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il foglio sportivo

Il calcio pacato e romantico di Bigon

Giorgio Burreddu

Il rapporto con Mihajlovic, la fatica di essere “figlio di” e il sogno delle coppe con il Bologna

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Da piccolo andava al negozio di nonno Olindo, che vendeva lo zucchero sfuso e anche il caffè, dappertutto c’era odore di pane fresco e nei giorni di gloria Riccardo Bigon finiva dietro al bancone o magari nel retrobottega, che per i bambini è sempre un posto pieno di cose da inventare e da scoprire. “A mio nonno ho rubato la semplicità. Nella mia vita ho incontrato tante persone, tanti personaggi, a tutti ho cercato di rubare il lato positivo, ma io fondamentalmente faccio ancora fatica a non vedermi come un casoin, a non ragionare come avrebbe fatto mio nonno al negozio di alimentari”. E poi a casa c’era papà Alberto, il calciatore, “non un dottore o un avvocato”, ma l’emblema di un calcio romantico, che forse non esiste neanche più, l’uomo che faceva i gol nel Milan o vinceva i trofei con il Napoli quando allenava Maradona. “Sono cresciuto con la mentalità del classico lavoratore veneto: lavora e fai, tira su le maniche e fai. A me e mia mamma Valeria non ci è mai mancato nulla, ma non abbiamo mai avuto la Ferrari, papà girava con una Regata, al massimo col Golf. La mia prima auto fu una Fiat Uno, me la comprò papà. Il valore dei soldi l’ho sempre avuto e l’ho tenuto stretto, il telefono lo cambio quando si rompe, non sono mai entrato nel consumismo. E il giro di soldi che vedo nel nostro mondo, nel mondo del calcio, di cui in parte usufruisco anch’io, mi tocca dentro”.

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Da piccolo andava al negozio di nonno Olindo, che vendeva lo zucchero sfuso e anche il caffè, dappertutto c’era odore di pane fresco e nei giorni di gloria Riccardo Bigon finiva dietro al bancone o magari nel retrobottega, che per i bambini è sempre un posto pieno di cose da inventare e da scoprire. “A mio nonno ho rubato la semplicità. Nella mia vita ho incontrato tante persone, tanti personaggi, a tutti ho cercato di rubare il lato positivo, ma io fondamentalmente faccio ancora fatica a non vedermi come un casoin, a non ragionare come avrebbe fatto mio nonno al negozio di alimentari”. E poi a casa c’era papà Alberto, il calciatore, “non un dottore o un avvocato”, ma l’emblema di un calcio romantico, che forse non esiste neanche più, l’uomo che faceva i gol nel Milan o vinceva i trofei con il Napoli quando allenava Maradona. “Sono cresciuto con la mentalità del classico lavoratore veneto: lavora e fai, tira su le maniche e fai. A me e mia mamma Valeria non ci è mai mancato nulla, ma non abbiamo mai avuto la Ferrari, papà girava con una Regata, al massimo col Golf. La mia prima auto fu una Fiat Uno, me la comprò papà. Il valore dei soldi l’ho sempre avuto e l’ho tenuto stretto, il telefono lo cambio quando si rompe, non sono mai entrato nel consumismo. E il giro di soldi che vedo nel nostro mondo, nel mondo del calcio, di cui in parte usufruisco anch’io, mi tocca dentro”.

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Tra i direttori sportivi della Serie A è uno dei più giovani, se parlate con lui qualche volta gli sentirete dire di sé che è meccanizzato, robotizzato, programmato, che in testa ha le procedure e che una cosa la controlla e la controlla una volta ancora. Non è completamente vero. Riccardo Bigon, da quattro stagioni a Bologna, alla sedicesima di fila in A, è molto più di questo: è un uomo romantico. Era a Montreal il giorno che a Sinisa Mihajlovic dissero che aveva la leucemia. “Stavo in albergo, mi stavo preparando per andare a cena col presidente. Mi telefonò Marco Di Vaio. ‘Riccardo, siediti’, disse. Nei giorni precedenti i dottori ci avevano detto che poteva essere qualcosa di grave, qualcosa di brutto. Ma quello fu un colpo devastante. Il cervello mi andò in tilt, per dieci, quindici secondi non pensai a niente, la testa vuota, io immobile sul letto. Uno choc. E adesso cosa facciamo? Ma che cazzo te ne frega di cosa facciamo noi: che cosa fa lui? Ho pensato alla sua famiglia, alla mia. Non c’era nessuna procedura per una cosa come quella, nessun programma a cui attingere. Sono esperienze che ti segnano”. In quelle ore convulse Bigon prese l’aereo, tornò a Bologna, salì a Castelrotto, dove c’erano i suoi giocatori in ritiro. Avevano bisogno di un equilibrio, o forse di una direzione. “Le squadre di calcio sono come le macchine, ci sono il cambio, il volante, i freni: ogni pezzo è fondamentale. Ma è l’allenatore il motore di tutto. Sono uno abituato a dire la mia solo se interpellato, non entro nello spogliatoio, resto al confine, lo varco quando è necessario. Ma senza Sinisa che cosa potevo fare? Quel ritiro l’ho passato con la squadra, coi ragazzi, la sera passeggiavo con loro, bevevamo una bibita, ho offerto a tutti una spalla”. Sinisa si collegava dall’ospedale via Skype una volta alla settimana, anche quando le cure erano più dure, più violente, e tutte le volte c’era qualcuno che piangeva, qualcuno che si metteva le mani sulla bocca per non urlare. E poi c’era Bigon, che teneva insieme tutto.

