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Tutte le volte che Gascoigne è morto

Enrico Brizzi

Gloria e tracollo di un fuoriclasse del calcio eternamente in cerca di una provvisoria, disperata felicità

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L’avete sentita l’ultima su Paul Gascoigne? Mentre viaggiava in treno insieme ai propri nipoti, l’ex calciatore avrebbe baciato a forza una donna particolarmente corpulenta, rimediando una denuncia per violenza. Al giudice, però, ha spiegato di averlo fatto solo per restituire autostima alla signora, discriminata da una società che vuole tutti magri e scattanti, e nel suo gesto non vi sarebbe stato alcun intento sessuale o di prevaricazione; nella sua stralunata weltanschauung, infatti, i baci non sarebbero altro che una forma di linguaggio non verbale atto a comunicare empatia. Per motivare la tesi, la sua manager ha esibito in aula centinaia di scatti in cui Gazza, all’apice della carriera, omaggia alla sua maniera sconosciuti tifosi e celebrità assortite, incluso lo scatto di un goffo tentativo ai danni d’un imbarazzatissima Lady Diana. È così che la corte, tenuti in conto i conclamati disturbi psicologici dell’imputato, l’ha prosciolto dall’accusa. Raccontata così, la storia del più brillante talento del calcio inglese del secolo scorso sembra quasi una barzelletta. Peccato che Paul Gascoigne, un uomo che ha passato da poco la cinquantina e dimostra vent’anni di più, non faccia più ridere da molto tempo: ha visto troppe volte la morte in faccia, e troppe volte le terapie necessarie a salvarlo dai propri eccessi sono state finanziate dai suoi ex compagni di squadra, uomini che l’hanno visto sperperare una fortuna che qualcuno ha valutato in venticinque milioni di sterline. Ecco perché la storia di questo calciatore che fu un fuoriclasse senza mai essere un campione, quest’uomo per cui sono pronti da anni i coccodrilli nelle redazioni dei giornali inglesi e di mezzo mondo, merita di essere raccontata in maniera diversa, più accurata e pietosa.

 


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Illustrazione di Lorenzo Gritti


 

Un bimbo paffuto della working class

C’era una volta, nel nord dell’Inghilterra, un bambino paffuto dai capelli ricci che aveva paura di morire all’improvviso; di tanto in tanto veniva colto da crisi di panico talmente devastanti che si ritrovava a correre urlando per le strade, terrorizzato come se lo inseguissero i diavoli. Aveva paura del buio, e la notte non riusciva a prendere sonno per il timore di sprofondare nel nulla.
Quel bambino era il secondo di quattro figli di un’operaia e di un muratore, per la precisione un hod carrier, un trasportatore di mattoni, il grado più basso della piramide sociale interna ai cantieri; i sei vivevano in un monolocale all’interno di un cadente edificio di proprietà del council di Gateshead, la città satellite di Newcastle, alla quale è collegata da sette ponti lanciati sulle acque scure del fiume Tyne. Il posto che chiamavano “casa” era addirittura privo di bagno; i servizi erano in comune con le altre famiglie che occupavano il piano, e in comune si svolgeva l’intera esistenza dei residenti: troppo ridotti gli spazi e troppo sottili le pareti per nascondere le botte dei mariti alle mogli, gli sproloqui degli ubriachi, le grida degli orgasmi e i pianti dei piccoli. Il giorno prima che quel bambino paffuto venisse al mondo, i Beatles erano sulle prime pagine di tutti i giornali sfoggiando baffoni da hippie e traslucide divise in satin da banda militare postmoderna per annunciare l’uscita dell’album Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band; per omaggiare i due leader del gruppo, al nuovo arrivato era stato messo come nome Paul John, una scelta che più tardi sarebbe apparsa come un primo terribile presagio della sindrome bipolare che l’avrebbe afflitto per tutta la vita. Il nome di Lennon, in ogni caso, cadde da subito in disuso. Per tutti era semplicemente Paul. Paul Gascoigne.

