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il foglio sportivo

Come un ospite a casa propria. L’insoddisfazione di Antonio Conte

Giuseppe Pastore

Ossessionato dal calcio, il tecnico dell'Inter vive il suo amore disperato per il pallone e la vittoria con l’incubo di perdere tempo. Cosa c’è dietro alle follie di un grande allenatore insoddisfatto e scostante?

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L’argento non si addice ad Antonio Conte. Intanto perché è il colore del secondo posto, ovvero della sconfitta, che lui vive come “un lutto temporaneo per me e per la mia famiglia”. E poi perché è un colore che ricorda il grigio, la sfumatura, la complessità, concetti difficili da trasmettere a un gruppo di venticinque teste, venticinque personalità diverse, a volte persino venticinque nazionalità (esageriamo, ma non troppo: nella rosa dell’Inter 2019-2020, conteggiando anche l’austriaco Lazaro andato via a gennaio, ci sono rappresentanti di sedici paesi differenti). Perciò Conte parla chiaro, non fa che ripeterlo in pubblica piazza, “sono uno che parla chiaro”, “mi piace essere diretto”, tutto il contrario delle circonlocuzioni spallettiane alte e voluminose come il fumo della sigaretta di una dark lady in un noir anni Quaranta.

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L’argento non si addice ad Antonio Conte. Intanto perché è il colore del secondo posto, ovvero della sconfitta, che lui vive come “un lutto temporaneo per me e per la mia famiglia”. E poi perché è un colore che ricorda il grigio, la sfumatura, la complessità, concetti difficili da trasmettere a un gruppo di venticinque teste, venticinque personalità diverse, a volte persino venticinque nazionalità (esageriamo, ma non troppo: nella rosa dell’Inter 2019-2020, conteggiando anche l’austriaco Lazaro andato via a gennaio, ci sono rappresentanti di sedici paesi differenti). Perciò Conte parla chiaro, non fa che ripeterlo in pubblica piazza, “sono uno che parla chiaro”, “mi piace essere diretto”, tutto il contrario delle circonlocuzioni spallettiane alte e voluminose come il fumo della sigaretta di una dark lady in un noir anni Quaranta.

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Nell’unico discorso alla truppa di cui è stato possibile conoscere il contenuto, furbamente fatto circolare dalla Juventus nel pieno della rimonta che portò al primo di questo ciclo di scudetti di cui non si vede la fine, Conte si rivolgeva ai soldati con crudo iper-realismo da Sergente Hartman: “Quelli del Milan vogliono vincere lo scudetto? Devono cacare sangue fino all’ultima partita!”. E l’avversario Gattuso – che quel linguaggio lo respira, lo mastica, lo mangia e lo suda 24 ore su 24 pure lui – si disse sinceramente impressionato: “M’ha gasato pure a me, mi so’ alzato dal divano e ho skippato”.

  

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Anche l’Antonio Conte di queste ultime settimane, pigramente derubricato come “pazzo” dagli opinionisti di poca fantasia, è il solito vecchio Conte di sempre, follemente ossessionato dal pallone, l’unica cosa che ama più di se stesso. È però un amore disperato come la canzone di Nada, la passione martellante che gli pulsa nelle tempie e lo rende capace dei ragionamenti più lambiccati: “Sta perdendo/sta perdendo/sta perdendo/sta perdendo tempo”. Conte odia anche perdere tempo a parlare di qualcosa che non sia il calcio in tutte le sue ramificazioni, che sia tecnica, tattica, psicologia o lavoro da scrivania. Una vecchia foto da bambino a Carnevale lo ritrae vestito da calciatore. Lo scorso dicembre è andato ospite da Fabio Fazio che gli ha porto un vassoio di cioccolatini disposti in un 3-5-2: la prima cosa che gli ha detto il cervello è stata prendere i due cioccolatini che facevano i quinti di centrocampo e alzarli sulla linea dei due attaccanti. “Ora va meglio”. I muscoli e le ossa di Antonio Conte sono invasi dalla stessa febbre che attraversava Arrigo Sacchi nelle notti insonni vegliate al lume del 4-4-2 nella tetra Pingry School di Martinsville, New Jersey, sede del ritiro azzurro durante i Mondiali 1994, quando in molti – compreso il giovane Conte – lo sentivano urlare nel sonno: “Diagonale!”, “Accorcia!”.

