PUBBLICITÁ

il foglio sportivo

L’eroe dei due mondi della boxe italiana

Marco Pastonesi

Nando Spallotta non aveva paura di niente e di nessuno. La strana storia del pugile italiano che conquistò il Madison Square Garden ma non l'Italia

PUBBLICITÁ

Accettava qualsiasi avversario, in qualsiasi spazio, su qualsiasi ring. Una volta combattè anche nella giungla. “Salii su un aereo a pale, che decollò, volò e atterrò, poi fui condotto in una radura – raccontava -. Un buio pesto, non si vedeva nulla, era tutto nero, nero l’altro pugile, neri gli spettatori, nero il quadrato, gli unici bianchi eravamo io, il mio manager e l’asciugamano. Al gong cominciai a prendere cazzotti uno dopo l’altro. Non li vedevo partire, però li sentivo arrivare. Una, due, tre riprese, e avanti così, subendo, incassando, resistendo. Finché alla decima, quello, per finirmi, caricò la bomba, io, per difendermi, abbassai la testa, lui mi colpì la capoccia e poi urlò di dolore. Gli hanno sparato, pensai. Invece si era fratturato mano, polso e avambraccio, e gli era uscita anche la spalla. E così, senza neanche tirare un solo pugno, e senza neanche aver mai visto l’avversario in faccia, vinsi per ko”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Accettava qualsiasi avversario, in qualsiasi spazio, su qualsiasi ring. Una volta combattè anche nella giungla. “Salii su un aereo a pale, che decollò, volò e atterrò, poi fui condotto in una radura – raccontava -. Un buio pesto, non si vedeva nulla, era tutto nero, nero l’altro pugile, neri gli spettatori, nero il quadrato, gli unici bianchi eravamo io, il mio manager e l’asciugamano. Al gong cominciai a prendere cazzotti uno dopo l’altro. Non li vedevo partire, però li sentivo arrivare. Una, due, tre riprese, e avanti così, subendo, incassando, resistendo. Finché alla decima, quello, per finirmi, caricò la bomba, io, per difendermi, abbassai la testa, lui mi colpì la capoccia e poi urlò di dolore. Gli hanno sparato, pensai. Invece si era fratturato mano, polso e avambraccio, e gli era uscita anche la spalla. E così, senza neanche tirare un solo pugno, e senza neanche aver mai visto l’avversario in faccia, vinsi per ko”.

PUBBLICITÁ

  

Nando Spallotta era l’eroe dei due mondi, almeno quello con i guantoni. Il suo record ufficiale, da welter a mediomassimo, racconta di 46 match (17 in Italia e 29 all’estero) con 19 vittorie (di cui 9 prima del limite), 5 pareggi e 22 sconfitte (ma solo l’ultima per ko), nessun titolo conquistato se non quelli dei giornali in cui veniva imparentato, almeno per la forza e il coraggio, a fuoriclasse come Jake La Motta. Ma tra incontri ufficiosi ed esibizioni estemporanee, Spallotta superò quota 100. “A noi figli – confida Umberto, il primo dei tre – diceva che in Venezuela, a Cuba e negli Stati Uniti combatteva quasi una volta la settimana. A lui non interessava il curriculum, ma le borse”.

   

