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L’estate della colpa

Giulio Meotti

“Ci siamo sbarazzati della religione, ma ora i peccati non possono essere perdonati. Così ci autocondanniamo”. Parla il critico americano McClay

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In tedesco la parola “colpa”, Schuld, condivide una radice con la parola “debito”, Schulden. Secondo Wilfred McClay, critico e storico che insegna all’Università dell’Oklahoma, già nel National Endowment for the Humanities, le società occidentali sono impegnate a pagare questo gigantesco debito morale, ma è come se fosse inestinguibile. McClay aveva intuito quattro anni fa cosa sarebbe successo in un saggio intitolato “La strana persistenza della colpa”, pubblicato dalla Hedgehog Review e che fu discusso sul New York Times. La tesi di McClay è che viviamo nel tempo più scettico, secolarizzato e indifferente alla religione della storia, ma che la colpa è sempre più onnipresente. Qualunque cosa facciamo, prospera fra di noi. “La reazione globale massiccia all’omicidio di George Floyd a Minneapolis o all’offesa provata sulle statue è stata un cuneo per tutta una serie di altre cause molto più radicali, la maggior parte delle quali ha poco o nulla a che fare con la disuguaglianza razziale”, dice McClay al Foglio. “Quasi nessun americano negherebbe la proposizione che ‘black lives matter’”. Diverso è l’obiettivo ideologico di un fenomeno globale. “E’ un attacco al ventre molle dell’occidente, un attacco all’idea stessa che ci siano individui stimabili ed eventi degni di commemorazione nel passato occidentale. Che gli attacchi siano diventati così indiscriminati, tra cui figure come Cervantes, Gandhi, Lincoln, Gesù e la Madonna, mostra che lo sforzo è meschino e serve a scandalizzare e inorridire e rifiutare la civiltà tout court. Quando nessuno si alza per difendere tutto questo, quando le istituzioni dell’establishment occidentale sono così demoralizzate e paralizzate da un senso di colpa per le passate imperfezioni, allora la morale pubblica precipita e la volontà di difendere le istituzioni crolla. E’ possibile che ci stiamo dirigendo verso quel momento”.

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In tedesco la parola “colpa”, Schuld, condivide una radice con la parola “debito”, Schulden. Secondo Wilfred McClay, critico e storico che insegna all’Università dell’Oklahoma, già nel National Endowment for the Humanities, le società occidentali sono impegnate a pagare questo gigantesco debito morale, ma è come se fosse inestinguibile. McClay aveva intuito quattro anni fa cosa sarebbe successo in un saggio intitolato “La strana persistenza della colpa”, pubblicato dalla Hedgehog Review e che fu discusso sul New York Times. La tesi di McClay è che viviamo nel tempo più scettico, secolarizzato e indifferente alla religione della storia, ma che la colpa è sempre più onnipresente. Qualunque cosa facciamo, prospera fra di noi. “La reazione globale massiccia all’omicidio di George Floyd a Minneapolis o all’offesa provata sulle statue è stata un cuneo per tutta una serie di altre cause molto più radicali, la maggior parte delle quali ha poco o nulla a che fare con la disuguaglianza razziale”, dice McClay al Foglio. “Quasi nessun americano negherebbe la proposizione che ‘black lives matter’”. Diverso è l’obiettivo ideologico di un fenomeno globale. “E’ un attacco al ventre molle dell’occidente, un attacco all’idea stessa che ci siano individui stimabili ed eventi degni di commemorazione nel passato occidentale. Che gli attacchi siano diventati così indiscriminati, tra cui figure come Cervantes, Gandhi, Lincoln, Gesù e la Madonna, mostra che lo sforzo è meschino e serve a scandalizzare e inorridire e rifiutare la civiltà tout court. Quando nessuno si alza per difendere tutto questo, quando le istituzioni dell’establishment occidentale sono così demoralizzate e paralizzate da un senso di colpa per le passate imperfezioni, allora la morale pubblica precipita e la volontà di difendere le istituzioni crolla. E’ possibile che ci stiamo dirigendo verso quel momento”.

