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Il circolo virtuoso delle mascherine

La conversione di un no mask

Antonio Pascale

Prima le sicurezze di gennaio: solo i fissati si coprono il viso. Poi i messaggi contraddittori degli esperti, quindi la corsa all’acquisto, con il dubbio sul modello da usare. Infine la certezza: bisogna metterla. La mascherina spiegata ai cialtroni. Fenomenologia di un nuovo mondo: il nostro

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Quella che segue è la storia di una conversione, la mia. Che poi le conversioni hanno sempre il timbro dell’agiografia. Così, spesso, si insiste sulla luce che il convertito ritrova dopo il buio, dell’amore dopo l’odio. Nel mio caso non saprei se e come dividere le due dimensioni, ma fatto sta che, come in tutte le conversioni, c’è un punto di partenza: gennaio 2020, allora ero un no mask. Il fatto è che, già a gennaio, di tanto in tanto, fra i naturali assembramenti (in stazione, per strada, al parco), notavo qualcosa di strano: c’era uno con la mascherina.

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Quella che segue è la storia di una conversione, la mia. Che poi le conversioni hanno sempre il timbro dell’agiografia. Così, spesso, si insiste sulla luce che il convertito ritrova dopo il buio, dell’amore dopo l’odio. Nel mio caso non saprei se e come dividere le due dimensioni, ma fatto sta che, come in tutte le conversioni, c’è un punto di partenza: gennaio 2020, allora ero un no mask. Il fatto è che, già a gennaio, di tanto in tanto, fra i naturali assembramenti (in stazione, per strada, al parco), notavo qualcosa di strano: c’era uno con la mascherina.

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Ecco, pensavo: ma guarda ’sto pazzo, ipocondriaco, per due contagi… dove andremo a finire? Torneranno i visi coperti? Sciarpe, scialli, mefisto per tutti? E con il viso coperto si coprirà anche il corpo? O meglio, comunicherà soltanto: attenzione pericolo, non ti avvicinare, non vedi? Ho la mascherina: è tutto un programma. Cosa succederà – mi chiedevo – se l’andazzo dovesse continuare? Sarà tutto un: attenzione agli sconosciuti di vecchia memoria? E il prossimo tuo? Sì, vabbè, il prossimo, anzi fate attenzione alla sua eccessiva prossimità. Così guardavo e pensavo, soprattutto verso sera, quando le scorte di ottimismo si esaurivano: non c’è scampo per l’umanità, stiamo impazzendo tutti.

 

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Questi pensieri si accordavano, naturalmente, a una convinzione ferrea: nel viso c’è tutto, e il corpo riflette il viso. Nel corpo ci sono il cuore e la ragione, emozioni, passioni, sistema uno e sistema due, per dirla alla Daniel Kahneman. Non ci sono dimensioni eteree, sfere galleggianti che contengono valori particolari e che ci illuminano dall’alto, perché norme, regole, sistemi etici, tutto è contenuto nel corpo, altro non c’è. Il vecchio motto di Oscar Wilde, solo chi è veramente superficiale non giudica dalle apparenze, ecco, quel motto si basava sull’osservazione del viso e di riflesso del corpo. Comunica sempre, quando è nudo e quando è vestito. E il corpo accusa sempre il colpo, per eccessivo desiderio, mancanza di desiderio, potere, fallimento, frustrazione. Ebbene, per farla breve, a partire da gennaio 2020 il grande corpo sociale e quello del prossimo hanno cominciato a comunicare la malattia.

