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Il furto da Gucci a Torino: quando gli antisistema non desiderano altro che i simboli del sistema

Fabiana Giacomotti

Perché il tentativo di saccheggio dell'altra sera ha un valore più antropologico (la rivalsa della periferia sul centro) che economico

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Non vorremmo trasformare un commentario di cronaca in una lezione sul valore antropologico del feticcio ma, per dirla in sintesi, la razzia di cui è stata fatta oggetto l’altra sera la boutique di Gucci di Torino – comunque insieme con molte altre, tutte detentrici di marchi noti a livello mondiale – si avvicina di più alla divinizzazione prossima all’antropofagia di cui diventa oggetto il Kurtz di Cuore di Tenebra che a una eventuale scarsa comprensione del messaggio inclusivo di cui si è fatto portatore in questi ultimi anni il direttore creativo Alessandro Michele, come si è domandato qualcuno (fra l’altro, che cosa anticipano quella Polaroid con Gus Van Sant postata oggi sull’account Instagram di  Gucci e quella serie di acquerelli di Roma del regista di Milk e Elephant?).

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Non vorremmo trasformare un commentario di cronaca in una lezione sul valore antropologico del feticcio ma, per dirla in sintesi, la razzia di cui è stata fatta oggetto l’altra sera la boutique di Gucci di Torino – comunque insieme con molte altre, tutte detentrici di marchi noti a livello mondiale – si avvicina di più alla divinizzazione prossima all’antropofagia di cui diventa oggetto il Kurtz di Cuore di Tenebra che a una eventuale scarsa comprensione del messaggio inclusivo di cui si è fatto portatore in questi ultimi anni il direttore creativo Alessandro Michele, come si è domandato qualcuno (fra l’altro, che cosa anticipano quella Polaroid con Gus Van Sant postata oggi sull’account Instagram di  Gucci e quella serie di acquerelli di Roma del regista di Milk e Elephant?).

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Il messaggio sociale di Gucci, di cui parleremo a breve, è in buona parte ignorato ma di certo lontanissimo dal processo di attribuzione di valore sociale, affettivo e solo in terza battuta economico che questi ladruncoli vivono impossessandosi surrettiziamente dell’oggetto-feticcio (nota per i benpensanti: la merce è stata già restituita, non c’è stata protesta da parte dei danneggiati, le vetrine erano tutte assicurate). Quello che cercano i “vandali” di queste proteste di piazze non è solo l’oggetto per il suo valore intrinseco, peraltro inavvicinabile per la maggior parte di loro. E’ l’acquisizione delle insegne del capo, del potere e delle sue sembianze, dei suoi segni, talvolta fino all’annullamento della sua persona, vedi appunto il caso di Kurtz.

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La nostra società tende a trascurare il valore del segno e il potere del feticcio, avendoli annullati nel concetto via via più banale dello status symbol e distanziando con molta attenzione simboli religiosi e simboli per così dire mondani, commerciali. Eppure, appunto, le modalità entro le quali il feticcio si crea e si rafforza sono molto simili e rispondono a uno slogan che tutti conosciamo. In hoc signo vinces. I caratteri e le modalità del branding sono gli stessi e rispondono al desiderio innato di immortalità o del suo succedaneo terreno, il potere, e sono stati molto ben raccontati da Lacan prima e da Guy Debord poi. Quindi, sia ben chiaro, tutta la narrativa sulla diversity&inclusion di cui dibattono da anni docenti e intellettuali a vario titolo e che riconosce nel direttore creativo di Gucci il proprio portabandiera non è mai arrivata nei quartieri Barriera di Milano e a Baggio se non – forse - attraverso le tutine che Achille Lauro ha sfoggiato all’ultimo Festival di Sanremo e che fra l’altro guardavano al David Bowie di Ziggy Stardust, insomma roba già molto vista e non necessariamente inclusiva.

L’impegno di Gucci per le donne, per le minoranze etniche ed economiche, per il rispetto della diversità sessuale e di genere sono argomenti buoni per i nostri articoli pensosi, per le nostre analisi accademiche. Raramente toccano i quotidiani generalisti, se non come accenno e dietro insulti del caporedattore, figurarsi se percolano fino a ragazzini che non leggono i quotidiani e che forse apprendono delle novità di Gucci, di Prada e degli altri un po’ dai social (dove però l’inglese ubiquo dei post rappresenta una barriera) e un po’ dai cartelloni pubblicitari. Perfino quando si trasformano in proteste per razzismo o sessismo, le battaglie contro o a favore di Gucci e Prada restano circoscritte fra chi ha interesse politico o economico a promuoverle; prova ne è che durante le proteste per Black Lives Matter, la scorsa primavera, Fifth Avenue è stata messa a ferro e fuoco da gente, neri compresi, che dei maglioni blackface di Gucci ritirati dalla casa madre con tante scuse se ne fregava altamente, ma puntava semplicemente borse, scarpe, vestiti. Che cercava di appropriarsi delle stesse insegne, degli stessi segni sfoggiati della gente dei quartieri dove non si reca nemmeno la domenica. E' esattamente quanto è successo a Torino e a Milano: la rabbia contro questo Covid che non solo ti toglie il lavoro, ma ti impedisce perfino di accedere al centro dove, invece, il lavoro continua in buona parte ad esserci. Diversity&inclusion sono faccende che ci raccontiamo noi, nelle nostre stanzette, sperando che in un futuro prossimo diventino patrimonio di tutti. 

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