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Discriminazione e potere. L’Nba che riparte e la questione razziale in America

Moris Gasparri

Nessuno più degli atleti americani di colore ha saputo incarnare integrazione, conflitto e marketing. Il ruolo storico di tre icone, Owens, Ali, Jordan, e la loro sintesi suprema (e politica), LeBron James

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Nella stagione Nba da poco ripartita c’è un’immagine che ha fatto grande presa mediatica, quella della “bolla”, il termine utilizzato per descrivere il confinamento spaziale a Disney World delle 22 squadre impegnate nella parte conclusiva del torneo e di tutto l’imponente apparato organizzativo che sostiene una delle principali macchine spettacolari del pianeta. Quella che il basket professionistico americano ci sta mostrando nelle sue dimensioni simboliche e comunicative – comprendendo nel discorso anche la Wnba partita lo scorso 25 luglio – è però una dimensione contraria, fatta di una compenetrazione con tematiche sociali e politiche mai così intensa e di un legame esplicito e direttamente rivendicato con le istanze del movimento Black Lives Matter. Nessuna frattura sociopolitica più della questione razziale afroamericana ha infatti implicazioni sportive, dato che la sua storia fatta di lotta per il riconoscimento, mobilitazione e conflitto si è sempre raccontata, pensata e vissuta anche attraverso lo sport e in particolare attraverso l’attivismo di alcuni suoi campioni, aspetto ora riemerso sull’onda delle proteste collettive sollevate dalle morti di George Floyd e di Breonna Taylor. Il presente che vede un LeBron James ormai pienamente trasformato in atleta e, in ordine cronologico, filantropo, community organizer, attivista e ora tycoon dell’industria dei media ma sempre con sfondo politico, ci offre dunque l’occasione per ripercorrere nelle sue linee principali questa storia, che però va pensata in profondità, per evitare facili mitizzazioni.

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Nella stagione Nba da poco ripartita c’è un’immagine che ha fatto grande presa mediatica, quella della “bolla”, il termine utilizzato per descrivere il confinamento spaziale a Disney World delle 22 squadre impegnate nella parte conclusiva del torneo e di tutto l’imponente apparato organizzativo che sostiene una delle principali macchine spettacolari del pianeta. Quella che il basket professionistico americano ci sta mostrando nelle sue dimensioni simboliche e comunicative – comprendendo nel discorso anche la Wnba partita lo scorso 25 luglio – è però una dimensione contraria, fatta di una compenetrazione con tematiche sociali e politiche mai così intensa e di un legame esplicito e direttamente rivendicato con le istanze del movimento Black Lives Matter. Nessuna frattura sociopolitica più della questione razziale afroamericana ha infatti implicazioni sportive, dato che la sua storia fatta di lotta per il riconoscimento, mobilitazione e conflitto si è sempre raccontata, pensata e vissuta anche attraverso lo sport e in particolare attraverso l’attivismo di alcuni suoi campioni, aspetto ora riemerso sull’onda delle proteste collettive sollevate dalle morti di George Floyd e di Breonna Taylor. Il presente che vede un LeBron James ormai pienamente trasformato in atleta e, in ordine cronologico, filantropo, community organizer, attivista e ora tycoon dell’industria dei media ma sempre con sfondo politico, ci offre dunque l’occasione per ripercorrere nelle sue linee principali questa storia, che però va pensata in profondità, per evitare facili mitizzazioni.

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La cultura sportiva americana rappresenta la contraddizione più forte del luogo comune che vuole lo sport come linguaggio universale.

 

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Gli sport a stelle e strisce ci mostrano da ogni lato la differenza con il resto del mondo, ma nel caso delle icone afroamericane dell’Nba, e prima ancora di quelle dell’atletica leggera e della boxe, accade invece una strana commistione: sono insieme prodotti dell’eccezionalismo – in particolare la frattura razziale che abita dall’origine la nazione americana non è rintracciabile altrove in queste forme conflittuali ancora non pienamente risolte e in questi numeri – ma anche veicoli di un potere universale che le rende doppie, con un doppio significato, uno interno alla nazione e uno esterno capace di coinvolgere il mondo intero. È stata in maniera rilevante proprio la forza di queste icone, unita alla diffusione globale dei relativi sport, a spingere fuori dai propri confini una cultura sportiva da sempre fiera del proprio isolamento.