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La sua instabilità si accentuò sul finire delle elementari a causa di un terribile incidente. L’amico Keith gli aveva affidato il fratellino Stephen mentre entrava a fare compere in un negozietto. Invece di sorvegliare il piccolo, però, Paul era entrato a sua volta con l’idea di sgraffignare qualche dolciume, e il bimbo, disubbidendo all’ordine di restare in attesa sul marciapiede, si era avventurato per la strada: un terribile stridore di freni e le urla dei passanti avevano richiamato all’esterno Paul e l’amico, che si erano ritrovati davanti al terribile spettacolo d’un furgone di gelati col paraurti sporco di sangue a pochi passi dal corpo scomposto e senza vita del piccolo Stephen. L’angoscia che derivava dal senso di colpa non avrebbe più abbandonato Paul, e la partenza del padre per la Germania non fece che peggiorare la situazione della famiglia: i soldi che sarebbero dovuti arrivare con regolarità si vedevano di rado, e ora la madre era costretta a fare tre lavori diversi per mantenere i ragazzi, condannati di fatto a crescere per la strada.

 

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Due sole cose facevano sentire meglio l’adolescente Paul: mangiare barrette di cioccolato Mars e giocare a calcio. Entrambe gli riuscivano benissimo. A tredici anni, quando entrò nella giovanili dei Magpies, le “gazze” in maglia bianconera del Newcastle, era il più cicciotello della squadra, ma indubbiamente anche il più dotato: quel ragazzo iperattivo e turbolento, capace di inventare scherzi senza sosta come di violare una dopo l’altra tutte le leggi dello spogliatoio, governava il centrocampo e ispirava le manovre offensive come nessun altro: sapeva carezzare il cuoio con la fatata naturalezza dei geni sudamericani, ne intuiva in anticipo le traiettorie e le parabole; reclamava l’iniziativa con britannicissimi tackle, resisteva di spalle alle cariche avversarie, quindi accelerava il gioco ricamando artistici dribbling. Quando i compagni schierati in attacco non si facevano trovare pronti a ricevere cross, assist a mezza altezza o filtranti visionari, Paul andava a rete da solo.

 

“Un George Best senza cervello”

A uno così si potevano perdonare le stravaganze e i chili di troppo. Parola del suo allenatore dell’epoca, un mito del calcio britannico come Jack Charlton, che si era laureato campione del mondo l’anno prima che uscisse Sgt. Pepper. Quando Paul regalò alla squadra la FA Cup delle squadre primavera con una clamorosa marcatura da trenta iarde, il buon Charlton annunciò senza mezzi termini al proprio vice, attonito al suo fianco: “Serviranno mille anni, per rivedere un gol così”.

 

 

Avevano avuto inizio da poco gli anni Ottanta, il periodo che un altro guru del calcio inglese, Harry Redknapp, avrebbe definito “l’ultima decade in cui nel calcio era possibile fallire”. Gazza, come i compagni del Newcastle ormai chiamavano Paul, ci sarebbe riuscito meglio di chiunque altro. Ma perché un fallimento si possa produrre in grande stile, serve prima un’ascesa clamorosa, ad alta velocità, all’apparenza inarrestabile. Che dire di un calciatore ventenne premiato come miglior giovane della First division, che il proprio presidente definisce “uguale a George Best, però senza cervello”? Come inquadrare un talento purissimo e generoso che da subito si fa carico della famiglia – al padre arriverà a regalare una casa e una Rolls Royce – ma intanto, fra un allenamento e un match, se ne va in giro a ubriacarsi e fare a botte in compagnia dell’inseparabile e debordante amico Jimmy Gardner detto “Cinque pance”? Gazza fa impazzire da subito il pubblico, e scatena un’asta fra i club maggiori per accaparrarselo: lo reclama sir Alex Ferguson per i Diavoli rossi di Manchester, ma l’offerta del Tottenham è la più alta mai fatta per un calciatore inglese, così Gazza e il fido “Cinque pance” prendono la via di Londra. Sono gli anni del post Heysel, e il calcio inglese ambisce a uscire dall’isolazionismo; in una First division ancora popolata quasi esclusivamente da giocatori delle home nations dalle chiome fluenti e i mustacchi incolti, così come nella Nazionale inglese reduce da cocenti insuccessi, c’è bisogno di nuove sensazioni, eroi d’una nuova generazione, yobs con le tempie rasate e la sommità del capo ossigenata: a riempire quel vuoto enorme arriva Paul Gascoigne, talento anticonformista e giovanissimo. Gazza è il sorprendente aggiornamento di Jimmy il Mod, il protagonista di Quadrophenia, l’equivalente calcistico di Shaun Ryder, lo sregolato cantante degli Happy Mondays, e lo specchio ideale delle ambizioni d’ogni tifoso della working class che coltivi un penchant per l’eleganza e l’aggressività, per la nuova musica sintetica e per le pastiglie, anch’esse sintetiche, che permettono ai weekend warriors di restare in pista fino all’alba. Col suo arrivo a Londra, guadagna la massima ribalta mediatica e la maglia bianca della Nazionale; esplode la “Gazzamania”.