 


A partire da gennaio, il grande corpo sociale e quello del prossimo hanno cominciato a comunicare la malattia


 

Che si fa quando arriva la malattia? O l’affronti o fuggi. All’epoca, prima della conversione, la fuggivo. Difatti, osservavo quei pochi con la mascherina e pensavo: che aria di malattia. Si intende, la malattia era la loro, mica la mia, pazzi, ipocondriaci, per due contagi, meglio che fuggo. E fuggivo. Anche se poi, guardando bene, all’inizio, quelli mascherati erano coreani o giapponesi. Dunque, mi consolavo: ah, e vabbè. Sono coreani e giapponesi, forestieri, turisti, comunque gente fissata. Una volta, difatti, non ricordo chi, mi hanno spiegato che indossare la mascherina era un loro costume: lo fanno per difendere gli altri dal contagio. Ah – ho pensato – e vabbè, come vedi, sono loro a essere malati, mica io. Quindi, fuggo, anche perché è un problema loro.

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Poi, già a metà febbraio, ho contato il numero di mascherine, era aumentato. Le indossavano giapponesi, coreani e qualche italiano: e adesso? Poi è andata come è andata e già a metà marzo si è cominciato a parlare con più foga delle mascherine. Sono iniziati i messaggi contraddittori. Usatele, non usatele, usatele con giudizio, sì ma quale giudizio, mettetele in certe situazioni, sì ma quali situazioni, sono presidi medici, allora chiedete ai medici le regole, i medici rispondevano elencando una serie di regole da seguire, erano almeno dieci e già non mi ricordo le prime due.

  

Il problema è che i messaggi contraddittori, all’inizio, provenivano dalle istituzioni. Il presidente della Società italiana di pediatria, Alberto Villani, in conferenza stampa disse: “La preghiera che viene fatta alla popolazione è di usare i presìdi quando realmente necessari: perché i presìdi vanno riservati ai medici e agli infermieri, e siete ben a conoscenza di tutte le difficoltà che ci sono nel reperimento. Non c’è motivo di usare la mascherina quando non serve: né io né il commissario la indossiamo perché siamo a un metro e mezzo di distanza”.

 

Pochi minuti dopo il discorso di Villani, però, il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, rispose a una domanda, gli chiedevano che fare con quelle mascherine non certificate per un uso medico: “Sono utilizzate da tutte le altre persone che vogliono in qualche modo evitare la diffusione del contagio, ma in quel caso vanno sempre rispettate una distanza e regole di prudenza. È un qualcosa di più, rispetto a non portare nulla. Sicuramente sono utili”. Le indosso o non le indosso? Mi è più simpatico Villani o Borrelli?

  


Già a metà febbraio il numero di mascherine era aumentato. Le indossavano giapponesi, coreani e qualche italiano: e adesso?


 

Poi è arrivato un breve video dell’Oms, durata un minuto e 26 secondi. Mi sembrava molto chiaro, al 40esimo secondo la speaker dichiarava: vanno indossate in specifiche situazioni, e dunque se avete febbre, tosse e altro, indossatela, se non avete questi sintomi non dovete indossarle. Il pensiero dell’Oms, in fondo, era in linea con quello che il consulente del governo, Walter Ricciardi andava dicendo nelle conferenze stampa: “Assolutamente inutili per i sani” e pure, modestamente, con il mio pensiero di cui sopra.

 

Se siete malati, bene, indossatela, vedi coreani e giapponesi, se non siete malati non indossatela, anche perché comunichereste solo malattia, depressione, cupezza ecc., e io poi fuggo da questi pensieri tristi, in fondo sono o non sono un maschio meridionale a cui hanno insegnato (o inculcato, boh, non so), la regola dei devo? Un uomo non deve piangere, non deve mostrare le fragilità, un uomo porta i soldi a casa, un uomo non deve andare dal medico, e in aggiunta: un uomo non deve portare la mascherina. Ora, a mano a mano che i messaggi contradditori si susseguivano, non so perché, ho cominciato a riflettere sulla mascherina e la mia posizione si è fatta meno rigida. Diciamo che non servono, dài, però male non fanno. O no?