  


Illustrazione di Juta Studio (tutti i diritti riservati)

 

Ci sono due grandi ragioni specifiche di questa iconizzazione universale. La prima è di carattere sportivo: nessuno più dei grandi atleti afroamericani ha ereditato nella modernità lo spirito agonistico della Grecia arcaica che troviamo descritto nelle gesta degli eroi omerici dell’Iliade, tutti animati dalla volontà di vincere e affermarsi come i migliori, continuamente pronti a esaltare la propria superiorità fisica attraverso sfide e contese. Per i grandi campioni afroamericani vincere, in senso individuale e di squadra, stabilire record e primati, condurre a sempre nuovi livelli di attenzione e interesse il proprio sport è insieme un’ossessione e una responsabilità consapevolmente assunta.

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Il secondo motivo è di carattere simbolico e deriva dal rappresentare un’idea concreta e incarnata di lotta per la giustizia. Dentro il percorso di eguaglianza ancora incompiuto fra le componenti etniche della società americana la posizione privilegiata che l’essere vittoriosi ha da sempre conferito ad alcuni atleti di colore è quasi sempre stata un elemento di rinforzo della mobilitazione. In chiave interna questo prendere posizione ha però sempre avuto una dimensione conflittuale, la rivendicazione di essere parte (anche in termini elettorali) e quindi la concreta consapevolezza di avere un pezzo di società americana che resiste a questa idea di giustizia con idee spesso radicalmente differenti. Campioni come LeBron James, che fuori dagli Stati Uniti sono quasi sempre idolatrati, venerati e rispettati, sono in patria anche criticati, odiati, ferocemente detestati: da qui il loro significato doppio. All’esterno infatti, soprattutto in Europa, la loro percezione comune è quella pacificata di simboli dalla forza fascinatoria spesso irresistibile, senza comprendere che la loro è in prima istanza una battaglia americana particolare, poi e di riflesso un tema capace di ispirare universalmente.

 

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Prima di arrivare alla “bolla” di Orlando, la particolare “filosofia della storia” dei grandi atleti afroamericani è riassumibile in tre grandi periodizzazioni, associate ad alcune figure ben precise.

 

La prima è quella “integrazionista”, che ha in Jesse Owens e nelle sue vittorie ai Giochi Olimpici di Berlino 1936 il primo riferimento, i cui successi, più del mito globale della sfida in presa diretta a Hitler e alle idee razziali del regime nazista – maturato a posteriori – ebbero soprattutto nell’immediato un grande impatto interno come testimonianza di integrazione, vista anche la coincidenza temporale con il periodo della prima grande migrazione di massa di milioni di afroamericani dalle campagne degli stati del sud verso le metropoli industriali del nord. Da questo punto di vista la seconda grande testimonianza, ancora più importante dato il ruolo di “religione civile” ricoperto dal baseball negli Stati Uniti, fu il debutto nel 1947 di Jackie Robinson nella Major League Baseball con la casacca dei Brooklyn Dodgers, primo giocatore afroamericano di sempre a entrare nella lega che per prima ha creato e modellato le forme del professionismo sportivo. Per comprendere l’epocalità di questo ingresso e la forza pratica della segregazione razziale basti ricordare che per i giocatori di baseball afroamericani fino a quel momento esisteva soltanto la possibilità di giocare in campionati riservati, le cosiddette Negro Leagues, per evitare mescolanze. Martin Luther King Jr, in un telegramma recapitato nel 1962 pochi giorni prima della cerimonia di ingresso di Robinson nella Hall of Fame del baseball americano, lo salutò non a caso come “uno dei più grandi uomini della nostra nazione”, e pochi mesi prima del suo assassinio a Memphis lo ringraziò pubblicamente per avergli facilitato con la forza del suo esempio il proprio impegno politico.

 

Il secondo momento è quello conflittuale, dominato in prima istanza dalla grande figura di Bill Russell, la cui vicenda umana, sportiva e sociale è stata raccontata qualche anno fa dallo storico accademico Aram Goudsouzian in un libro pregevole, King of the court. Bill Russell and the basketball revolution. La sua figura è centrale da un lato per comprendere come l’agonismo sportivo afroamericano, soprattutto quello cestistico, non sia stato in origine un destino necessario, bensì una costruzione storica per certi versi inattesa. L’Nba nasce infatti come lega “bianca” e ai giocatori di colore maggiormente talentuosi era inizialmente riservata a livello professionistico solamente la dimensione circense e di mero intrattenimento resa iconica dagli Harlem Globetrotters, percorso che lo stesso Russell rifiutò scegliendo dopo il college l’approdo ai Boston Celtics; il resto è storia nota di undici titoli Nba vinti, di cui gli ultimi due da allenatore-giocatore. Il libro in questione documenta i numerosi episodi di discriminazione razziale subiti da Russell tra fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta, compreso il rifiuto di partecipare nell’estate del 1961 a una partita di pre-season che doveva disputarsi a Lexington, nel Kentucky, perché alcuni compagni di squadra di colore non vennero serviti in un bar, e resoconta anche del suo attivismo politico nella stagione del movimento per i diritti civili, il suo partecipare a numerose proteste locali e nazionali. L’episodio più significativo è però lo stupore ammutolito del padre cresciuto nella Louisiana degli anni Venti nell’entrare nello spogliatoio e nel vedere giovani atleti bianchi prendere ordini da un nero, suo figlio.