 

Il culmine prima della discesa

Ai Mondiali italiani del 1990 diventa un protagonista indimenticabile delle “notti magiche”: mostra sprazzi di classe assoluta, pose da circense e un’ottima intesa col compagno di club, il letale centravanti Gary Lineker, nei tre match del girone iniziale, quindi scorta l’Inghilterra nella vittoria agli ottavi contro il Belgio e in quella successiva contro il sorprendente Camerun, entrambe ottenute ai supplementari in un crescendo di pathos. La semifinale vede i Tre Leoni opposti ai rivali di sempre: contro la Germania, appena riunificata, si va ancora una volta all’extra time. Tutto è ancora in bilico quando Gazza entra duro su Thomas Berthold e rimedia un giallo che comporta l’esclusione dall’eventuale finalissima: scoppia a piangere, e quelle lacrime dettate dalla stizza e dal senso di colpa lo fanno entrare nel cuore di tutti, ribaltando in mondovisione l’immagine da impunito gradasso che fin lì aveva dato di sé. Di lì a poco l’Inghilterra perderà ai rigori, e il pianto di Gazza diventa quello di tutti i tifosi inglesi, che non vedono una finale dai tempi di Jack Charlton e compagnia.

 

Di ritorno dai Mondiali, il nostro non si astiene neppure da un passaggio nelle charts: insieme ai quasi concittadini Lindisfarne, attempata band folk rock di Newcastle, reincide la hit vecchia di vent’anni Fog on the Tyne, che conquista il secondo posto in classifica e gli vale un disco d’oro. Nessuno può saperlo, ma a soli ventitré anni e con uno stuolo di manager e collaboratori ingaggiati di fresco, la sua parabola è ormai all’apice.

 

Nella stagione successiva trascina a suon di gol il Tottenham verso le fasi decisive della FA Cup; un suo capolavoro balistico da 35 iarde e una doppietta di Lineker fanno fuori il detestato Arsenal in semifinale. Fra gli Spurs e il trofeo calcistico più antico del mondo resta solo il Nottingham Forest. Gli ottantamila di Wembley ignorano che Gazza non dorme da parecchie notti e si è imbottito di calmanti per sopportare la tensione, ma si rendono conto immediatamente che il ragazzo è a dir poco su di giri: alla prima occasione degli avversarsi, abbatte il portatore di palla piantandogli i tacchetti nello stomaco, una mossa assassina che sembra sfuggire solo all’arbitro. È appena scoccato il quarto d’ora di gioco quando il Forest passa in vantaggio, e un minuto più tardi gli ottantamila di Wembley inorridiscono: Gazza, il talento più cristallino della nuova generazione, si lancia in un nuovo intervento azzardatissimo, questa volta una scivolata a gamba tesa col piede a martello all’altezza del ginocchio dell’avversario. Questi rotola a terra, miracolosamente illeso; Gazza invece si contorce, nuovamente in lacrime, con i legamenti del ginocchio destro lacerati. I telecronisti dicono, non del tutto a torto, che se l’è cercata; la punizione, però, ha un sapore quasi biblico: quindici mesi, in termini calcistici un’eternità, senza giocare una partita, uno iato che comporta la fine dell’ascesa e l’inizio di una caduta interminabile.

