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il foglio sportivo

Cosa farebbe oggi Ayrton Senna

Umberto Zapelloni

Sessant’anni fa nasceva uno dei più grandi piloti di Formula 1. L’ossessione per la vittoria e l’amore per i poveri

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Ayrton Senna oggi festeggerebbe i suoi sessanta anni disponendo un bonifico per chi sta combattendo il virus maledetto. Pensare agli altri, ai più poveri, ai più sfortunati è sempre stata una sua missione. Come vincere in pista. “I ricchi non possono vivere su un’isola circondata da un oceano di povertà. Noi respiriamo tutti la stessa aria. Bisogna dare a tutti una possibilità”, è la frase che rimbalza dall’homepage della Fondazione Senna, ma è anche un modello cui si era sempre ispirato. Lo faceva di nascosto, versava denaro senza raccontarlo in giro e soltanto un anno prima di andarsene ne parlò con sua sorella Viviane per allestire la Fondazione attraverso cui voleva occuparsi dei bambini brasiliani. Nel 1995, anno di nascita, erano ventimila, oggi sono più di mezzo milione, la Fondazione si occupa della loro istruzione, del loro sostentamento. Senna era nato ricco, coccolato da mamma Neide e papà Milton. Non era un Niños de Rua. Ma era un ragazzo che non viveva con i paraocchi. Sapeva di essere un privilegiato, si godeva il suo stato, non c’è dubbio, ma pensava anche a chi non aveva avuto la sua fortuna.

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Ayrton Senna oggi festeggerebbe i suoi sessanta anni disponendo un bonifico per chi sta combattendo il virus maledetto. Pensare agli altri, ai più poveri, ai più sfortunati è sempre stata una sua missione. Come vincere in pista. “I ricchi non possono vivere su un’isola circondata da un oceano di povertà. Noi respiriamo tutti la stessa aria. Bisogna dare a tutti una possibilità”, è la frase che rimbalza dall’homepage della Fondazione Senna, ma è anche un modello cui si era sempre ispirato. Lo faceva di nascosto, versava denaro senza raccontarlo in giro e soltanto un anno prima di andarsene ne parlò con sua sorella Viviane per allestire la Fondazione attraverso cui voleva occuparsi dei bambini brasiliani. Nel 1995, anno di nascita, erano ventimila, oggi sono più di mezzo milione, la Fondazione si occupa della loro istruzione, del loro sostentamento. Senna era nato ricco, coccolato da mamma Neide e papà Milton. Non era un Niños de Rua. Ma era un ragazzo che non viveva con i paraocchi. Sapeva di essere un privilegiato, si godeva il suo stato, non c’è dubbio, ma pensava anche a chi non aveva avuto la sua fortuna.

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Ayrton vive lì, in quegli occhi tristi e malinconici, come lo erano i suoi quando alzava la visiera del casco con i colori del suo Brasile. Occhi che poi potevano improvvisamente brillare di gioia quando guardavano il mondo da un podio.

  