 

Lungo questa linea da Bill Russell si giunge in maniera automatica all’icona sportiva novecentesca per eccellenza, Muhammad Ali, la prima grande personalità realmente planetaria della storia dello sport, con un percorso che vede nel 1964 l’anno cruciale, quello della sua vittoria a sorpresa nell’incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi contro Sonny Liston, seguita all’indomani dal cambio di nome e dall’adesione all’islam, ma anche quello in cui Lyndon Johnson firma il Civil Rights Act. “Sono un campione universale” è una delle frasi celebri di Ali. Universale però inizialmente solo nella proiezione esterna e non americana, in un percorso che lo vedrà girare per il mondo suscitando ovunque ammirazione (anche quella interessata dei sovietici, perché oggi come allora ogni crepa alla coesione interna dell’impero è fattore di vantaggio geopolitico per i suoi rivali), mentre in patria andava invece in scena un confronto agonistico a tutto campo, simboleggiato dalla lunga e aspra battaglia giudiziaria e mediatica nata dal rifiuto della chiamata militare per la guerra in Vietnam e durata cinque lunghissimi anni (ora narrata con dettaglio storico impareggiabile nel libro di Leigh Montville Sting like a bee. Muhammad Ali vs The United States of America 1966-1971), in cui Ali divenne il nemico interno della nazione. Poi il riconoscimento e la riconciliazione, fino alla piena consacrazione simbolica in occasione della cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici di Atlanta del 1996.

 

Dopo Ali c’è il grande rovesciamento dialettico, con la comparsa di una macchina del desiderio agonistico ancora più grande, incarnata nel corpo di tale Michael Jordan da Wilmington, talmente grande da riuscire a quasi vent’anni dal ritiro a elettrizzare ancora nei mesi del lockdown milioni di appassionati privati degli agoni sportivi. Jordan incarna il venir meno del legame tra questo desiderio e ogni idea di lotta per questioni extra-sportive, nel caso di specie la rimozione accurata e strategicamente perseguita di ogni attivismo politico per la causa del popolo afroamericano. Agli atleti-attivisti fa spazio ora il nuovo prototipo dell’atleta-mercante: se sei merce devi poter piacere potenzialmente a tutti, soprattutto ai tuoi connazionali bianchi che sono molto più numerosi, hanno molti più soldi, sono i tuoi clienti principali e magari votano il Partito Repubblicano. Quanto Jordan sia riuscito a primeggiare anche nel diventare brand di sé stesso è desumibile dai recenti bilanci di Nike, in cui il suo marchio personale svetta nei dati di crescita.

 

Il nostro cammino non può che concludersi con la figura da cui eravamo partiti, quel LeBron James che rappresenta una sintesi dialettica delle tre periodizzazioni analizzate. Resta nella sua figura l’ovvia base della spinta a primeggiare nel gioco, condita da dosi di superbia e rivendicazioni della propria superiorità agonistica. Resta anche l’attivismo, prima con l’impegno educativo nella propria comunità di Akron finanziando un programma di borse di studio per gli studenti poveri della città, poi dando vita a una scuola vera e propria, e ora con la campagna per favorire la partecipazione al voto della popolazione afroamericana e l’investimento di 100 milioni di dollari nella costruzione di un nuovo network mediatico. Un simbolo è importante: è dalla questione educativa che mosse il movimento per i diritti civili, nel 1954 con la sentenza Brown vs Board of Education in cui la Corte Suprema decise la fine della separazione scolastica tra bianchi e neri. Due invece gli elementi di novità. Al contrario della stagione jordaniana, marketing sportivo e politico negli Stati Uniti si sono ormai compenetrati nelle strategie dell’impero intitolato alla vittoria arrivato ormai a fatturare 40 miliardi di dollari, che ha da questo punto di vista in LeBron il suo atleta di punta. La seconda è che LeBron sta entrando sempre di più, passo dopo passo, nelle dinamiche della lotta per il potere presidenziale: sarà lui un giorno il primo atleta a risiedere alla Casa Bianca?

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