 

 

Sul New York Times, la sociologa Zeynep Tufekci – si era a marzo – ha scritto un articolo in cui evidenziava come messaggi altalenanti c’erano anche negli Stati Uniti: le mascherine servono prima ai malati, poi al personale sanitario che ne ha bisogno. Bene, una dichiarazione siffatta ha dato l’impressione che l’indicazione iniziale si basasse sulla necessità di destinare dei materiali che servono alla protezione del personale sanitario. Cioè, il messaggio era che effettivamente servono, soprattutto a proteggere un infermiere, che è molto più esposto al contagio. Giusto, no? Ma allora perché non dovrebbero proteggere un normale cittadino? Questo messaggio ambiguo, secondo Tufekci, potrebbe aver spinto molte persone a non fidarsi delle indicazioni ufficiali, e a fare scorta di mascherine.

 


Pur essendo maschio meridionale, ho recuperato in famiglia un salva slip, e incurante di antiche prescrizioni, un uomo non deve piangere, andare dal dottore, figurarsi se può usare un salva slip, me lo sono appiccicato in faccia. E sono entrato baldanzoso in farmacia


 

E infatti, è cominciato il can can. Cioè, mentre io riflettevo ancora sul ragionamento di Tufekci, il mondo attorno a me si muoveva: bisognava – e la notizia andava di bocca in bocca – procurarsele subito, a breve sarebbero diventate obbligatorie in tutti i luoghi chiusi. Quindi, costi quello che costi, datemi una mascherina. Così, l’onda emotiva mi ha preso, e niente, vero, le mascherine sono per malati, però male non fanno, e poi, come dicevano tutti, a prescindere dalle indicazioni dell’Oms: fra un po’ saranno obbligatorie. Quindi ho deciso (ha deciso il giapponese e il coreano che sono in me): basta, le compro.

 

E tuttavia, nel momento in cui ho deciso, mi sono accorto che tutte le farmacie e tutti i negozi avevano un cartello ben visibile con caratteri che nemmeno i titolisti allarmisti usavano più: assolutamente vietato entrare senza mascherina. Devo comprare una mascherina per poter entrare nei luoghi chiusi ma non posso entrare nel luogo chiuso perché non ho la mascherina che dovrei acquistare per poter entrare in altri luoghi chiusi: mi sa che dovevo risolvere questo paradosso, un po’ come la capra, il cavolo e il lupo. Non ho mica tendenza a cercare roba di contrabbando, eppure, per vecchia impreparazione di fronte ai paradossi, ho cominciato a sperare di incrociare qualche ambulante che vendesse mascherine, così, per trovare una scorciatoia. Ma niente, vendevano ombrelli, calzini, cocco, frutta, fiori, ma non mascherine. Sono arrivato a sperare anche in qualche spacciatore che in vena di economia circolare e circoli virtuosi vari, si fosse messo a vendere mascherine.

 

Intanto, più riflettevo più notato che ero l’unico senza mascherina, mi guardavano tutti male e mi sentivo solo e nudo. Evidentemente i concittadini avevano risolto in qualche modo il paradosso mascherina, tranne me. Un senso di solitudine e di impreparazione si è impossessato di me. Fortuna che in rete si trova di tutto, quindi su una pagina Facebook avevo letto un divertente racconto di una donna alle prese con il mio stesso problema. Ebbene, aveva trovato una soluzione: il salva slip! Ottimo surrogato – diceva: copre naso e bocca, è aderente e protettivo. E tra l’altro il suggerimento le era arrivato da un medico.

 

Così, pur essendo maschio meridionale, ho recuperato in famiglia un salva slip, e incurante delle antiche prescrizioni, un uomo non deve piangere, andare dal dottore ecc., figurarsi se può mettersi un salva slip in faccia, e tuttavia, come dicevo, con sprezzo del pericolo, oltretutto sempre più convinto della fluidità dei generi, mi sono appiccicato il salva slip in faccia. Sono entrato baldanzoso in farmacia. Il farmacista mi ha chiesto prima dove avevo presto quella mascherina, perché ne voleva ordinare pure lui uno stock intero, poi mi ha chiesto che tipo di mascherina volevo, chirurgiche o filtranti? Le filtranti – ha continuato- si dividono in Ffp1, Ffp2 e Ffp3. Aspetta, partiamo dall’inizio che significa Ffp? Significa filtering face piece. Ah, bene, ho capito, ma che hai detto? Che significa? Fil… fil, come è che si dice: filtering… face… va bene, ma piece cos’è? Significa mascherina filtrante. Ok, ho capito, ma che filtra? No, non filtra, cioè, filtra solo alcune cose, dipende appunto. Da che dipende? Dipende se sono Ffp1, Ffp2 e Ffp3. Ok, calma – ragioniamo – visto che sono qui in farmacia con il salva slip in faccia, prendiamoci il tempo necessario per capire.