PUBBLICITÁ

Era nato a Velletri nel 1931, Nando, ma ha sempre vissuto ad Anzio. Scuola poca, lavoro subito, nella bottega da ciclista del padre: riparazione e noleggio bici. La passione per la boxe accesa dai soldati americani: i primi match semiclandestini a 14 anni, fra raccomandazioni e scommesse, il dilettantismo sorvolato, il professionismo a 20 anni. “Era un modo – spiega Umberto – per emergere dalla povertà, per sottrarsi alla fame, per cercare emozioni”. Fra i suoi maestri, anche Pipero (ma i suoi veri nomi – suo padre era un anarchico – risultano Lucifero Arbace Ribelle) Panaccione, prima pugile, poi maestro e procuratore, che recitava l’elogio del sinistro: “Nel sinistro c’è l’arte e l’eleganza, la finezza, l’impostazione di un boxeur. Avere un bel sinistro e saperlo usare significa essere un pugile quasi completo. Avere un buon destro senza fare un buon uso del sinistro è come trovarsi nel mezzo del deserto, affamato e assetato, con un sacchetto di monete d’oro e non sapere come spenderle. Con un bel sinistro sarai ricco e dominerai il mondo”. Ma Spallotta non aveva l’arte né l’eleganza del sinistro. Dopo gli esordi deludenti (2 pareggi e 8 sconfitte nei primi 10 incontri, tutti in Italia), Nando svoltò quando accettò di combattere all’estero: 29 match ufficiali in quattro anni tra Caracas, Maracaibo, Aruba, L’Avana, New York, Miami, Boston e Pittsburgh. “Il suo stile era quello degli americani – spiega Patrizio Colantuono, che a Spallotta ha dedicato un capitolo nel suo libro su Giulio Rinaldi e gli altri assi del pugilato anziate -: sempre avanti, comunque, dovunque”. “Un cazzotto a me, un cazzotto a te - semplifica Nando Onori, di Anzio, peso gallo olimpico a Montreal nel 1976 -. Poca arte nobile, ma la maniera ideale per dare spettacolo”. “La migliore dote di papà – aggiunge Umberto – era la capacità di incassare. Ripeteva: ‘I cazzotti fanno male’. Ma spesso vinceva perché gli altri si stancavano a menarlo”. “Quando andai a combattere a Cuba – ricorda Onori – parlavano di Spallotta come un grande campione. Tutti lo conoscevano, tutti lo stimavano, tutti potevano narrare di incontri leggendari e scontri mitici”. A forza di vivere là, Nando Spallotta aveva imparato a cavarsela anche giù dal ring, sia in inglese sia in spagnolo. “I suoi racconti erano meravigliosi, affascinanti, incredibili – ricorda Umberto -. Un Indiana Jones d’altri tempi”. “Rischiò di morire fucilato – tramanda Colantuono -. Accadde a Cuba. Spallotta era diventato uno dei due amanti della segretaria del dittatore Batista. L’altro, pare, era Fidel Castro. Batista arrestò Nando, lo rinchiuse in galera e lo condannò a morte. Fu Bobby Gleason, il suo manager americano, a smuovere mezzo mondo, compreso quello del mondo italoamericano, a salvarlo all’alba del giorno previsto per l’esecuzione”.

   

Se c’è un capolavoro, i tre match contro Rinzy Nocero al Madison Square Garden: il primo vinto, il secondo pareggiato (“Un furto”, sosteneva Nando), il terzo vinto. E al Madison, tempio della boxe, è ancora affissa una foto di Spallotta come omaggio a quegli incontri senza sconti. Descrivendo l’incontro con Bill Tate nel libro “Between the Ropes at Madison Square Garden”, Mark Allen Baker usa l’espressione “tooth and nail”, denti e unghie: si scannarono. Il verdetto fu, in quella circostanza, una sconfitta per Spallotta ma per “split decision”, con i giudici divisi, due per il chicagoano e uno per lui. E per 50 dollari a seduta, faceva anche lo sparring partner a Sugar Ray Robinson.

  

Tornato in Italia, Nando tramontò: “L’aria di casa non gli faceva bene – dice Umberto -. Amici, donne, serate. E allenamenti pochi o niente”. Ancora Onori: “Ero un ragazzinetto quando lo vidi sul ring. Ma il meglio lo aveva già dato. Oggi uno come lui non potrebbe campare: troppo buono di cuore e di animo”.

PUBBLICITÁ

  

PUBBLICITÁ

A mandare al tappeto Spallotta non fu la boxe, ma le carte. “Poker, baccarà, black jack, qualsiasi gioco – ammette Umberto -. Era il suo vizio, il suo limite, era anche la sua vita. Cercava gli stessi brividi, le stesse emozioni, le stesse avventure del ring. Ma perdeva. E mandò in crisi la famiglia”. Così da dover vendere anche il Pioniere, stabilimento balneare e ristorante, che suo padre aveva aperto a Lavinio Lidio grazie anche ai soldi salvati dal poker che Nando spediva dall’estero.

   

PUBBLICITÁ

Morì di polmonite nel 2004, l’eroe dei due mondi, a quasi 73 anni. Non erano rimasti neanche i guantoni, solo un accappatoio con il suo cognome stampato sulle spalle, finché – consumato – fu buttato via. Come giura chi lo conosceva bene, Nando non aveva mai avuto paura. Di niente e di nessuno.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