 


Foto LaPresse


 

Stile inglese biancoceleste

Scommette sulla sua piena riabilitazione la Lazio di Cragnotti: Gazza arriva nel 1992, accolto come un’icona vivente, e anche se non è ancora pronto a tornare in campo segna da subito una svolta nel costume. Gli Irriducibili, padroni della Curva Nord, si fanno pionieri di quello “stile inglese” a base di “pezze” e “bandiere a due aste”, abbigliamento casual e movimenti discreti in trasferta per aggirare i dispositivi di sicurezza che ben presto contagia le curve di mezza Italia. Quanto a lui, si guadagna l’amore incondizionato dei propri tifosi grazie a un gol nel derby che permette alla Lazio di agguantare in extremis il pareggio; il ventaglio di smorfie e atteggiamenti paradossali, le scorribande romane con “Cinque pance” e il resto della cricca d’amici lo rendono ancor più popolare, ma il suo bilancio in quello che ancora potevamo chiamare a buon diritto “il campionato più bello del mondo” è tutto sommato modesto. A Roma Gazza segna quattro reti in ventidue match il primo anno, appena due nel torneo successivo, condito da parecchie assenze e terminato anzitempo per un nuovo, terribile incidente, questa volta occorso in allenamento contro il giovane Alessandro Nesta: tibia e perone in frantumi, altri dodici mesi lontano dal campo, e quando rientra il suo triennale è ormai agli sgoccioli. Ha lasciato un ricordo indelebile, ma in ultima analisi, non ha giocato che una quarantina di partite sulle centodue di campionato a disposizione, mancando del tutto le due campagne Uefa disputate in quel periodo dai biancocelesti, allenati da Dino Zoff e trainati dai guizzi del capocannoniere Beppe Signori, che lo ricorda come uno dei compagni più generosi di sempre: “Se notavi che aveva un orologio nuovo e gli facevi i complimenti per l’acquisto, era capace di sfilarselo per fartene dono”. Un altro compagno di spogliatoio con un ottimo senso del gol, peraltro destinato a un finale di carriera in Inghilterra, era Gigi Casiraghi, che di Gazza traccia un ritratto assai realistico: “Un ragazzo simpatico e iperattivo, con una passione inesauribile per gli scherzi: una volta, durante una trasferta in pullman in cui sedeva alle spalle di mister Zoff, profittò di una galleria per spogliarsi nudo in attesa che l’allenatore tornasse a girarsi verso di lui. La verità è che aveva un problema molto serio col bere, un’abitudine che in Gran Bretagna è una vera piaga sociale. Una volta sono andato a cena con la sua famiglia, e lui era quello che beveva meno di tutti”. L’autorevole ex portiere friulano che guidava quella Lazio, d’altro canto, non sapeva volergli male: “Mi faceva diventare matto, ma anche sganasciare dalle risate. Non sapeva nascondere i propri sentimenti perché aveva un temperamento d’artista, e come tutti gli artisti alternava colpi geniali a lunghi momenti in cui si rivelava un completo disastro”.

 

 

Risulta quasi incomprensibile, la parabola umana di Gazza, se non si è mai trascorso un weekend a Newcastle e dintorni. Si comincia presto, al pub di fiducia, buttando giù qualche pinta di bitter o di brown ale locale; l’ebbrezza si trasforma in un’esperienza frastornante nei ristoranti con la techno sparata a palla e i peggiori miscugli di beveraggi – gin Campari, sedicenti prosecchi, whisky e vodka di seconda scelta – pronti ad assediare in sequenza i piatti di portata. Terminata la cena, è d’uso un altro passaggio al pub per rinfrescarsi la gola con un paio di birre, fra capannelli di panciuti marcantoni in Fred Perry e tagli di capelli da coscritti, rigorosamente separati dalle donne in vestitini di lamé, acrobaticamente in equilibrio su tacchi improbabili… almeno sino a quando, di ritorno dai bagni imprudentemente collocati upstairs, non vi rotolano addosso precipitando lungo le scale. Se sarete abbastanza galanti e lesti da sorreggerle prima che rovinino di faccia sul pavimento, le signore vi ringrazieranno fissandovi con uno sguardo vitreo, quasi cercassero d’indovinare in quale vita precedente vi hanno già conosciuto, e trattenendo a fatica un rutto sibileranno una excusatio non petita: “Sorry man… I’m a real geordie”.