 


L'iniziale difficoltà di trovarle, il fai da te e i rimedi improvvisati. La giostra dei modelli e il costo. Le fantasie sui volti coperti e gli sguardi. Poi la parola definiva dell'Oms


 

Ricominciamo? Ffp1 ti proteggono da polveri atossiche e non fibrogene. Fibrogene? E che significa? Vabbè, non andiamo nei singoli dettagli – mi ha spiegato il farmacista. Lei la metta senza chiedersi troppi perché, diciamo che danno una certa protezione, se non le bastano metta la Ffp2 che protegge da polveri, fumo e aerosol solidi e liquidi dannosi per la salute, anche se le particelle possono essere fibrogene. Vale a dire? Vale a dire che a breve termine causano l’irritazione delle vie respiratorie e a lungo termine comportano una riduzione dell’elasticità del tessuto polmonare. Se no, metta le Ffp3. Ma no – ho sussurrato – per carità, basta così, già ho problemi a capire la 1 e la 2, alla 3 non ci arrivo.

 

Andiamo sul semplice: la chirurgica a che serve? La chirurgica serve a proteggere gli altri, sa chi la usa? In genere i popoli orientali. Ah, vedi i popoli orientali, che bravi ’sti coreani e giapponesi: che civiltà avanzata, del resto è una civiltà millenaria, nell’anno 1000, quando in Europa c’erano a stento 35 milioni di persone, gli arabi e i cinesi avevano inventato l’inverosimile.

 

Poi ho riflettuto: scusi, ma se metto la chirurgica, vuol dire che proteggo gli altri e non me stesso? Sì, certo. Ma scusi, io, non sono mica infetto, sto benissimo, semmai mi devo proteggere dagli altri, cioè, infatti magari sono i coreani e i giapponesi a essere infetti, e infatti mettono la mascherina da millenni, perché, già dall’anno 1000 loro erano più civili di noi, io sono occidentale e meridionale tra l’altro, e comunque sto benissimo, magari mi devo proteggere dai coreani dai giapponesi e da tutti gli altri, quindi senta, mi dica un po’ come funzionano le… le… come si chiamano… Ffp che ha detto che significa?

 

Ho comprato una Ffp, anche perché le chirurgiche ancora non c’erano, a stento ce l’hanno gli infermieri, io stesso – ha aggiunto il farmacista – non ce l’ho, me ne sono fatta una in casa. Vero: all’inizio di questa storia, prima della mia conversione, in tanti sconsigliavano di usare la mascherina, anche perché avrebbero potuto alimentare il senso di ansia e di paura generale: ma ormai quel pericolo era stato superato dagli eventi tristi. Infatti, sono cominciati i distinguo. In tanti hanno spiegato che sì, le mascherine servono però non servono, perché sono spesso usate male e dunque se andavano usate bisognava farlo rispettando certi criteri. Per esempio? Per esempio, le chirurgiche erano efficaci per quattro ore ma poi andavano cambiate. Certo, ad avercele. Non c’erano. Ma niente paura, ora arrivano. No, non arrivano, poi arrivavano ma costavano, e poi dovevi cambiarne una ogni quattro ore. Pazientate – dicevano – Arcuri ha promesso mascherine a 50 cent.

