di agevolazioni fiscali da sogno: ma proviamola questa famosa Premier League, o perché no l’Italia (curioso: tra quelle affrontate almeno due volte, l’Inter è l’unica nostra squadra a cui non ha mai segnato). E in sottofondo una musica di pianoforte che cresce, sempre più drammatica, suonata dalla stessa enorme sovrastruttura che silenziosamente gli rema contro, perché Leo, ma cosa fai, cosa stai facendo, svuota quella valigia – non vorrai andartene davvero?

   

“Dov’è Truman?”, si chiedono istericamente alla fine del film tutti gli abitanti della fittizia cittadina di Seahaven, intenti a dargli la caccia nei boschi e sulle spiagge – e il mega-regista Ed Harris decide di far spuntare il sole artificiale nel bel mezzo della notte artificiale, in spregio alla grammatica televisiva. “Dov’è Leo?”, così si apre la biografia ufficiale di Messi (un po’ meglio di quella di Tracy Austin) scritta da Guillem Balagué, uno di quelli che oggi giurano che la scelta di lasciare Barcellona è irreversibile. Dov’è Leo? Se lo domandano da una settimana i compagni di classe e di squadra che non lo vedono più venire a scuola: avrà mica l’epatite? In gran segreto, Leo e suo padre Jorge stanno ultimando i preparativi per la grande fuga da Buenos Aires a Barcellona, in programma domenica 17 settembre 2000. Una settimana dopo, viene sbattuto davanti a una telecamera e uno sconosciuto gli ordina di eseguire il suo primo numero da circo, ventinove palleggi con una pallina da ping-pong. Otto anni dopo, il video di quella scena finisce in uno spot della Mastercard, reperibile ancora oggi su YouTube. Magari tutto d’un tratto Messi si è ricordato di quel momento di venti estati fa, emozionante ma anche un po’ umiliante. Siamo arrivati al finale. Lionel Messi in maglietta e bermuda, con i suoi tatuaggi chiassosi attraverso cui sostiene di sfoggiare una personalità, la mano sinistra a trascinare il trolley oltre il cancello aperto spalancato, ogni passo più vicino al taxi che lo aspetta in Avenida Aristides Maillol per portarlo all’aeroporto. Richiamato da una voce dall’alto, si volta un istante e medita sull’uscita di scena, un sorriso beffardo, un cenno del capo, forse un inchino. Buon pomeriggio, buonasera e buonanotte? 

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