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il foglio sportivo

Nessuno sa come riaprire gli stadi

Giovanni Francesio

Il governo frena sugli impianti aperti al pubblico, nessuno ha soluzioni e manca poco a settembre

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Quello che sconcerta, è la totale mancanza di concretezza, di realismo; l’assenza, nel dibattito sull’impatto – enorme – del Covid-19 sul calcio, di un approccio serio e fattivo alla questione “stadi di domani”, che fino ad oggi si è limitata alle solite frasi fatte, tra le quali primeggia il tormentone nazionale dell’estate 2020, ossia “riapriremo con limitazioni” (sì, ci rendiamo conto che la questione “stadi di domani” è infinitamente meno grave della questione “scuole di domani”, altrettanto in alto mare, e che genitori e studenti hanno tutto il diritto di insultarci al grido di “chissenefrega degli stadi”; ma noi, ancorché genitori, di stadi dobbiamo scrivere…). A sentire le dichiarazioni di politici, dirigenti e addetti ai lavori, si ha sempre l’impressione di essere un passo indietro rispetto alla realtà: la “riapertura con limitazioni” è una bella frase buttata là, ma che se si sa di cosa si sta parlando, se si ha un minimo di esperienza di che cosa sia andare allo stadio in Italia, appare completamente avulsa dalla realtà, pura retorica casaliniana.

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Quello che sconcerta, è la totale mancanza di concretezza, di realismo; l’assenza, nel dibattito sull’impatto – enorme – del Covid-19 sul calcio, di un approccio serio e fattivo alla questione “stadi di domani”, che fino ad oggi si è limitata alle solite frasi fatte, tra le quali primeggia il tormentone nazionale dell’estate 2020, ossia “riapriremo con limitazioni” (sì, ci rendiamo conto che la questione “stadi di domani” è infinitamente meno grave della questione “scuole di domani”, altrettanto in alto mare, e che genitori e studenti hanno tutto il diritto di insultarci al grido di “chissenefrega degli stadi”; ma noi, ancorché genitori, di stadi dobbiamo scrivere…). A sentire le dichiarazioni di politici, dirigenti e addetti ai lavori, si ha sempre l’impressione di essere un passo indietro rispetto alla realtà: la “riapertura con limitazioni” è una bella frase buttata là, ma che se si sa di cosa si sta parlando, se si ha un minimo di esperienza di che cosa sia andare allo stadio in Italia, appare completamente avulsa dalla realtà, pura retorica casaliniana.

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Siamo ad agosto, la prossima stagione dovrebbe iniziare il 12 settembre (anche se probabilmente, a sentire le dichiarazioni di Paolo Dal Pino, presidente della Lega di Serie A, la prima di campionato slitterà di una o due settimane, se non addirittura a ottobre), e non abbiamo ancora avuto il bene di leggere una parola su quello che ci sembra essenziale, ossia un pensiero operativo sulla questione stadi.

 

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La scorsa settimana qualcuno (su tutti il presidente della Figc, Gabriele Gravina) ha finalmente iniziato ad allarmarsi e a sollecitare il governo, Dal Pino ha parlato di “un dossier molto corposo per indicare la via del ritorno agli stadi”, via subito raffreddata dal ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora: “Le fughe in avanti di chi vuole ripartire subito e con gli stadi aperti sono fughe fuori dalla realtà”. In effetti siamo ancora in attesa del protocollo ufficiale del comitato tecnico-scientifico, che in ogni caso difficilmente darà una risposta alle domande fondamentali, ossia: “Come e quando faremo tutto quello che si deve fare per riaprire gli stadi? Chi lo farà? Chi pagherà?”.

 

Ci sono tre possibilità: la prima, purtroppo di gran lunga anche la più remota, è che tutto passi in cavalleria, il pericolo pandemico sparisca, e si torni ai felici assembramenti di una volta; la seconda è che abbia ragione Tim Spector, epidemiologo del King’s College di Londra, che dice che si dovrà giocare a porte chiuse per due anni, e in questo caso ti saluto il calcio; la terza è che anche negli stadi si decida di fare come si sta facendo più o meno in tutti gli altri luoghi di socialità e aggregazione, ossia attrezzarsi per ospitare il pubblico riducendo al minimo il rischio di contagio.