 

Oh, io abito in quartiere popolare e non vi nego che qualcuno si lamentava del costo, quattro cambi a 50 centesimi l’una, 2 euro al giorno, si era in quarantena, il bonus promesso latitava. Poi sono arrivate le mascherine a 50 cent., ma non erano buone, pare fossero farlocche, per essere efficienti – si è cominciato a dire – devono rispettare alcune norme, altrimenti sono inutili, altrimenti le potremmo fare in casa tutti, con un po’ di stoffa, ma poi finisce che i droplet passano attraverso la stoffa, quindi il fai da te non si può fare, allora un po’ di pazienza, il primo carico è andato male, ma il secondo vedrete…

  


Sono cominciati i distinguo. In tanti hanno spiegato che sì, le mascherine servo però sono spesso usate male e dunque bisogna usarle rispettando certi criteri. Per esempio, le chirurgiche sono efficaci per quattro ore ma poi vanno cambiate. Certo, ad avercele. Non c'erano. Ma niente paura, ora arrivano


 

Siccome il secondo carico tardava ad arrivare, e le mascherine non si trovavano, allora le istituzioni in conferenza stampa un giorno hanno detto, così en passant: ah, a proposito di mascherine, fatevele a casa, in attesa che arrivino quelle vere. Capite? Per questo non mi ero ancora convertito del tutto. Difficile vedere la luce così all’improvviso. Mi sentivo nel bel mezzo del guado, e qualcosa mi tirava sulla vecchia riva. Notavo difatti alcune scene che scoraggiavamo l’uso della mascherina.

 

Per esempio: esterno giorno. Signora mascherata. Squilla il telefono. Lei abbassa la mascherina per parlare meglio. Risponde al telefono. A un certo punto grida, vedo i droplet aprirsi a raggiera, mi immagino i virus festanti come bambini sulle montagne russe. Lei, intanto, si tocca la mascherina. Si gratta pure il naso. Spegne il telefono. Lo mette in borsa. Alza la mascherina. La tocca davanti e di lato, per metterla a posto. Tocca il banco. Squilla di nuovo il telefono. Abbassa la mascherina. Prende il telefono. Risponde, alza la voce perché dall’altro capo non sentono, altre cascate di goccioline, zampilli nella luce mattutina di marzo. Poi sfrega una mano sugli occhi e sul viso. Spegne il telefono. Lo ripone. Rialza la mascherina. Prende una stecca di sigaretta. Va alla cassa. Si abbassa la mascherina. Tira fuori i contanti. Paga. Rimette via il portafogli, si alza la mascherina. Prende la stecca di sigarette. Si abbassa la mascherina e saluta. Fa gli auguri. Rialza la mascherina. Esce: ah, dice, si abbassa la mascherina fino al mento, poi siccome non si trova, la mette sui capelli, come fermacapelli, respira, prende una sigaretta e la fuma: un po’ d’aria, dice, stavo a soffoca’.

 


Esterno giorno. Signora mascherata. Squilla il telefono. Lei abbassa la mascherina per parlare meglio. Risponde al telefono. A un certo punto grida, vedo i droplet aprirsi a raggiera, mi immagino i virus festanti come bambini sulle montagne russe. Lei, intanto, si tocca la mascherina. Si gratta pure il naso


 

Poi c’erano quelli che per risparmiare non si risparmiavano sull’uso della mascherina. Voglio dire, mi venivano certe immagini alla mente. Un tempo chi aveva la Vespa, apriva la sella e tirava fuori uno straccio schifoso e lurido e diceva: fammi pulire un po’. Dopo la pulizia, rimetteva lo straccio ancora più sporco sotto la sella. Capitava, dunque, di vedere qualcuno che prima di entrare al supermercato tirava fuori dalla tasca quello che sembra un fazzoletto del nonno o, appunto, lo straccio della Vespa. Invece era una mascherina, diciamo così, già vintage, buona per il mercato delle pulci, usata cento volte e da settimane, altro che quattro ore e poi via. No, pensavo, no, non lo farà. E invece, il tizio la indossava e ti guardava, sembrava dire: così ti proteggo. E niente, rivedevo la vecchia scena, quello con lo straccio che puliva la Vespa e per associazione pensavo che ora il tizio mi stava mi stava strofinando in faccia lo straccio della Vespa.

