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Così il gran rifiuto del "Loco" Bielsa ha dato alla Lazio il talento di Inzaghi

Fulvio Paglialunga

Dopo le giovanili e qualche partita da traghettatore in biancoceleste, Simone doveva allenare la Salernitana. Cronaca del giorno che gli ha cambiato la carriera

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Questo è un giorno esistito veramente. Simone Inzaghi, a Formentera con il fratello Pippo, ha ancora qualche giorno di sole e di vacanza. Fra poco dovrà fare i bagagli e iniziare ad allenare la Salernitana. Gliel’ha detto Lotito: quella squadra è una sua dependance in serie B, un’altra proprietà dove ogni tanto gira chi è della Lazio, ma ancora non è pronto o forse non lo diventerà. Bella la serie A, pensa Simone. Anche adesso che fa l’allenatore, il mestiere più pericoloso del calcio. C’è stato dal 3 aprile a fine campionato: promosso all’improvviso dalla Primavera della Lazio, al posto di Pioli. Sette partite (e dodici punti), qualche sorriso e l’idea sussurrata di essere all’altezza del compito. Ma ora gli hanno detto di andare in serie B. Lotito pensa che forse non è ancora il momento, è troppo giovane, alla Lazio serve altro. Inzaghi ha fatto la sua gavetta, certo; è stato un bravo traghettatore, ma tanto è sempre il presidente a decidere. Abituale padre-padrone della Lazio, Lotito ama anche fare il padre severissimo, quello che deve far vedere ogni cosa da vicino senza la possibilità di toccare. E poi deve dire che è comunque grazie a lui se la si può vedere così da vicino, quindi bene così, Simone, ma zitto e grato. Infatti Lotito rivendica pure il percorso dell’ex attaccante diventato tecnico: “Quando la carriera di Inzaghi era agli ultimi anni, durante la trattativa per il rinnovo del contratto, gli ho chiesto cosa volesse fare dopo. Mi ha risposto ‘l’allenatore’, e gli ho detto ‘ti faccio fare l’allenatore qui’”. Simone Inzaghi è suo figlioccio, dice. Allena per volontà di Lotito.

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Questo è un giorno esistito veramente. Simone Inzaghi, a Formentera con il fratello Pippo, ha ancora qualche giorno di sole e di vacanza. Fra poco dovrà fare i bagagli e iniziare ad allenare la Salernitana. Gliel’ha detto Lotito: quella squadra è una sua dependance in serie B, un’altra proprietà dove ogni tanto gira chi è della Lazio, ma ancora non è pronto o forse non lo diventerà. Bella la serie A, pensa Simone. Anche adesso che fa l’allenatore, il mestiere più pericoloso del calcio. C’è stato dal 3 aprile a fine campionato: promosso all’improvviso dalla Primavera della Lazio, al posto di Pioli. Sette partite (e dodici punti), qualche sorriso e l’idea sussurrata di essere all’altezza del compito. Ma ora gli hanno detto di andare in serie B. Lotito pensa che forse non è ancora il momento, è troppo giovane, alla Lazio serve altro. Inzaghi ha fatto la sua gavetta, certo; è stato un bravo traghettatore, ma tanto è sempre il presidente a decidere. Abituale padre-padrone della Lazio, Lotito ama anche fare il padre severissimo, quello che deve far vedere ogni cosa da vicino senza la possibilità di toccare. E poi deve dire che è comunque grazie a lui se la si può vedere così da vicino, quindi bene così, Simone, ma zitto e grato. Infatti Lotito rivendica pure il percorso dell’ex attaccante diventato tecnico: “Quando la carriera di Inzaghi era agli ultimi anni, durante la trattativa per il rinnovo del contratto, gli ho chiesto cosa volesse fare dopo. Mi ha risposto ‘l’allenatore’, e gli ho detto ‘ti faccio fare l’allenatore qui’”. Simone Inzaghi è suo figlioccio, dice. Allena per volontà di Lotito.