 

Geordie, il nomignolo degli inglesi del nord-est, è la parola chiave della nostra storia: gente di frontiera dalla notte dei tempi, cresciuti a ridosso del Vallo di Adriano che separava la Britannia romana dalla selvaggia terra dei Caledoni, più Sassoni che Angli, grandi, grossi e di pelo chiaro, vivi testimoni delle invasioni vichinghe e danesi di mille anni fa, ancor oggi sospesi fra campagne consacrate all’allevamento degli ovini e promesse di rivoluzioni industriali da compiersi sul limaccioso estuario del fiume Tyne, paghe settimanali incassate il venerdì e sussidi di disoccupazione, alienazioni working class e timidezze congenite sovvertite dall’aumento del tasso alcolemico.

 

Gente semplice e dall’accento marcatissimo, ridicolizzata dai raffinati Londinesi con mille storielle dal sapore di barzelletta razzista, che spaziano dalla presunta attrazione fatale che gli uomini del posto proverebbero per le pecore alla grezzaggine ereditaria e irrimediabile delle donne; storielle uguali a quelle che in mezzo mondo gli urbanizzati raccontano sui compatrioti delle aree economicamente sfavorite e ancora vicine alla tradizione rurale, con un accento particolare dato dal pantagruelico, devastante, consumo di spirits. Usciti in qualche modo dal pub, infatti, a un orario in cui i giovanotti d’Italia si stanno ancora ritoccando il ciuffo davanti allo specchio di casa per scendere con passo felpato nelle strade della movida, i real geordies sono già barcollanti, in coda davanti a qualche disco club dove arcigni buttafuori fanno selezione; nonostante lo sforzo che mettono nell’apparire professionali e incorruttibili, lasciano fuori solo chi porta ai piedi un inopportuno paio di sneaker e chi è troppo vicino al confine fra ubriachezza conclamata e coma etilico. Alle tre del mattino, lo spettacolo per le strade è devastante: ragazze seminude svenute con una bottiglia ancora stretta in mano, risse immotivate, altre che falliscono per il collasso in simultanea dei contendenti, e l’aria gelida che spira dall’estuario non basta a cancellare l’odore di piscio e vomito. L’indomani gli eroi della notte risorgono fra le undici e mezzodì, gonfi in volto ma di nuovo silenziosi, a modo loro gentili, stoicamente rassegnati a un mal di capo che ci si porta dietro da secoli: su una mappa pubblicata 150 anni fa in cui le diverse città e contee dell’Inghilterra apparivano colorate in maniera più o meno intensa a seconda dell’incidenza dell’alcolismo, le terre dei geordies erano tinte d’un nero senza speranza.

 

Il disastro, completo e inemendabile, di Paul Gascoigne si concretizza poco alla volta nella seconda metà degli anni Novanta, un decennio che ha iniziato da mattatore e che chiuderà da caso umano. Reduce da Roma, e circondato da un certo scetticismo in patria, nell’estate del 1995 si accasa ai Rangers Glasgow. Con la casacca blu del club protestante all’inizio pare rinato, torna a governare in campo e a segnare con regolarità, vince il campionato e la Coppa di Scozia. Questa volta sembra avere messo la testa a posto, e nella nuova serenità che lo abita compie scelte decisive anche fuori dal campo: si sposa con la fidanzata Sheryl, ne adotta i due figli dando loro il proprio cognome e insieme a lei mette al mondo un nuovo bebè.

 

Ormai ha compiuto ventinove anni, e torna in Nazionale da leader; può persino permettersi di contagiare i compagni con i suoi eccessi, come durante la tournée asiatica in cui i Leoni danno scandalo facendo serata in un locale dove il barman ha allestito una sorta di sedia da dentista, sulla quale i giocatori si accomodano per farsi versare in bocca miscele di superalcolici.