 

Per non parlare dei collezionisti di mascherine, cioè quelli che accumulavano mascherine, perché erano ipocondriaci e temevano di rimanere senza. Allora le appendevano come se fossero abiti, dovunque ci fosse un gancio, la casa cambiava aspetto. C’erano quelli più ordinati, riponevano le mascherine in sacchetti di plastica, non una, ma tutte quelle che hanno avuto in dotazione e allora il sacchetto diventa grande come un pallone che ci potevi pure giocare.

 

O ancora, quelli che facevano sia il pane sia le mascherine a casa, con procedure artigianali, e magari erano infetti e contaminavano le mascherine. Quelli che le prendevano solo costose e di marca, e siccome le avevano pagate un sacco di soldi invitavano le ragazze a casa per vedere la collezione di mascherine. Quelli felici perché avevano comprato una nuova mascherina, è unica, molto bella, assolutamente desiderabile, e con un particolare che non ha nessuno. Tanto è vero che quello andava a fare la spesa tutto contento, finché uno non lo afferrava: criminale, untore, lei con questa valvola sta spandendo la sua sporca aria sul cibo, vada fuori.

 

Quelli che in fin dei conti pensavano: dài, non è male la mascherina, è un po’ come essere in quei paesi arabi dove le donne stanno a capo scoperto e tuttavia si vedono solo gli occhi e quegli occhi sono bellissimi. Così incrociavano una donna, aveva sia cappello sia mascherina, e gli occhi scintillanti, e pensavano a quelle donne arabe con gli occhi bellissimi, così lui che pure aveva cappello e mascherina cominciava a guardare lei e anche lei lui, finalmente si avvera: una storia come ultimo tango a Parigi, senza sapere né il nome, né chi è lei né chi sei tu, lei fa segno, indica a lui un angolo appartato, lui la segue, felice, gli occhi di entrambi luccicano. Così, al riparo, lei abbassa la mascherina: è sua moglie. Lui è tanto deluso ma fa finta di niente, pure lei è delusa ma dice: l’amore è un grosso inganno.

 

O infine quelli che andavano in un posto chiuso e gli veniva da starnutire e allora abbassavano la mascherina: ma è proprio la mascherina che mi fa starnutire. Le cose sono peggiorate, tragicamente. Quindi tutti, chi più chi meno, abbiamo cambiato idea, e anche l’Oms ha stilato un ultimo definitivo report che conta molte pagine, tutte spiegano l’utilità della mascherina e come il suo uso costante contribuisca a ridurre il contagio. Comunque, dopo tutti i messaggi contraddittori e le retromarce, i distinguo e le spiegazioni, insomma, dopo pagine e pagine, il report si concludeva con due righe riassuntive di forte presa: smettete di rompere e mettetevi ’sta mascherina.

 

Diciamo che il finale del rapporto Oms mi ha convinto. In fondo più che i distinguo dovevano valere le euristiche, se ognuno protegge l’altro e l’altro protegge a sua volta un altro, si instaura un circolo virtuoso, e prima lo facciamo girare, prima abbassiamo l’inoculo virale, quindi ho cominciato a girare sempre con più mascherine chirurgiche, chiuse in sacchetti di plastica (che sì, spesso si gonfiano da assomigliare a un pallone), anzi ogni volta che avevo la possibilità ne prendevo una, per scorta e per usarla rispettando i parametri medico-sanitari: non vi nego che qualche volta mi hanno accusato di fare incetta di mascherine, diciamo così, un eufemismo per dire: te stai a ruba’ le mascherine, ma io niente, ormai ero e sono un convertito e vi dico la verità? Ho assunto posa e tono tipici dei convertiti.

