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Perché la morte di Kobe Bryant è stata un grande dramma globale

Moris Gasparri

Estetica, forza, identificazione e comunicazione hanno reso l’ex cestista americano un’icona mondiale (a cui l’Italia deve dire grazie)

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È estremamente difficile aggiungere qualcosa al fiume di ricordi e parole sulla morte di Kobe Bryant, ex cestista statunitense dei Los Angeles Lakers. Una cosa però si può fare, riflettere sugli effetti globali della sua scomparsa, non solo quelli americani. Da questo punto di vista abbiamo probabilmente assistito al più grande lutto mondiale della storia dello sport, ed è importante capire perché. Gennaio per chi ama il basket è divenuto il più crudele dei mesi, avendo legato a sé nella morte due protagonisti i cui percorsi vanno letti assieme, David Stern e Kobe appunto. L’azione manageriale del primo e il percorso sportivo del secondo sono infatti fortemente intrecciati.

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È estremamente difficile aggiungere qualcosa al fiume di ricordi e parole sulla morte di Kobe Bryant, ex cestista statunitense dei Los Angeles Lakers. Una cosa però si può fare, riflettere sugli effetti globali della sua scomparsa, non solo quelli americani. Da questo punto di vista abbiamo probabilmente assistito al più grande lutto mondiale della storia dello sport, ed è importante capire perché. Gennaio per chi ama il basket è divenuto il più crudele dei mesi, avendo legato a sé nella morte due protagonisti i cui percorsi vanno letti assieme, David Stern e Kobe appunto. L’azione manageriale del primo e il percorso sportivo del secondo sono infatti fortemente intrecciati.

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Non poteva darsi una reazione emotiva così grande e così globalmente estesa senza l’espansione della lega di cui Kobe è stato stella indiscussa nella prima decade del nuovo millennio. Per globale intendiamo soprattutto la penetrazione asiatica dell’Nba (in particolare quella cinese), la vera grande opera “missionaria” mai percorsa prima da altri sport, di cui anche il calcio è stato ed è inseguitore.

 

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Illustrazione di Juta Studio


 

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L’Nba ha avuto successo laddove nessun altro sport a stelle e strisce è mai riuscito: diventare un codice culturale globale. Non le leghe del baseball, del football o dell’hockey, tutte a vario titolo depositarie dello spirito isolazionista che contrassegna larga parte della storia e della cultura americana, e tutte ancora oggi impossibilitate a espandersi in maniera significativa al di fuori dei confini nazionali.

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David Stern ci è riuscito lottando contro un limite di mercato apparentemente invalicabile. In una famosa audizione parlamentare l’ex Ceo della Premier League Richard Scudamore ebbe a dire che il potere della lega calcistica oggi più importante del mondo risiede principalmente nel meridiano di Greenwich, ovvero nella possibilità di poter offrire i propri spettacoli in orari accessibili da ogni abitante del pianeta. L’Nba al contrario ha dovuto crearsi una propria strategia differente per aggirare questo ostacolo. È difficile per chi vive in Europa, Asia o Africa seguire in diretta i nostri eventi, pena compromissione della vita lavorativa o di studio? Potranno comunque entrare in contatto emozionale con il nostro mondo attraverso mille altri modi: le canotte, gli highlights, gli approfondimenti, i racconti, i clinic, le partite di pre-season, i tornei giovanili, il tutto ovviamente rafforzato dalle nuove tecniche di comunicazione. Se Stern ha avuto quest’intuizione iniziale, è stata soprattutto una donna la protagonista occulta di questa evangelizzazione cestistica, Heidi Ueberroth, figlia di Peter, magnate dell’industria aerea che ha ricoperto incarichi significativi nel mondo dello sport, su tutti l’organizzazione dei Giochi Olimpici di Los Angeles 1984. Entrata nel management Nba nel 1994 a 28 anni, divenendo da subito responsabile dell’ufficio internazionale, è a lei che si deve la trasformazione di un piccolo ufficio marginale in una vera macchina da guerra, viaggio dopo viaggio, fuso orario dopo fuso orario, contratto dopo contratto, evento dopo evento, crescita dei ricavi dopo crescita dei ricavi, creando un denso sistema di partnership mediatiche e commerciali che copre oggi ogni angolo del mondo, 215 paesi per la precisione.