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“Le nostre coscienze sono diventate un problema, un punto di fatale vulnerabilità, cui manipolatori senza scrupoli possono attaccarsi”. “La ‘cancel culture’ rappresenta il trionfo del postmodernismo: la realtà non esiste, possiamo manipolarla”

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Veniamo alla colpa. “C’è una vasta riserva di colpa irrisolta che affligge le nazioni avanzate del mondo occidentale”, spiega McClay. “Naturalmente, per alcuni aspetti ciò riflette qualcosa di encomiabile, di una sensibilità morale altamente sviluppata che è un retaggio della formazione cristiana delle società. Ma una comprensione completamente sfumata del passato include necessariamente una resa dei conti con il prezzo che è stato pagato per sviluppare la nostra civiltà nella misura in cui esiste ora, i peccati implicati nell’ascesa della civiltà. Ma include anche molto altro, come il riconoscimento dell’immenso bene che la nostra civiltà ha raggiunto nel far uscire innumerevoli milioni di persone dalla povertà e dall’ignoranza, nel prolungare e migliorare le vite e nell’affermare la dignità e il valore di ogni vita umana, come sigillato nell’immagine divina. Nessuno dovrebbe voler vedere quella sensibilità morale cancellata. Ma con la perdita delle nostre fedi religiose come forza normativa, le nostre coscienze diventano un problema, un punto di fatale vulnerabilità, un luogo a cui manipolatori senza scrupoli possono attaccarsi, perché ci sentiamo troppo consumati dalla colpa per opporsi. Il secolarismo non ci offre alcun modo per espiare i nostri peccati, nessuna espiazione o liberazione dal peso della colpa, se non attaccarci a una causa pura e giusta, mettersi al servizio. E questo implica anche dirigere una condanna senza rimorso verso se stessi. Il secolarismo abbandona l’idea del peccato come offesa a Dio, che a prima vista sembra molto liberatoria. Facciamo le regole e l’uomo è la misura di tutte le cose. Ma insieme all’idea di ‘peccato’ c’era l’idea di ‘perdono’. E il perdono è una delle cose che la ‘cancel culture’ ha cancellato. Senza perdono non può esserci pace, nessuna riconciliazione tra fazioni in lotta, nessuna unità durevole, nessun amore civico o sentimento patriottico. C’è solo l’interminabile lotta ideologica verso la purezza, che sfocia come sappiamo dalla storia nella ghigliottina della rivoluzione e della tirannia divoratrici di sé. Se hai detto la cosa ‘sbagliata’ o mostrato opinioni sbagliate ieri o trent’anni fa – e presto basterà aver detto o pensato la cosa sbagliata – non c’è redenzione. Sei trasformato in una ‘non persona’. Certo, alcuni individui possono essere riscattati, ma solo su base arbitraria e irrazionale, solitamente correlata alla loro utilità. E quella redenzione può essere revocata, se un gruppo che detenga il potere sul discorso pubblico decidesse di ritirare la propria approvazione. Si torna al Gulag della cancellazione”.

  

Dopo i monumenti, i media. La “cancel culture” dicevamo, il dibattito dell’anno in America. “Rappresenta una sorta di espressione istituzionalizzata e armata del dettato del postmodernismo, secondo cui non esiste realtà, a parte quella che le nostre parole e immagini creano per noi. Se è valido, ne consegue che il modo in cui le persone pensano può essere cambiato controllando parole e immagini, o semplicemente vietando idee o pensieri che non corrispondono alla ‘corretta’ realtà sociale. Il postmodernismo è più una postura o uno stato d’animo che un insieme di idee definite. Ma è definito da un atteggiamento di scetticismo dogmatico verso l’idea di verità assoluta, universale o oggettiva, insieme al presupposto che tutte le idee siano contingenti e attribuibili alla ricerca del potere. Questo è il motivo per cui Michel Foucault, uno dei più eminenti pensatori postmoderni, ha usato l’espressione ‘potere della conoscenza’, savoir-pouvoir. La conoscenza non può essere considerata separata dal suo servizio al potere. Non esiste la verità che si distingua completamente dal potere. Pertanto, non c’è motivo di tollerare individui che sposano idee che non riescono a combaciare adeguatamente con la struttura di potere esistente, o che non riescano a supportare la struttura di potere che i rivoluzionari vogliono creare. Questo è esattamente quello che è successo a coloro che vengono ‘cancellati’. Il postmodernismo potrebbe sembrare favorevole alla libertà, perché installa un regno di soggettività totale. Ma non può durare, come stiamo vedendo. Quando non c’è verità, non può esserci ordine pacifico nella società, solo governo da parte di persone forti e senza scrupoli. La perdita della verità mina la capacità di autogoverno dei cittadini, il che significa la capacità di dibattere e deliberare insieme sulle idee e le politiche con cui desideriamo essere governati. Invece avremo una glorificata forma di delinquenza e gangsterismo, vestita con abiti ideologici. Ciò che chiamiamo ‘cancel culture’ non è in un certo senso nuovo; c’è sempre stato un rifiuto e un’emarginazione di colore che hanno visioni fuori moda e il liberalismo era il credo che si opponeva fermamente a queste cose. Ma in un altro senso, è qualcosa di completamente nuovo, nella sua arbitrarietà e ferocia, e nella relativa debolezza della risposta liberale ad esso. Sarebbe impensabile senza lo sviluppo di social come Twitter e Facebook, che favoriscono un potere di stigmatizzazione quasi istantanea che può rovinare la vita di una persona semplicemente per aver espresso l’opinione ‘sbagliata’ o detto nel modo ‘sbagliato’, anche se lo hanno fatto trent’anni fa. Tra le ossessioni più ricorrenti del politicamente corretto c’è stata l’infinita sorveglianza del linguaggio e la sostituzione di parole che sono diventate inaccettabili con quelle accettabili. La teoria alla base di questa ossessione è semplice: non si può più pensare ciò che non si può più dire. Se possa funzionare, in particolare in una società che professa valori liberali come la libertà di parola, è un’altra domanda. A volte assume dimensioni comiche, come nei dibattiti senza fine sugli indiani d’America, i nativi americani, gli amerindi, i popoli indigeni e così via. Ora vediamo emergere il termine ‘Latinx’, che tenta di trascendere le implicazioni patriarcali di ‘Latino’, ma senza il privilegio di genere ‘cis’ di Latina, un termine che non viene usato da nessuna parte al di fuori del mondo accademico, ed è particolarmente impopolare con individui di origine latina. Ci viene improvvisamente detto che dobbiamo usare la maiuscola per il termine ‘Nero’, ma non ‘bianco’ e ‘schiavo’. E’ una forma di ‘vergogna artificiale’, l’uso di una pressione sociale aggressiva altamente concentrata, spesso espressa nei social, per rendere certe opinioni ed espressioni semplicemente insostenibili da parte di individui che desiderano rimanere parte del proprio ambiente sociale, aggrapparsi al proprio lavoro. Viviamo in una società senza vergogna, secondo gli standard di mezzo secolo fa, eppure ossessionata dalla vergogna”.