 

Per esempio, fino a qualche tempo fa usavo sempre la mascherina, tranne all’aperto. Se passeggio alle sei di mattina (come faccio spesso) e sono da solo (in fondo sto sempre da solo) perché devo usare la mascherina? Poi, quando l’ultimo dpcm ha reso obbligatorio l’uso della mascherina anche all’aperto, mi sono detto: ma infatti, che senso ha uscire senza mascherina e poi mettersela in determinate situazioni (poi quali?), rischiando così di contaminarla e renderla inutilizzabile: la prendi dal sacchetto di plastica, già è un bordello, la usi per lo stretto necessario, poi la riponi nello stesso sacchetto dove ci sono altre mascherine, magari le contamini, poi due minuti dopo la riprendi, stessa procedura ecc. Così come indossi la camicia indossi anche la mascherina, dopo quattro ore la depositi negli appositi contenitori e ne metti un’altra. È più semplice: euristiche, no.

 

All’inizio avevo abolito e contestato duramente le mascherine di stoffa, e non capivo i negozi che le vendevano, anche se alcune sono proprio belle e donano anche, perché coprono alcune imperfezioni della pelle, quelle che nemmeno le creme costose riescono a guarire, e allora, che dire, ho cambiato idea. Ne ho comprato un paio, nere e ben fatte, che tuttavia uso come copri mascherina: sotto la chirurgica, sopra la mascherina di stoffa. Trovo che a volte mi danno l’aria da bel tenebroso, una specie di Zorro che però copre naso e bocca e non gli occhi, anzi, quelli, spero appaiano scintillanti ecc. ecc. Devo dire la verità, troppe mascherine non mi fanno respirare bene, ma anche qui, se mi donano e creano un alone di mistero perché non fare un po’ di sacrifici? Poi i dati parlano davvero chiaro e davanti a delle misure ben fatte e condivise, bisogna essere seri.

  


I collezionisti di mascherine, quelli che le accumulano perché sono ipocondriaci e temono di rimanere senza. Mettersela al chiuso e ora anche all’aperto. Quella di stoffa nera, ben fatta, usata come copri mascherina. Io, “mask convinto” perché tendiamo ad assembrarci, parlare, toccarci: un modo per sconfiggere la paura


 

Il fatto è che non ci abbiamo capito niente, fin dall’inizio e ancora oggi fatichiamo. Pensate ai numeri proclamati a gennaio (certo su dati cinesi). Erano incoraggianti. Basso tasso di mortalità, e sintomi simili all’influenza. Pensate alle previsioni fatte. Anche da importanti e rispettati centri. Certo, morirà qualcuno, ma sono anziani, messi male. Tanto vale puntare all’immunità di gregge. Poi si è scoperto che quegli anziani erano padri, madri, nonni e nonne e no, abbiamo detto, che c’entrano i nostri padri e le madri, noi pensavamo ai vecchi in generale.

 

Poi si è scoperto che più della mortalità a preoccupare erano gli alti numeri di ricoveri e quelli in terapia intensiva: questo cambiava tutto, il Sistema sanitario nazionale rischiava di collassare, e infatti ci siamo andati vicini. Poi si è scoperto che i nostri comportamenti incidono eccome sull’andamento dell’epidemia, anche se poco lungimiranti come siamo, così attratti dalla contingenza, non ce ne rendiamo conto: siamo noi, con il miglior tracciamento – scrive Enrico Bucci – con le mascherine, con tutte le attenzioni possibili agli assembramenti ad aver evitato un futuro drammatico, anche se non tutti seguono le disposizioni e se non sempre le cose funzionano bene, perché comunque ogni occasione di contagio evitata incide sui totali.

 

Per questo sono diventato un mask convinto. Perché ancora non ci siamo: se incontriamo un altro abbassiamo la mascherina, teniamo il naso scoperto, non cambiamo la mascherina. Ma sapete che c’è? Vi capisco. Tendiamo a fare massa, assembrarci, parlare, raccontarci, toccarci, è un modo per sconfiggere la paura. Sì, pur se non lo ammettiamo, subiamo l’influenza ancestrale e biologica di due protagonisti: il tempo e il corpo.