 

Ma questo lessico monotematico, quando l’odore del calcio ti è rimasto talmente addosso che non riesci a esprimerti in altro modo (ci immaginiamo Conte incoraggiare un amico a dieta spiegandogli che “dimagrire aiuta a dimagrire”, o motivare la figlia alla vigilia di un compito in classe importante ricordandole che “adesso sono tutte finali”), può essere anche il punto di caduta di Antonio Conte? Cioè il non saper andare al di là della polemica pre-compilata, di quelle espressioni da pilota automatico come l’ormai proverbiale “carro” del vincitore su cui nessuno deve azzardarsi a salire in corsa, già spolverato in una memorabile intemerata ai tempi di Siena, stagione 2010-2011, che YouTube conserva preziosamente in ottimo stato ancora oggi? Cosa diventa Conte quando le circostanze lo costringono a non avere più diritto di vita e di morte su ogni sasso che rotola nel suo centro sportivo come succedeva a Bari, a Siena, nella prima Juventus vincente post-Calciopoli, in Nazionale e nel primo anno al Chelsea? Che ne è di Antonio Conte quando, sia pure assolutamente ben pagato come non mancano di ricordare i detrattori, finisce in un posto – appunto – complesso, governato da una multinazionale straniera e un po’ oscura (quantomeno oscura a Conte, a cui viene male relazionarsi con il proprietario “che sta in Cina”), con un culto della gerarchia molto superiore al nostro – chiedere per informazioni a Fabio Cannavaro, caldamente invitato a seguire un corso di cultura aziendale dai dirigenti del Guangzhou Evergrande dopo essersi lamentato del gap che separa il calcio cinese da quello giapponese? Dev’essere successo qualcosa in quel colloquio telefonico con Steven Zhang, se 48 ore dopo Conte è rientrato placidamente nei ranghi, sperticandosi persino in complimenti per l’operazione Alexis Sanchez – altro che “so solo io cos’ho dovuto fare per farmi prendere Lukaku”.

 

È esercizio fin troppo facile mettere in fila le decine di polemichette o polemicucce sollevate da Conte in questo decennio, quasi tutte durate lo spazio di mezza giornata, per poi stabilire l’ovvio: e cioè che Antonio Conte è l’italiano in purezza, è così intriso di italianità che potrebbe (e forse dovrebbe) rispondere ai giornalisti citando solo i versi più riconoscibili delle canzonette come Nino Manfredi in “Straziami ma di baci saziami”. In questi giorni è tornata in radio una delle canzoni in questo senso più micidiali e chirurgiche della storia della musica italiana, “Perdere l’amore” di Massimo Ranieri nella versione di Tiziano Ferro: e diteci se non sarebbe il sottofondo perfetto (“prendere a sassate tutti i sogni ancora in vooooolo…”) ai dieci minuti passati a Sky in costante crescendo melodrammatico, con una rete di rimandi e sottotesti che ha mandato in tilt il popolo nerazzurro, attualmente diviso a metà tra chi ama Antonio Conte e chi lo odia, tra chi è stanco di sconfitte e invoca grillinamente la piazza pulita e chi diffida di un personaggio così fortemente caratterizzato con la Juve, tirando in ballo il fantasma di Marcello Lippi (esattamente venti estati fa il patatrac, tra la rovinosa sconfitta contro l’Helsingborg nel preliminare di Champions e la piazzata a Reggio Calabria che “costrinse” Moratti a esonerarlo).

