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il foglio sportivo

Kobe Bryant e la religione

Pasquale Annicchino

“Sono cattolico, sono cresciuto cattolico, i miei figli sono cattolici”. Quando l'ex cestista, nel pieno della tempesta più difficile della sua vita, un’accusa di stupro infamante, decise di abbracciare la sua croce

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“Sono cattolico, sono cresciuto cattolico, i miei figli sono cattolici”. Nel pieno della tempesta più difficile della sua vita, un’accusa di stupro infamante, con una moglie sposata da poco e pronta ad andare via, Kobe Bryant aveva deciso di abbracciare la sua croce. Nella California e nella Los Angeles del trans-umanesimo, del Dio che è morto, Kobe “l’italiano” aveva deciso di affidarsi a un prete. “Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare”, aveva deciso di affidarsi a queste parole del prete con cui aveva discusso dei suoi problemi. Può apparire paradossale che uno sportivo come Bryant, che ancor più che nel talento aveva nella testa (Mamba mentality) la sua forza avesse un rapporto così intimo con la religione. Un uomo spigoloso (come tutti quelli che hanno carattere) diretto, a volte brutale. Uno sportivo che non lasciava nulla al caso e che preferiva svegliarsi due ore prima degli altri, perché così avrebbe avuto più tempo per allenarsi mentre gli altri dormivano. Del resto se ti attribuisci il nome di un serpente velenoso, Mamba, non avrai sicuramente come modello il buon samaritano. Kobe Bryant era l’intelligenza artificiale applicata allo sport prima dell’intelligenza artificiale. “È una pura questione di matematica”, disse quando gli chiesero perché ripeteva in maniera sistematica e inesorabile le serie di tiri sempre dallo stesso punto, per poi spostarsi a quello successivo, con lo stesso metodo scientifico studiava nei dettagli i suoi avversari e le loro prestazioni così da poterne anticipare ogni mossa. Nulla era lasciato al caso, nulla. Per alcuni, nella metodicità e nel rigore di Bryant forse era addirittura possibile intravedere una sorta di hybris scientista, una continua sfida alle barriere dell’umano dove i limiti del corpo, da spazio incarnato della nostra impotenza, diventano barriere da abbattere di continuo per migliorare le nostre prestazioni. Accettare che vi fossero dei limiti che non fosse possibile superare non aveva mai fatto parte della mentalità di Bryant. Homo faber per eccellenza, perché avrebbe dovuto rinunciare a esplorare i confini delle sue possibilità e rassegnarsi a uno stato di natura che lo aveva fatto crescere nei campetti da basket della periferia italiana?

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“Sono cattolico, sono cresciuto cattolico, i miei figli sono cattolici”. Nel pieno della tempesta più difficile della sua vita, un’accusa di stupro infamante, con una moglie sposata da poco e pronta ad andare via, Kobe Bryant aveva deciso di abbracciare la sua croce. Nella California e nella Los Angeles del trans-umanesimo, del Dio che è morto, Kobe “l’italiano” aveva deciso di affidarsi a un prete. “Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare”, aveva deciso di affidarsi a queste parole del prete con cui aveva discusso dei suoi problemi. Può apparire paradossale che uno sportivo come Bryant, che ancor più che nel talento aveva nella testa (Mamba mentality) la sua forza avesse un rapporto così intimo con la religione. Un uomo spigoloso (come tutti quelli che hanno carattere) diretto, a volte brutale. Uno sportivo che non lasciava nulla al caso e che preferiva svegliarsi due ore prima degli altri, perché così avrebbe avuto più tempo per allenarsi mentre gli altri dormivano. Del resto se ti attribuisci il nome di un serpente velenoso, Mamba, non avrai sicuramente come modello il buon samaritano. Kobe Bryant era l’intelligenza artificiale applicata allo sport prima dell’intelligenza artificiale. “È una pura questione di matematica”, disse quando gli chiesero perché ripeteva in maniera sistematica e inesorabile le serie di tiri sempre dallo stesso punto, per poi spostarsi a quello successivo, con lo stesso metodo scientifico studiava nei dettagli i suoi avversari e le loro prestazioni così da poterne anticipare ogni mossa. Nulla era lasciato al caso, nulla. Per alcuni, nella metodicità e nel rigore di Bryant forse era addirittura possibile intravedere una sorta di hybris scientista, una continua sfida alle barriere dell’umano dove i limiti del corpo, da spazio incarnato della nostra impotenza, diventano barriere da abbattere di continuo per migliorare le nostre prestazioni. Accettare che vi fossero dei limiti che non fosse possibile superare non aveva mai fatto parte della mentalità di Bryant. Homo faber per eccellenza, perché avrebbe dovuto rinunciare a esplorare i confini delle sue possibilità e rassegnarsi a uno stato di natura che lo aveva fatto crescere nei campetti da basket della periferia italiana?

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Eppure è proprio uno sportivo così illuminista che nel momento più tragico della sua vita aveva pronunciato quelle due parole, “sono cattolico”. Come se in una sorta di revirement postmoderno Bryant si rendesse conto che davanti alla sua sfida più grande tutto il resto non bastasse e che per raddrizzare il “legno storto” fosse necessario tenere insieme quelle due nature e che solo dalla loro perenne tensione fosse possibile resuscitare ancora più forti.

 

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Per un cristiano la morte non dovrebbe arrivare mai all’improvviso. L’evangelista Luca l’ha scritto in maniera esplicita: “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arrivato e bussa” (Lc 12, 35-36). Bisogna essere pronti, sempre. E quella maledetta mattina, come ha confermato Julie Hermes, portavoce della chiesa di Nostra Signora degli Angeli di Newport Beach, Kobe e sua figlia Gianna Maria aveva partecipato alla messa delle sette del mattino. “Le lucerne accese” sono la parola di Dio che dovrebbe illuminare e guidare ogni giorno il cammino del cristiano. Quella mattina, ancora una volta, Kobe Bryant mettendosi, come spesso faceva, in fondo alla chiesa per non farsi notare e disturbare la funzione, rinnovava la sua personale fonte d’illuminazione nel cammino terreno. Che non era soltanto quella del Mamba macchina da guerra infallibile, ma quella di un uomo che dopo aver cercato in ogni istante della sua giornata la perfezione della tecnica si ricordava della grandezza della finitezza dell’uomo. Umano, molto umano.

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