  


Neghiamo la presenza della morte e delle sue declinazioni, la malattia, il dolore, qualche volta un virus. Proteggiamoci, mascheriamoci: è un modo per abbracciarci, proprio in quanto umani, cioè persone poco speciali, anzi ferite, bisognose di cure e amore, prima che il tempo e il corpo facciano il loro corso


 

Ogni nostro gesto nasce dal tempo. C’è un altro modo per declinare questa affermazione, certo, più radicale: ogni nostro gesto nasce dal tentativo di gestire lo scorrere del tempo, perché sappiamo che porta alla morte. La teoria di riferimento si chiama Tmt, un acronimo: Terror managemente theory. Gli umani sono umani perché sentono il tempo e sono dunque in grado di cogliere l’inevitabilità della morte. Un bel guaio, perché nessuno in questo campo sa davvero nulla e mai sapremo nulla. Per forza sale l’ansia. Metti poi che la morte è nella nostra scaletta, può arrivare in momenti inaspettati e casuali, capite perché la maggior parte di noi trascorre il tempo (e spesso spreca energia) per spiegare perché si muore, o per prevenire o procrastinare la morte. O per costruire strutture narrative che ci confortano: non soffrirai, perché un giorno scoprirai il senso di tutto, la ragione del tuo travagliato cammino: insomma, storie contro lo scorrere del tempo.

 

Dunque, per far fronte alla suddetta onda ansiogena che sale, cerchiamo rimedi: l’autostima per esempio (ci sono, valgo, conto), oppure: siamo qui per uno scopo, lavorare per l’aldilà. Poi è ovvio, è un attimo e l’autostima o le credenze religiose o gli altri valori, da strumenti protettivi (si selezionano perché garantiscono la sopravvivenza) diventano insopportabili rotture di scatole: insomma non vogliamo morire, ci crediamo immortali e alla fine curiamo il corpo, lo esponiamo, lo pompiamo, occupiamo spazio, diamo fastidio al prossimo che pure lui vuole vivere, essere immortale e occupare spazio: una inutile guerra fra presunti immortali. Ci autoinganniamo, neghiamo la presenza della morte e delle sue declinazioni, la malattia per esempio, il dolore e qualche volta la presenza di virus.

 

Ma il tempo è contenuto nel corpo e il corpo accusa il colpo, sempre. Anche se si crede immortale, muscoloso, esibizionista, in realtà è un corpo ferito, spesso ammalato. Tuttavia, potrebbe essere una leva. Se prendiamo coscienza che non siamo speciali – del resto abbiamo 20 mila geni, gli stessi del nematode, ma voi dite, va bene, ma io pianto il mais sull’altopiano, il nematode no, però lo strato di ozono che ci protegge e protegge le nostre opere è spesso tre millimetri e se finisce, finisco anche io, mentre il nematode vive – ecco se arriviamo al punto e ammettiamo: sì, non siamo speciali, allora, invece di proclamare la guerra futura e dividerci, tra mask e no mask, io sono meglio di te, il mio pensiero è più puro del tuo, il mio confine è più bello del tuo, potremmo respingere l’idea di purezza e immortalità e proteggere quel poco di vita che ci spetta. Proteggiamoci, dunque mascheriamoci, è un modo per abbracciarci tutti, proprio in quanto umani, cioè persone poco speciali, anzi, ferite, bisognose di cure e amore, prima che il tempo e il corpo facciano il loro corso.

 


Antonio Pascale è nato a Napoli nel 1966, ha vissuto prima a Caserta e poi a Roma, dove attualmente lavora. Ha pubblicato romanzi, saggi, reportage. L'ultimo è "Le aggravanti sentimentali" (Einaudi). È autore di "Domenica in".

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