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Certo, non fa in fretta come Pippo, gemello non dichiarato, che un dì ha smesso di giocare e si è trovato a fare un rapido passaggio dalle giovanili per poi sedersi sulla panchina del Milan. Simone ha invece dovuto cominciare dagli Allievi Regionali nel 2010, vincere nel primo anno, passare agli Allievi Nazionali nel 2011, aspettare gennaio 2014 che Bollini scegliesse di seguire Reja all’Atalanta per trovarsi sulla panchina della Primavera e anche lì ottenere risultati (vincere la Coppa Italia, che la Lazio non vinceva da 35 anni, e poi due Supercoppe, e un’altra Coppa Italia e anche uno scudetto sfiorato, perso solo ai rigori contro il Torino). Fino a prendere il posto di Pioli, in A, per un tempo ridotto in una situazione di emergenza. A Lotito i traghettatori piacciono: costano poco, se va bene sono una sua invenzione, se va male erano comunque una soluzione temporanea per arrivare ad altro.

 

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Simone Inzaghi è stato abile e pronto, ha risposto subito prendendo una squadra ridotta a brandelli da un derby perso 4-1, che a Roma è una delle cose peggiori che possano capitare, e tenendola in piedi fino alla fine. Ma Lotito per questo campionato ha altri piani, e non con Simone: i tifosi della Lazio gli hanno chiesto di sognare e quindi lui ha deciso di vendere un sogno. Si chiama Marcelo Bielsa, lo chiamano El Loco perché ha fatto della bizzarria una qualità, ha la capacità di pensare in modo spiazzante che a volte va bene e a volte è da pazzi. Pronto a imprese memorabili e a terrificanti cadute. Senza un equilibrio. Loco, appunto. 

 


È l’8 luglio del 2016 e squilla il suo cellulare, a Formentera. “Devi tornare qui”. Non fa il santone ma vince 


 

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“Simone, andrai ad allenare la Salernitana”, e lui è comunque sereno al telefono, perché sente di poter salire anche questo gradino. A lui, in fondo, non si può che riconoscere una buone dose di fiducia in sé, che l’ha reso giocatore all’altezza della serie A anche quando era condannato a essere il fratello di Pippo. L’altro Inzaghi, più da prima pagina, era quello dei gol scalcagnati, ma tanti, della ferocia e dell’opportunismo, del modo di attaccare caotico e produttivo. Di Simone non esiste un’immagine così nitida come quella del fratello, eppure lui è stato lì, allo stesso piano; Pippo sosteneva addirittura fosse il più forte dei due fratelli. Quindi quello che chiamavano Inzaghino non ha paura di giocarsela ancora dal basso.

 

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È l’estate del 2016, Lotito ha chiamato, la Salernitana aspetta, Bielsa è un colpo così mediatico che nessuno quasi si ricorda più chi era in panchina prima di lui. El Loco alla Lazio fa rumore, crea attesa. Simone, che è laziale davvero, non può che farsi piacere l’idea di tanta attenzione sulla sua squadra. C’è Bielsa e ci sono le sue richieste folli, in onore del soprannome. Dice Lotito che l’allenatore chiede quasi tre milioni di euro all’anno, ma pagamento in dollari, con le variazioni sul cambio a carico del presidente, e poi un certo numero di biglietti per l’Argentina in prima classe per lui e per il suo staff, cinque telefonini, vuole vivere in un albergo a cinque stelle, e vuole le sagome per simulare la barriera, ma quelle tedesche (“perché, quelle italiane che c’hanno? So’ uguali, so’ pezzi di plastica”, prova a convincerlo il patron) che costano di più. Chiede tanto, ma poi a cena diventa subito simpatico alla moglie del presidente, dall’Argentina chiama spesso il figlio del capo per sapere “Claudio come sta”. Vuole farsi adorare e nello stesso tempo sembra instabile, e infatti ha già fatto slittare un paio di volte il suo arrivo a Roma nonostante un contratto che dicono firmato e depositato. Ma è l’allenatore giusto, insiste Lotito. Ed è quello che Inzaghi sente ripetere mentre prende ancora un po’ di sole alle Baleari.

