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Senza il Mes. Ritardi e pasticci nella spesa sanitaria

Lorenzo Borga

Per operatori, team medici e attrezzature non sono stati spesi tutti i soldi a disposizione in vista della seconda ondata

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Il Mes ci salverà. O meglio, ci avrebbe probabilmente salvato dalla seconda ondata. Questa è la tesi di chi ritiene che l’Italia avrebbe dovuto prendere il prestito del Fondo Salva Stati. 36 miliardi da spendere in sanità per assumere medici, infermieri, operatori sanitari, investire in prevenzione.

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Il Mes ci salverà. O meglio, ci avrebbe probabilmente salvato dalla seconda ondata. Questa è la tesi di chi ritiene che l’Italia avrebbe dovuto prendere il prestito del Fondo Salva Stati. 36 miliardi da spendere in sanità per assumere medici, infermieri, operatori sanitari, investire in prevenzione.

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Non sapremo mai come sarebbe andata se il Movimento 5 Stelle avesse ceduto e il governo Conte avesse richiesto l’accesso al prestito del Mes. Di certo sappiamo cosa è successo negli ultimi mesi, e cioè che molti dei miliardi stanziati dall’esecutivo, anche per la sanità, non sono stati ancora spesi, o lo sono stati ma con estremo ritardo. E probabilmente lo stesso, se non peggio, sarebbe accaduto anche aumentando la spesa sanitaria. D’altra parte il Ministero dell’Economia ci ha potuto costruire quasi un decreto intero, quello “Ristori”, su fondi stanziati ma non utilizzati. È successo per i bonus – reddito di emergenza utilizzato per meno di metà, bonus vacanza appena un terzo – e anche sulla sanità. Per la lentezza burocratica che contraddistingue gran parte della pubblica amministrazione centrale e regionale.

 

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Si era detto che tracciare il contagio sarebbe stato fondamentale per evitare un nuovo lockdown totale come quello di marzo e aprile. E allora serviva investire sul contact tracing. Già dal decreto “Cura Italia” di marzo il governo decise di assumere operatori dei servizi di igiene e sanità pubblica che potessero contattare i positivi e ricostruire le ultime giornate per isolare anche le persone che gli erano stati vicini. Ma fino a qualche giorno fa secondo ricostruzioni di stampa ne sono stati assunti solo alcune centinaia. Troppo pochi. Un po’ per il ritardo del governo – la Protezione Civile ha pubblicato il bando per assumerne 1500 solo il 24 ottobre – un po’ perché alcune regioni una volta ricevuta la lista dei candidati non si sono mosse per tempo per formalizzare le assunzioni. E così, nonostante i soldi stanziati e le buone intenzioni, di quasi la metà dei casi registrati nelle ultime settimane secondo l’Istituto Superiore di Sanità non si conosce la dinamica infettiva.

 

Per risolvere il sovraffollamento degli ospedali il governo già nel decreto “Rilancio” aveva destinato dei fondi per le regioni, invitandole a stipulare contratti con strutture alberghiere dove isolare e prendersi cura dei malati meno gravi ma ancora contagiosi. Un’azione fondamentale per evitare il contagio domestico, cioè l’alto livello di infezioni che avvengono tra familiari all’interno delle abitazioni. Ma da una ricognizione di Agi sembra che alcune regioni siano rimaste davvero indietro. Come l’Umbria che al 12 novembre non aveva attivi “Covid hotel”, sebbene la protezione civile regionale stia portando avanti sopralluoghi che porteranno all’apertura di diverse strutture. In Campania invece c’era una sola struttura disponibile. Eppure, anche su questo, i soldi c’erano, e da maggio.