 

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Foto LaPresse


 

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“Mihajlovic lo avevo incontrato da avversario, negli anni. Poi a gennaio di un anno fa ci siamo sentiti. La prima volta al telefono, tutto normale. Quando ha deciso di venire a Bologna è nato un bel rapporto”. Ci sono uomini che ti cambiano la prospettiva del mondo. Ma bisogna guardarli attentamente, altrimenti il rischio è perderne le sfumature e quindi il senso, l’idea. “Ho un’immagine del mister che mi è rimasta dentro. La sera della salvezza, a Roma, l’anno scorso. La cena si trasformò in una festa, c’era la musica, i giocatori cantavano e ballavano e lì ho visto Sinisa, un altro Sinisa, l’uomo che magari a volte sembra duro, impassibile, e invece è dolce. La situazione lo consentiva, non eravamo più nel frullatore come dico sempre io. In quel preciso momento di relax l’ho visto sorridere di un sorriso inaspettato, disarmante, il sorriso che gli illumina la faccia ed è contagioso. Gli allenatori hanno sempre qualcosa in più, altrimenti non avrebbero il ruolo che hanno. Sinisa è ironico, in tanti ci cascano: lui dice una cosa forte, ruvida, ma è un tranello, è già lì che sta per ridere con la bocca storta”.

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Quel campionato è culminato con un decimo posto che a Bologna è entrato nella galleria dei record. Dopo è arrivata la sofferenza di Sinisa che è entrata nella vita di tutti, anche in quella di Bigon. A Verona, alla prima di campionato, Mihajlovic si presentò allo stadio. Quattordici chili in meno, un fantasma. “Ero uno dei pochi a saperlo. Quando l’ho visto entrare in hotel ho avuto un altro choc, era dimagrito, diverso: proprio lui così supermuscoloso, superforte. Aveva fatto una promessa alla squadra ed era lì, nessuno ci credeva”. E’ stato il primo passo di un percorso. “La squadra si è unita, il gruppo si è solidificato. Ma non è stato facile”. Tutti hanno dato quello che potevano: la dirigenza, lo staff provando a imboccare il pensiero di Sinisa, i giocatori, la città che illuminava le torri ogni volta che il Bologna vinceva. “E’ stata una cosa tenuta insieme da tutti quanti, siamo anche stati bravi. La compattezza è stata una reazione umana, non professionale”. A Bologna Bigon ha trovato una dimensione nuova, unica: le difficoltà ti insegnano sempre qualcosa. “Negli anni il calcio è cambiato. Quindici anni fa arrivavano i pacchi di dvd, li mandavano dall’Argentina, dal Giappone, li scartavi, li guardavi. Ora sei dentro a tutto. Zoom, Skype. Gli agenti spesso sono come i club, a volte più potenti dei club. Prendo cento decisioni al giorno, se ne sbaglio dieci è un bene. Questa doveva essere una stagione di svolta, con un passo nuovo”.

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Solo la pandemia ha interrotto tutto.

 

“Paradossalmente è stato anche un momento molto bello, a casa si è creata un’atmosfera strana. Ho conosciuto meglio i miei figli, sono stato tanto tempo con loro, con Albertino che porta il nome del nonno, e con Ludovica e Allegra”. Poi, qualche settimana fa, quando hanno detto che ci si poteva allenare, il primo ad andare a Casteldebole è stato Bigon. C’era anche Mihajlovic, che correva. “Me lo aveva detto. Ma vederlo è stato emozionante, avrei voluto abbracciarlo. Il campo è la nostra gioia, il nostro modo di respirare. Non voglio dire che sia come rivedere un fratello, cerco sempre di tenere un certo distacco”. Ancora le procedure, i ruoli dentro a cui bisogna stare. “Però questa esperienza della malattia di Sinisa e questa pandemia mi hanno cambiato. Hanno cambiato tutti noi”. Da ragazzo Riccardo faceva il tirocinio in uno studio legale di Padova, “io neanche lo volevo fare questo lavoro. Poi venne Foti, il presidente della Reggina a chiamarmi: ‘Ho un lavoro per te, mi serve un giovane’. Responsabile organizzativo. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire. Dopo due settimane ero in panchina con Mazzarri. A un certo punto il presidente mi disse: ‘Vuoi fare il diesse?’. Lì dovetti fare una scelta”. I programmi, le procedure, i ruoli: la vita è un eterno ritorno. “Quanto potrà andare male, mi dissi. Non sapevo dove andare, ma avevo due obiettivi in testa: non sporcare il nome di mio padre, il nome che ho addosso, sinonimo di signorilità, di pulizia, e poi vedere realizzato un piccolo sogno di tutti i figli di, cioè farlo diventare padre di. Sono sempre stato il figlio di Bigon, a scuola, quando andavo a giocare a pallone. Ah, sei il figlio di Bigon. A Napoli una delle prime partite mi scrissero: ‘Moccioso raccomandato non sei degno di parlare del nostro passato’. Ma la verità è che un padre del genere ti fa vedere chi sei. Una volta, anni dopo, un giornale pubblicò una foto di me e mio padre. La didascalia diceva: ‘Albertino papà di Riccardo’. Bene. Secondo obiettivo raggiunto. A lui ho rubato la capacità di gestire le cose”. Anche un po’ i sogni. “Forse sono un romantico, non lo so. L’anno prossimo avrò cinquant’anni. Vorrei prendere la mia famiglia, fare un giro coi miei figli, stare via dei mesi, goderci la libertà. Ma se dovete fare un titolo, scrivete che sogno le coppe col Bologna”.

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