 

E non c’è nemmeno bisogno di secernere un pensiero su quello che c’è da fare, l’ha già fatto qualcun altro al posto nostro, ossia lo studio di architettura specializzato in impianti sportivi Fenwick Iribarren, nella persona di Mark Fenwick, che in alcune interviste ha dato un quadro chiarissimo della situazione: ci sono due regole che il Covid ha imposto e che impattano enormemente sugli stadi: stare lontani almeno un metro (lui dice due…), e non toccare niente che abbia toccato qualcun altro. Negli stadi, fino a ieri, si stava ammassati, e tutti toccavano tutto. Per cui se si vogliono salvare gli stadi, e di conseguenza il calcio, bisogna prendere, e in fretta, una serie di provvedimenti.

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In Germania, come hanno scritto su questo giornale Giorgio Dusi e Giorgio Tosatto, è già pronto un protocollo molto preciso, che regola sostanzialmente tutto, compresa la possibilità di far entrare il pubblico anche nelle standing areas, le zone senza seggiolini, che negli stadi tedeschi sono presenti quasi ovunque (come da noi, solo che da loro è una scelta).

 

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In Italia, invece, per il momento ancora niente, nonostante la situazione sia decisamente più critica che nel resto d’Europa, visto lo stato degli impianti e delle normative, tutte improntate a una vecchia logica repressiva e non, come avviene altrove, alla semplificazione del controllo: a partire dall’esterno degli stadi, perché il delirante sistema di ingresso attualmente in vigore è, e sarà, se non si fa niente, la prima causa di assembramento. Infatti prima di entrare allo stadio bisogna accedere alla “zona di sicurezza”, dopo aver fatto controllare agli steward il documento d’identità e il biglietto, procedura quanto mai macchinosa che crea sempre una calca pazzesca; poi c’è la perquisizione (mani addosso, toccamenti di ogni genere), dopo di che ci si mette in fila per passare i tornelli, in spazi quasi sempre angusti. Per far entrare anche “solo” ventimila persone in uno stadio come San Siro, applicando questa prassi, e mantenendo i criteri di distanziamento (e aggiungendo il controllo della temperatura), ci vorranno due giorni. E rimarrebbe comunque il problema dell’infrazione strutturale alla regola del no touch, perché lo steward ti tocca il documento, quello che ti perquisisce ti tocca dappertutto, tu devi toccare il tornello per entrare, eccetera. Quindi, se si vuole davvero riportare la gente allo stadio in sicurezza, la prima cosa da fare è rivedere tutti i regolamenti e tutte le strutture di accesso: un lavoro immane, sia dal punto di vista burocratico-legislativo che impiantistico. Una volta dentro, peggio ancora. Scale, e relativi corrimano, seggiolini, balaustre, bar, cessi… Per farla breve, bisognerebbe rifare tutto. E conseguentemente ripensare, anzi ribaltare, il rapporto tra il calcio e i suoi tifosi, anche perché è abbastanza facile prevedere che, calando gli ingressi, e vista la penuria di quattrini che investirà il mondo del calcio nei prossimi anni, i prezzi dei biglietti aumenteranno. Quindi il calcio si rivolgerà a un pubblico diverso, con maggior disponibilità economica, e di conseguenza con maggiori pretese di essere trattato decentemente.

 

Insomma, un lavoro difficilissimo, e forse impossibile, vista la situazione disperata da cui si parte in Italia. Ma proprio per questo ci sembra un tema letteralmente enorme, una questione di vitale importanza per il futuro non solo degli stadi e del tifo, ma “del gioco”, come direbbe Federico Buffa. Evidentemente, però, sembra così soltanto a noi, visto che quando sfogliamo qualche quotidiano sportivo, di solito si parla del calciomercato dell’Inter. Ma è perché prima ci siamo sbagliati. Non è vero che ci sono solo tre possibilità; ce n’è una quarta: “riaprire con limitazioni”, appunto, e per tutto il resto far finta di niente, improvvisare, confidare nella infinita passione – e pazienza – dei tifosi, chiudere un occhio, o bendarsi addirittura, e che Dio ce la mandi buona.

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