 

Smettere di sperare

Gazza ha mancato gli Europei del 1992 per infortunio, ai Mondiali successivi l’Inghilterra non s’è neppure qualificata, ma il nuovo campionato continentale del ’96 si tiene proprio in patria, e vuole giocarlo da protagonista accanto al nuovo centravanti, un altro geordie purosangue: il bomber di Newcastle Alan Shearer. Sono loro due a firmare i gol che piegano la Scozia nella partita più sentita della fase a gironi. Per festeggiare, mimano il numero della sedia del dentista, con un integratore al posto degli spirits. Nel match succesivo l’Inghilterra straccia l’Olanda per 4-1, e nei quarti elimina ai rigori la Spagna grazie al penalty decisivo del ritrovato Gazza. Il motto della manifestazione, “Football comes home”, per quanto sciovinistico sembra più azzeccato e promettente che mai.

 

Il sogno di Paul Gascoigne finisce come a Italia ’90, in semifinale contro la Germania, di nuovo ai calci di rigore. Questa volta tutti e dieci i tiri dal dischetto, compreso il suo, vanno a segno; si procede a oltranza, il tedesco ex Juventus Andreas Möller segna, Gareth Southgate no, e la delusione del pubblico di Wembley assume le tinte fosche di una tragedia nazionale. Da quella sera, Gazza smette di sperare. Non è e non sarà mai il salvatore della patria. Non arriverà dove poteva arrivare. Il suo nome sarà ricordato nella storia del calcio come quello di un magnifico irregolare, non nel novero dei grandissimi di ogni tempo. Sente che torna a spalancarsi per lui l’abisso dell’autodistruzione, tornano gli incubi, la paura del buio, le apparizioni del cadavere del piccolo Stephen, le ossessioni che lo tormentavano nella casa del council di Gateshead: deve toccare determinati oggetti – un interruttore della luce, una posata, lo scarpino da calcio – per cinque volte, mentre altri vanno allineati secondo angolazioni particolari che ai suoi occhi appaiono salvifiche. Si rifiuta di pronunciare determinate parole che ritiene maledette e ne ripete a macchinetta altre. Quando le crisi si fanno più accentuate, si ritrova a urlare ed emettere gemiti animaleschi. Per allentare la tensione, beve come non aveva mai bevuto, e le serate di Glasgow vedono lui e Jimmy “Cinque pance” nel ruolo di primattori: lo spettacolo più gettonato è quello di Jimmy che si cala le braghe in fondo ai vicoli e fa da bersaglio umano per Paul, che lo prende di mira col fucile ad aria compressa dall’altro capo della strada: per ogni centro sulle chiappe, “Cinque pance” viene indennizzato con cento sterline. All’arrivo nello spogliatoio di un giovane Gattuso, invece, trova adatto imbastire un rituale d’iniziazione che si concretizza nel far trovare all’italiano i calzettoni nuovi di zecca ripieni di escrementi; altre feci, stavolta di gatto, vengono servite all’inconsapevole “Cinque pance” come ripieno d’un tortino.

 

“Non ci stai con la testa”

Un’altra buffonata, suscettibile di conseguenze ben peggiori, è l’esultanza che dedica ai rivali cattolici del Celtic: dopo un gol nell’Old firm, lo storico derby cittadino, mima un suonatore di flauto delle parate orangiste, un gesto che gli vale un tentativo di linciaggio e minacce di morte da parte dell’Ira. “Non so perché l’ho fatto”, dichiara, quando ormai è costretto a girare scortato da una guardia armata. “È stato un gesto folle” ammette. “Un tentativo di suicidio”. La verità è che ha perso il controllo: durante una discussione domestica, strattona violentemente la moglie e le piazza una testata in faccia, rimediando un’inevitabile richiesta di divorzio condita dalla richiesta di cinque milioni di sterline. Non lo denuncia invece Glenn Hoddle, commissario tecnico dell’Inghilterra, che deve fronteggiare la sua ira per averlo escluso dai 22 destinati a giocare il Mondiale francese del ’98: Gazza piomba nel suo ufficio come una furia, e inizia a spaccare tutto ciò che trova, finendo ancora una volta per ferirsi da solo. “Lo vedi perché non posso convocarti”, si limita a commentare Hoddle mentre lo portano via. “Non ci stai con la testa”.