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Ma come puoi espanderti senza grandi protagonisti? Che contratti puoi firmare senza grandi stelle dalla tua? Attraverso cosa suscitare meraviglia e fascino nelle genti del mondo per spingerle ad avvicinarsi a una realtà così fortemente americana? Qui entra in gioco Kobe. Grazie al suo dominio agonistico nella prima decade del nuovo millennio, è stato lui la vera icona globale di questo processo, soprattutto in Asia, il nuovo centro del mondo in senso economico e demografico. Non è un caso che il suo primo viaggio in Cina risalga all’estate del 1998, il secondo a quella del 2001. Non è un caso, ancora, che dal 2006 il soggiorno estivo cinese sia diventato una tappa annuale fissa della sua agenda, anche per interessi commerciali personali. Una fondazione, un reality, svariate partite di pre-season con i Lakers, numerosi clinic con giovanissimi cestisti, messaggi di auguri per il Capodanno cinese: tanti i segni della sua presenza. Più di tutti però poté la sua apparizione vincente ai Giochi Olimpici di Pechino nel 2008. Se quelli di Barcellona e del Dream Team avevano per la prima volta aperto il mercato europeo, quelli in Cina rappresentano la piena affermazione asiatica dell’Nba (preparata ovviamente anche dallo sbarco negli States di Yao Ming). Quando viene aperta la sede cinese, ovviamente sotto la diretta gestione di Heidi Ueberroth? Sempre nel 2008, dopo la prima medaglia d’oro olimpica conquistata da Kobe, e dopo il boato enorme del pubblico che accompagnò il suo volto inquadrato sui maxischermi del Bird’s Nest nella cerimonia inaugurale. Talmente grande la passione dei cinesi per il Mamba che il 13 aprile 2016, il giorno della sua ultima partita, diverse aziende daranno il permesso ai propri dipendenti per assentarsi dal lavoro, in modo da poter tributare in pace l’ultimo saluto al proprio campione preferito. Il legame tra Kobe e le genti asiatiche ha anche un timbro destinale. Nel diluvio di messaggi di cordoglio piovuti da tutto il mondo spicca infatti, spostandoci in Giappone, il messaggio di ringraziamento dell’associazione dei produttori del manzo omonimo, per il ruolo a lungo ricoperto di ambasciatore planetario (e involontario) della famosa bistecca.

 

Ma perché questa attrazione mondiale così forte verso il ragazzo nato a Philadelphia? Per quattro motivi principali, oltre a quello ovvio della pietà umana generata da una tragedia così dolorosa.

 

Il primo è di natura estetica, la seduzione del pubblico per i suoi gesti tecnici sul parquet, una verità intuitiva per chi abbia visto almeno un frammento video di una sua azione. Il secondo è di natura agonistica: siamo incantati da chi riesce nella contesa sportiva più e meglio di altri, da chi esprime questa fame di affermazione, da chi ha nel cuore “l’ansia di vincere”, come scriveva Omero nel canto XXIII dell’Iliade, quello dei Giochi in onore di Patroclo, a ben vedere il primo legame tra elaborazione del lutto e sport. La terza è legata al suo carattere esemplare, di ammaestramento universale, caratteristica che era già dei grandi atleti della grecità. La focusness di Kobe, la costruzione meticolosa delle sue vittorie, il tanto sudore versato, il non arrendersi mai, in poche parole la Mamba-mentality, non sono forse potenti fattori di identificazione? Non cerchiamo nelle grandi personalità sportive dei riferimenti “extramondo” per affrontare meglio le nostre debolezze, i nostri limiti, rispecchiandoci nel loro successo e nella loro perfezione? Ogni grande personalità sportiva si offre alla compartecipazione emotiva. En passant, la prima ricordata passione del popolo cinese si spiega anche con questi motivi: nello sforzo competitivo di Kobe hanno visto un simbolo del loro sforzo per emergere dalla povertà materiale e affermarsi come potenza mondiale.