 

Però in questa storia qualcosa a Simone non torna: certo, ha la Salernitana da raggiungere, ma anche altre squadre che lo chiamano e che lui ringrazia e respinge. Dice Pippo che a Simone non è chiaro se Bielsa alla fine accetterà davvero oppure no, e lui vuole aspettare ancora un po’ la Lazio, pensa che non tutto sia finito. Forse conosce troppo bene i protagonisti di questa storia, sa che di loco non c’è solo Bielsa, ma pure Lotito, che le richieste prima o poi si areneranno di fronte a un presidente che non ama farsi scavalcare da nessuno, nemmeno nei desideri. Prima viene lui, poi gli altri. Anche quando ha a che fare con Bielsa, che, infatti, all’improvviso annuncia che non allenerà più alla Lazio, che dei giocatori richiesti non è arrivato nessuno, che bisognava rivoltare la squadra e invece niente. Bielsa dice che se ne va, Lotito dice che lo caccia lui, comunque è un giorno folle quello in cui una società e un tecnico si separano prima ancora di cominciare, si scambiano minacce legali, si mandano a quel paese, ognuno al suo. 

 


 Quest’estate era nella lista della Juve per sostituire Allegri e del Milan che si illudeva di ripartire alla grande


 

È l’8 luglio del 2016 e squilla il cellulare di Simone Inzaghi, a Formentera. “Bielsa non viene più. Devi tornare qui, alla Lazio”. E va bene l’amore, però Simone mette le cose in chiaro: nel comunicato della Lazio c’è scritto che la società gli “affida la conduzione della squadra nel ritiro preparatorio” e sì, ok, l’attaccamento, la Lazio è casa sua, ma questa è una professione e ci sono dei giocatori già in ritiro senza allenatore e con tanta confusione che no, Simone Inzaghi stavolta non fa proprio niente con un incarico a tempo. Allena o resta promesso sposo della Salernitana. Lo rassicurano: si siederà in panchina, ed è un giorno bello, ma anche teso. Simone Inzaghi diventa allenatore della Lazio e lo diventa per davvero, sfidando anche i sorrisi cattivi di chi lo guarda come una ruota di scorta, l’unico disposto a scottarsi in un giorno così infuocato. “Uomo piccolo”, scrivono in un comunicato gli ultrà, perché ha risposto a Lotito proprio mentre il non amato (eufemismo) presidente è in una posizione di debolezza estrema. Si mette la tuta, e comincia.

 

Questo giorno è stato vissuto veramente.

 

Adesso Simone Inzaghi è il celebrato allenatore che vale quanto Sven Goran Eriksson, il tecnico dell’ultimo scudetto laziale. È quello che quest’estate era nella lista della Juve per sostituire Allegri e del Milan che si illudeva di ripartire alla grande; invece la Lazio se l’è tenuto stretto, rinnovandogli in fretta il contratto per non farlo andar più via. È quell’allenatore ancora giovane che ora ha vinto nove partite consecutive e tiene la sua squadra attaccata a Juve e Inter, che pure vorrebbero giocare un campionato a parte. È l’unico ad aver battuto (e per due volte) la Juve di Sarri, meritandolo pure. È colui che ha appena vinto la Supercoppa (e quindi prima la Coppa Italia, e prima ancora un’altra Supercoppa) e sta esaltando il valore di una formazione che forse non sarebbe così forte con un altro in panchina. Simone Inzaghi non gioca a fare il profeta di un nuovo calcio; non esiste l’inzaghismo, ma usa un metodo che pare semplice e non lo è: capovolge il paradigma dei santoni e mette sé al servizio della squadra, non il contrario, trovando il modo per farla giocare al meglio. Adesso è acclamato. Ma l’8 luglio del 2016 a tutto questo credeva solo lui.

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