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Quando Kobe s’accorse che il basket sopravvive anche alle sue leggende

Giorgia Mecca

La missione: tramandare il bryantismo al sangue del suo sangue

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In campo pensava soltanto a se stesso. Era egoista e arrogante. Era come devono essere i campioni. La maglia gialla dei Los Angeles Lakers che indossava era un pretesto, la verità è che giocava a basket per la sua gloria e per quella di nessun altro. I compagni di squadra? Non li guardava nemmeno. Gli avversari? Ogni volta che ne guardava uno negli occhi voleva trasmettere la sensazione che avrebbe potuto strappargli via il cuore. Si fidava soltanto del proprio talento, sapeva che sarebbero state le sua braccia e le sue gambe a portarlo lontano. Lo sport, anche quello di squadra, è sempre una questione privata.

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In campo pensava soltanto a se stesso. Era egoista e arrogante. Era come devono essere i campioni. La maglia gialla dei Los Angeles Lakers che indossava era un pretesto, la verità è che giocava a basket per la sua gloria e per quella di nessun altro. I compagni di squadra? Non li guardava nemmeno. Gli avversari? Ogni volta che ne guardava uno negli occhi voleva trasmettere la sensazione che avrebbe potuto strappargli via il cuore. Si fidava soltanto del proprio talento, sapeva che sarebbero state le sua braccia e le sue gambe a portarlo lontano. Lo sport, anche quello di squadra, è sempre una questione privata.

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Kobe Bryant non ha fatto altro che respirare pallacanestro fin da quando era bambino; suo papà Joe, ex giocatore della Nba e del campionato italiano, cerca di assecondare la passione del figlio sfidandolo ogni volta che può, tra un allenamento e l’altro. Ma a Kobe non basta mai. Trascorre pomeriggi infiniti a giocare contro se stesso, inventa una nuova disciplina, la chiama basket ombra. Dopo la pratica, la teoria. Di sera guarda i video dei suoi idoli, oltre a papà Joe, Magic Johnson. Impara a memoria movimenti e acrobazie, vuole rubare la tecnica dei maestri, diventare più forte di loro, il migliore di sempre.

 

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Kobe Bryant e la figlia Gianna (foto LaPresse)


 

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Nel 1996, a diciotto anni, diventa professionista. Nel suo discorso di presentazione dice: “Proverò ad arrivare sulla luna o tra le stelle. E se invece cadrò da un precipizio, così sia”. Da allora e per vent’anni, tutti con la stessa maglia, 1346 partite giocate, più di 33 mila punti segnati, cinque campionati Nba, due ori olimpici con gli Stati Uniti, due premi come Most Valuable Player delle finali e un premio Oscar, nel 2018. E poi talento e arroganza da vendere, ostinazione e manie di grandezza, solitudine e l’ossessione di diventare una leggenda.

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L’ultimo record lo stabilisce il giorno in cui cala il sipario sulla sua vita da giocatore: il 13 aprile 2016, nella sua ultima partita segna 60 punti contro gli Utah Jazz. Dopo trent’anni di tiri al canestro, rincorse, stress agonistico, infortuni, fratture, riabilitazioni, ginocchia massacrate, il corpo presenta sempre il conto. Era ora di dire addio. “Non posso credere che vent’anni siano passati così velocemente”, dice prima di uscire dal campo per l’ultima volta. “Mamba out”. Mamba fuori, fuori per sempre.

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Queste sono state le sue ultime parole prima di diventare un ex giocatore. Pensava di avere tutta la vita davanti. Dopo il ritiro, la nostalgia, i ci mancherai e i mi mancherete, l’immenso cordoglio, le lacrime e la commozione, Kobe Bryant si accorge di un terribile dato di fatto: il basket sarebbe continuato anche senza di lui. Lo sport sopravvive a tutto, anche alle sue leggende. Come tutti gli altri, Bryant si sente un campione di passaggio, la sua carriera ventennale troppo breve per farsela bastare. Vuole continuare a essere Kobe oltre il parquet, ha capito che nella vita esistono anche gli altri, con loro vuole condividere il suo talento, l’esperienza e il sudore che lo hanno reso un campione.

 

 

Per questo fonda la Mamba Sport Academy, un complesso di novemila metri quadrati a Thousand Oaks, California in cui tutti, bambine e bambini, adolescenti, adulti possono imparare a giocare a basket, football, pallavolo. Senza manifesti, dichiarazioni di intenti, hashtag, strategie di comunicazione e inutili slogan, ha sempre sostenuto in concreto la parità di genere, la Mamba mentality, la fiducia in se stessi. Prima che al resto del mondo, voleva tramandare il bryantismo al sangue del suo sangue. A Gianna, che aveva tredici anni ed era la seconda delle sue quattro figlie. Sono morti insieme domenica, nell’incidente aereo che ha ucciso altre sette persone. La stava accompagnando a giocare una partita di basket. “E’ così competitiva. Vedo in lei un riflesso di me stesso”, diceva e non erano parole di circostanza, si vedeva da come le parlava durante le partite, voleva insegnarle tutto ciò che sapeva. Un giorno un ragazzo gli disse: “Avresti dovuto avere un figlio maschio per portare avanti il tuo cognome, la tua eredità”. Gianna come spesso succedeva era al suo fianco, prima che suo papà potesse dire qualcosa decise di prendere lei la parola. Eccola lì, la Mamba Mentality. “Lo porterò avanti io il cognome di mio papà, te lo assicuro”. Lo ha raccontato lui stesso nell’ottobre 2018 durante la trasmissione “Jimmy Kimmel Live”. Quando il conduttore gli chiede “Tua figlia diventerà una cestista della Wnba?”. Lui risponde con gli occhi pieni di orgoglio: “Ne sono sicuro”.

 

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