 

Un tramonto lungo e struggente

Ormai è il tramonto, tanto lungo quanto struggente: due anni al Middlesbrough, altri due all’Everton sul principio del nuovo Millennio, conditi da un misero totale di cinque reti e scanditi da eccessi disastrosi come quando sfascia il pullman della squadra o si fa trovare in pieno delirio alcolico rimediando un ricovero. Nei periodi in cui viene forzato a non toccare alcolici, la sua sindrome ossessivo-compulsiva vira su altre bevande: beve una lattina di Red Bull dietro l’altra, arrivando a consumarne sessanta in un solo giorno. Nella nuova Premier League internazionalizzata e dal grande appeal mediatico non è altro che un comprimario, la caricatura di se stesso in versione depressa: fantastica di morire, ma lo fa un giorno alla volta, mentre il conto in banca cala vertiginosamente, così come il numero dei collaboratori e le opportunità lavorative. Se dopo le “notti magiche” di Italia ’90 serviva l’eliminacode per arginare le richieste delle ditte che lo volevano come testimonial, ora nessuno vuole più associare il proprio marchio al suo nome. Il finale di carriera è umiliante, un’impossibile anabasi a caccia degli ultimi spiccioli e degli estremi applausi: una manciata di partite in seconda serie col Burnley, un passaggio nella B cinese in una squadra che gioca al limitare del deserto del Gobi, e l’addio definitivo al calcio inglese con uno scampolo di stagione in quarta serie. Dopo, c’è spazio solo per un’autobiografia da premio, un fallimentare tentativo di rilancio come allenatore e quindici anni di cronache via via più tristi. È da tre lustri, ormai, che Gazza fa notizia unicamente per i ricoveri coatti, gli avvistamenti in stato pietoso. La sua esistenza di uomo maturo è contrappuntata da altri volumi di memorie sempre meno necessari e ficcanti, dai pestaggi subìti in seguito a provocazioni più o meno deliranti e da confessioni tanto candide quanto struggenti: “Non ho deciso io di essere un alcolizzato. È solo che trovo conforto nel bere”. Non possono più consolarlo né i Mars né il calcio, e da ultimo rompe con lui anche il fedelissimo Jimmy “Cinque pance”, che nel 2014 si affretta a piangerlo in anticipo per la gioia dei tabloid: “Ogni mattino guardo le news sperando di non leggere che Gazza è morto. E per sicurezza torno a controllare i titoli nel pomeriggio”. Nel febbraio 2018 Paul Gascoigne e Jimmy Gardner sono riapparsi uno a fianco dell’altro. A rimetterli insieme era un’occasione triste, i funerali del papà di Gazza, ma sembravano entrambi in decente forma fisica, contando quello che hanno passato e tutte le volte che hanno provato a rimettersi in sesto. Nello stesso periodo è mancato anche uno dei nipoti dell’ex calciatore, stroncato a soli ventidue anni da un’overdose dopo anni di lotta contro gli incubi indotti dalla sua sindrome ossessivo-compulsiva, una forma di sofferenza psichica analoga a quella dello zio. Tutto torna a confondersi nella nebbia che avvolge il corso del fiume Tyne, fra tare ereditarie, disagi vissuti in comune e personalissime forme di infelicità; è come se Gazza non si fosse mai perdonato per la morte del piccolo Stephen, o non avesse mai smesso di flirtare con l’idea angosciosa di scivolare nel buio. Alla luce del giorno, tuttavia, combatte per restare aggrappato alla vita e a un’ipotesi di felicità provvisoria. A volte gli estemporanei baci agli sconosciuti e i gemiti di terrore del delirium tremens arrivano dallo stesso posto: qualunque nome abbia, non è mai troppo lontano da quello in cui si è cresciuti.

 


 

Con questo articolo lo scrittore Enrico Brizzi inizia la sua collaborazione con il Foglio Sportivo

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