 

E poi le Usca, vale a dire i team di medici e infermieri che raggiungono i pazienti nelle loro case per curarli e fornire assistenza. Un altro metodo determinante per garantire ossigeno agli ospedali in sofferenza. Anche queste istituite a marzo: 1200 unità (cioè 9600 operatori), grazie a 61 milioni di euro. Ma secondo gli esperti de Lavoce.info, in estate alcune regioni – come la Lombardia, il Lazio e la Campania – non raggiungevano nemmeno il 30 per cento di unità create, rispetto all’obiettivo iniziale. Altre invece erano virtuose (Emilia Romagna, Liguria, Umbria, Valle d’Aosta, Basilicata).

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Anche sui trasporti non sono stati spesi tutti i soldi a disposizione. Ad ammetterlo è stato pubblicamente lo stesso presidente Giuseppe Conte: «C'è stato un mancato utilizzo dei fondi messi a disposizione dal governo agli enti locali: soltanto 120 milioni sui 300 erogati dallo Stato». Fondi, stanziati solo a settembre, che sarebbero serviti a fare le gare pubbliche e aumentare le flotte di autobus attingendo alle compagnie private. Come hanno fatto notare alcune regioni, è però anche vero che per spendere la metà di quei 300 milioni è necessario un decreto del Ministero dei trasporti, che a fine ottobre non era ancora arrivato. E non è un caso che a poche ore dalle parole di Conte, la ministra competente Paola De Micheli abbia aggiustato il tiro, specificando che «sono stati usati 120 milioni dei 150 già a disposizione». 150, non 300.

 

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Infine l’ultimo anello della catena di protezione contro la pandemia. Gli ospedali, e quindi le terapie intensive. Anche qui torna utile la lettura del decreto “Rilancio” di maggio. «È resa strutturale sul territorio nazionale la dotazione di almeno 3.500 posti letto di terapia intensiva», vale a dire che in totale se ne dovrebbero aver avuti a disposizione circa 8700 (visto che già 5179 erano esistenti). Per mesi questo risultato non è stato raggiunto. Ancora il 24 ottobre l’Osservatorio sui conti pubblici italiani denunciava che eravamo ben sotto l’obiettivo, a soli 1279 posti letto aggiuntivi. E già gli ospedali erano sommersi. Oggi va fortunatamente meglio, secondo l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali i posti letto totali sono più di 9mila, e le regioni assicurano che altri 948 sono facilmente attivabili. Ma i ritardi sono stati molti, e hanno imposto al governo di adottare misure regioni di chiusura delle attività economiche e sociali per permettere di recuperare il tempo perso. E anche in questo caso, i soldi c’erano fin dal principio.

 

Da tutti questi esempi è chiaro che la seconda ondata poteva essere almeno resa meno pericolosa, con un lavoro rapido e responsabile della politica nazionale e locale, aiutata dalla pubblica amministrazione. Ma probabilmente i 36 miliardi del Mes non avrebbero cambiato la storia. Lo scrivono anche economisti europeisti come Massimo Bordignon e Gilberto Turati: «si dovrebbe prima specificare il progetto di riforma della sanità e quantificarne tempi e costi; dopo si può anche ragionare se convenga finanziarlo solo con risorse interne oppure ricorrendo anche a prestiti dal Mes. Ma di questo articolato progetto di riforma del sistema sanitario italiano non c’è traccia.». D’altra parte anche questo numero, 36 miliardi, va contestualizzato. Gli stessi soldi il governo italiano, se volesse, potrebbe raccoglierli sul mercato per finanziare la sanità. Questa non è infatti la crisi del debito sovrano del 2011: i soldi (a debito) ci sono, i risparmiatori sono disposti a prestarli ai governi, i tassi sono bassi. Il risparmio che garantirebbe il prestito del Mes sarebbe dunque esclusivamente in termini di interessi, nell’ordine di 300-400 milioni all’anno (con l’ipotesi però che il prestito europeo abbia un tasso di interesse variabile, mentre i Btp lo hanno fisso e quindi meno esposto alle incertezze). Alcune centinaia di milioni. Paradossalmente, proprio le somme che la politica locale e i commissari non sono riusciti a spendere in tutta l’estate per garantire la sicurezza sanitaria dei cittadini.

  

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