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L’arrivo all’Inter del conducator Conte ha fatto automaticamente scattare i paragoni con Mourinho, che della parola era un prestigiatore, il più grande manipolatore della storia del gioco, e sguazzava nello stagno delle polemiche pre e post partita fino a permettersi di dire l’indicibile: “Il primo scudetto l’avete vinto in segreteria, il secondo senza avversari”, dopo un pessimo primo tempo a Bergamo in cui i suoi erano sotto 3-0 (e anche lì, le talpe…). Conte non è ancora arrivato a questo punto, anche se dopo Bergamo (ancora Bergamo) gli è sfuggita una cosa simile: “Ho fatto gli stessi punti dell’anno del Triplete, ma allora avevano già vinto tre scudetti consecutivi”. Tre e non quattro, perché quello del 2005-2006… lasciamo perdere. Ma è tutta la stagione che cerca di somministrare pillole di juventinismo, sempre però col suo stile a mezza bocca con cui interrompe la frase prima di pronunciare la parola “Juventus”. Dopo un anno sembra ancora un ospite, certamente l’ospite di lusso da non contraddire mai, che decide lui quando fare le valigie. Ma pur sempre un ospite: non sembra padrone della polemica dialettica, dice e non dice, i suoi borbottii non divertono né preoccupano come faceva il Vate di Setúbal, ma fanno semplicemente spazientire, e ci vuole tutta l’educazione di chi lo sta a sentire per non rispondergli a tono: “Ma con chi ce l’ha? A cosa sta alludendo?”. La lamentela a tempo indeterminato in cui non crede granché nemmeno lui, come quella sui calendari troppo compressi, da ammazzacaffè, come quella volta alla Juve che fece una piazzata a fine mercato perché non aveva dato il consenso alla cessione di Giaccherini, quando Marotta gli aveva comprato Tevez. “Lasciami gridare/rinnegare il cielo…”. Da qui il dubbio orribile ma legittimo, visto anche il trattamento al limite del mobbing cui sta sottoponendo il costosissimo Eriksen, dieci minuti e un gol nelle ultime tre partite: che tipo di giocatore preferirebbe all’Inter, Messi o Giaccherini?

 

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Per stare dietro a tutte le piroette di Conte ci stiamo avvitando anche noi, spaesati di fronte a certi giochi di ruolo alla John Le Carré che coinvolgono anche il suo diretto superiore Beppe Marotta, incredibilmente impeccabile come il maggiordomo di Batman. Forse quello che manda in tilt tutti i sistemi d’allarme è che Conte abbia preso a sbottare in corrispondenza delle vittorie migliori, come se più che una sconfitta ciò che lo disturbasse sommamente fosse la vittoria inutile, la tappa di trasferimento al Giro d’Italia quando la maglia rosa è già andata, il beffardo punto in meno che la Juve si è quasi divertita a lasciare tra sé e il suo ex. Eppur questo non basta, come quella poesia di Tarkovskij dal significativo titolo “È fuggita l’estate”. Per la quarta volta su quattro campionati di serie A la sua è la squadra con la miglior difesa: eppur questo non basta. Compreso il 2-0 al Getafe in Europa League, l’Inter non prende gol da cinque partite di fila, mai successo questa stagione: eppur questo non basta. Qualche buontempone ha calcolato che con i due punti a vittoria l’Inter avrebbe vinto lo scudetto: eppur questo non basta. E poi ha perso contro Sarri, che al Chelsea aveva dimostrato che c’era vita anche dopo Conte, perdipiù sollevando al cielo quel trofeo internazionale, seppur minore (l’Europa League), di cui Antonio sta cercando solo ora di sentire almeno il profumo. 51 anni appena compiuti, “quando tra i capelli un po’ d’argento li colora” (argh, l’argento), mese più mese meno Conte è coetaneo dei primi tre top manager in circolazione, Guardiola, Simeone e Klopp, che però hanno già un folto sciame di trofei e finali di Champions.

 

Superato il mezzo secolo Conte è sempre preda del fuoco di Sant’Antonio. Eternamente insoddisfatto e scostante, come se sapesse intimamente di avere la miccia più corta del previsto e che non vincere subito, al primo anno, è un problema per lui che di base il secondo anno è già insopportabile. Che la candela brucia più in fretta per chi vive le partite di calcio come se fossero incendi, proprio com’era successo a Sacchi. “Il mio modo di essere mi porterà a chiudere presto la carriera”, ha detto all’Équipe lo scorso novembre. Quella cupezza insolita dopo le vittorie, quelle frasi incerte su talpe, carri e “palate di cacca” magari non erano dettate né da un calcolo spregiudicato né dall’indole da megalomane. Forse una malinconia sorda, un fallo di reazione delle parole al pensiero che la campanella dell’ultimo giro possa suonare prima del previsto. I suoi critici più feroci – li ha pure Antonio, anche se nel suo caso se ne stanno prudentemente sotto coperta – già bisbigliano: ma se rompe anche con l’Inter, dove gli rimane da andare? “E adesso andate via. Voglio restare solo”.

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