 

L’ultima è invece di carattere più generale. Le tecnologie della comunicazione e dei trasporti non hanno creato una vera unità del mondo. È praticamente impossibile edificare un vero universalismo e avere relazioni di prossimità su larga scala in un mondo popolato da 8 miliardi di persone, dove le faglie di divisione su valori, pratiche, forme politiche, riferimenti culturali, decisioni economiche, standard commerciali sono ancora solidissime e inaggirabili. Il “mondo piatto” evocato trionfalmente a inizio millennio da qualche incauto analista americano si è rivelato una colossale falsità sul piano fattuale. Un mondo maggiormente interconnesso non significa necessariamente un mondo più unito, bensì soltanto più complesso. Le grandi icone spettacolari dello sport contemporaneo riescono invece proprio in questa trasmutazione della realtà: sanno unificare in un senso concretissimo, penetrano mediaticamente ovunque senza subire crisi di rigetto, anche perché nella nostra epoca in diversi casi (pensiamo anche al tennis) non sono legate al confronto fra nazioni come nelle grandi competizioni sportive novecentesche. La figura di Kobe ha quindi rappresentato un grande riduttore di complessità. È come se, con il declino delle grandi ideologie universaliste, l’unico modo per sentirci fratelli del mondo passi oggi attraverso l’identificazione con i grandi campioni dello sport.

 

Veniamo infine all’Italia. La reazione alla morte di Kobe ci dice che siamo provinciali, in un senso buono e in uno deteriore del termine. Partiamo da quello negativo, messo a nudo dalla franchezza di Marco Belinelli sui social, in feroce polemica contro le prime pagine dei nostri tre quotidiani sportivi, disallineati nell’omaggio rispetto alla grande stampa sportiva internazionale. Essere provinciali non è solo una disposizione d’animo, è una precisa realtà fattuale. Significa essere sempre più scollegati dalle reti globali che contano. Il peso globale del nostro paese si è ridotto, su un piano generale ma anche su quello sportivo, in questo caso specifico del basket, sport di cui siamo stati per decenni una nazione centrale. Le copertine di Marca e As vanno lette anche alla luce di una presenza spagnola in Nba fortissima, di una Nazionale vincente. La copertina dell’Equipe va letta anche alla luce della partita di regular season Nba tra Milwaukee e Charlotte ospitata qualche giorno fa a Parigi, opzione che in Italia sarebbe tristemente impraticabile per mancanza di un impianto adeguato. Quando si diventa periferici il mondo si riduce al nostro cortile, e le questioni che fuoriescono dall’orizzonte abitudinario delle proprie cose di bottega contano molto meno.
Ma, per fortuna, esiste anche un provincialismo buono. Kobe non solo era italiano di fatto, avendo trascorso qui un momento della vita che lascia tracce indelebili, ben ricordato dalle parole del presidente Sergio Mattarella. Era anche un italiano di provincia, di contado, di chi ha respirato aria di campetti nati sul sagrato di parrocchie e di palestrine sfigate delle nostre scuole medie e superiori, di bar e piazzette delle nostre città, da nord a sud. Kobe era anche e soprattutto il legame con la nostra lingua, sempre fieramente manifestato e anche riccamente coltivato, perché la sua era una proprietà lessicale dell’italiano rotonda, ricca. La lingua non è mai semplice strumento, è il nostro modo principale di stare nel mondo. Ecco, quanti parlano italiano oggi nel mondo? Soprattutto, quante grandi personalità delle élite globali? Da questo punto di vista Kobe è stato un Istituto italiano di cultura vivente aggiunto agli 85 in funzione, la goethiana “terra dove il sì suona” portata – con nostro grande orgoglio di provinciali – nel cuore mediatico dell’impero, vuoi durante una gara delle Finals Nba (il simpatico siparietto con Vujacic), vuoi durante la premiazione agli Oscar (e cosa di più italiano di una dichiarazione d’amore), vuoi nel nome dato alle figlie. Anche per questo gli saremo eternamente grati.

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