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Ripensando ad Ayrton, al suo essere così diverso dai piloti che lo circondavano, non puoi non soffermarti sul suo sguardo, su quel velo di malinconia che lo accompagnava, quasi sempre, segnale di quanto fosse complesso l’uomo che c’era dietro. Poteva essere dolce se guardava Xuxa o Adriana, poteva essere d’acciaio se parlava di Prost, poteva riempirsi di scintille se stava stappando una magnum di champagne da un podio. Ma sullo sfondo restavano sempre malinconici. Non tristi, malinconici. Poteva parlare di gare, di amore, di famiglia, di Dio, ma lo faceva sempre con quel fondo di malinconia che non lo ha mai lasciato. Aveva una fede profonda e non lo ha mai nascosto. Nascondeva le donazioni in beneficenza, ma non l’amore per Dio. “Credo sia stato Dio a concedermi l’opportunità di guidare una Formula 1 e adesso mi sta aiutando a restare calmo, tranquillo, rilassato”, disse alla prima intervista. “Ero arrivato così vicino alla perfezione che mi sono rilassato e ho lasciato spazio agli errori. E mi è servito da lezione, ho perso fiducia in me stesso e ho dovuto recuperarla piano piano tirando fuori tutta la grinta. Ma dopo quell’incidente sono diventato molto più forte e deciso. In qualche modo mi sono avvicinato a Dio e per me è stato importante come uomo”, commentò nel 1988 dopo esser finito contro un muro mentre dominava il Gran Premio di Monaco. “Ho cominciato a essere felice solo nell’ultimo giro, ho ringraziato Dio, non riuscivo a crederci. Stavo per vincere il campionato… e ho sentito la sua presenza. Sì ho visto Dio, è stato un momento molto speciale, una sensazione indescrivibile che mi è rimasta impressa nella memoria e fa parte di me”, ripeté dopo aver conquistato il suo primo titolo mondiale. “Solo perché credo in Dio e ho fiducia in Lui non significa che sono immortale e immune dai pericoli. Ho paura di farmi male come chiunque altro”, disse ribattendo a Prost che lo aveva attaccato per la sua fede in Dio. Quel Dio che lo ha portato via ancora giovane, ancora con tante pagine da scrivere nel libro dei record della Formula 1. Quel Dio che come cantò il poeta Dalla aveva in mente un altro disegno per lui: “E ho capito che Dio mi aveva dato / Il potere di far tornare indietro il mondo / Rimbalzando nella curva insieme a me / Mi ha detto: Chiudi gli occhi e riposa”. Sua sorella Viviane ha raccontato: “La mattina di Imola Ayrton si svegliò e chiese a Dio di parlargli. Aprì la Bibbia e c’era scritto che quel giorno Dio gli avrebbe fatto il dono più grande di tutti e cioè Dio stesso”.

 


Ayrton Senna (foto LaPresse)

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C’era una sola cosa che gli occupava la mente più di tutto il resto, dei buoni propositi, delle buone azioni. La voglia di vincere. “Una volta provata la vittoria non puoi più farne a meno. È una sensazione unica, straordinaria, forte, intensa. È come una droga”. Per vincere non guardava in faccia nessuno, poteva andare contro i suoi principi, dimenticarli, seppellirli. Se arrivi a pianificare di buttare un avversario fuori pista e poi a realizzare il tuo disegno per vendicarti di un torto subìto e assicurarti il titolo mondiale è perché hai dentro un’ossessione e perché credi di poterti fare giustizia da solo. Un’arroganza tipica dei grandi campioni. Con la differenza che Ayrton quando metteva in pratica un suo perfido progetto, poi aveva il coraggio di raccontarlo. Magari non subito, ma prima o poi, trovava il modo di togliersi quel peso dal cuore. Con Prost ha davvero combattuto una guerra, ma poi improvvisamente, quando nessuno se lo aspettava, nel weekend di Imola via radio ha detto in mondo visione: “Alain mi manchi”. Ormai Prost non era più un ostacolo tra lui e la vittoria, non c’era più bisogno di odiarlo. Lo conferma una cena tra i due grandi nemici nell’inverno di quell’anno a Parigi. “Parlammo per tutta la sera come se non ci fosse mai stato nulla di brutto tra noi, il passato era semplicemente rimosso, ignorato, non lo evocammo nemmeno per un attimo”, raccontò il Professore che ai sessanta ci è arrivato nel febbraio di cinque anni fa. Oggi Alain ha un figlio che corre in Formula E ed è direttore esecutivo della Renault in Formula 1, un ruolo molto simile a quello che aveva, con ben altri risultati, Niki Lauda in Mercedes. Che cosa farebbe Ayrton se fosse ancora tra noi? A parte avere almeno altri due titoli Mondiali nell’Albo d’oro, potrebbe avere una sua squadra, seguire il figlio che non ha mai avuto, essere il consulente di una delle sue squadre. E non dimentichiamoci che senza quel primo maggio 1994 a Imola, Ayrton si sarebbe vestito di rosso prima o poi.

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