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L“Recuperiamo il senso di orgoglio in chi e cosa siamo e trasmettiamolo ai nostri giovani. Non è una sfida impossibile”. “Viviamo in una società senza vergogna, secondo gli standard di mezzo secolo fa, eppure ossessionata dalla vergogna”

Non si è ancora capito se il fenomeno si attenuerà o divamperà. Non potendo rimediare concretamente a questo o a quel flagello, ci denunciamo come suoi autori, ricostruiamo all’infinito il vecchio rapporto fra colonizzatori e colonizzati, rintracciamo ovunque reminiscenze imperiali e proliferano gli “ismi”, nella certezza della nostra ignominia, che non vi sia nulla di amabile nella cultura occidentale.

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“Penso che i sentimenti rivoluzionari che sono stati scatenati non siano così profondi”, dice ancora McClay. “Sono superficiali, nel senso che non rappresentano una filosofia coerente e non hanno obiettivi realistici o fattibili. In America non è una ‘rivolta’. E’ uno sforzo guidato da una manciata di alcuni degli individui più privilegiati nella società e che non sta sfidando chi è al potere. Ma hanno raggiunto un certo grado di istituzionalizzazione nella classe dirigente. Come non notare che le più grandi corporazioni supportano con entusiasmo organizzazioni come Black Lives Matter? Tale unanimità non è una coincidenza. Un gruppo che sfida la polizia e abbatte le statue non è realmente interessato a demolire la struttura del potere. E la struttura del potere, o parte di esso, lo sa. Questo gioco di prestigio andrebbe smascherato. Penso che ci sia una possibilità che la cultura occidentale diventerà più caotica, più divisa, negli anni a venire. Ma non è inevitabile. Pochissime cose sono inevitabili, ed è parte del genio dell’occidente insistere sul fatto che l’uomo sia un essere libero. Possiamo recuperare la capacità dell’occidente di onorare e apprezzare l’imperfetta grandezza che ci è venuta prima, piuttosto che permettere ai vandali di abbatterla in una folle e futile ricerca di auto-purificazione. Possiamo recuperare un maturo senso di orgoglio in chi e cosa siamo e riflettere quel senso di orgoglio in ciò che insegniamo ai nostri giovani? Queste sono sfide, ma non sono sfide impossibili”.

  

C’è un vecchio detto americano, variamente attribuito, secondo cui “un uomo più la verità equivale alla maggioranza”. “Ci esorta come individui a parlare con coraggio”, spiega McClay. “Ma dipende completamente dall’idea che la verità sia qualcosa di accessibile a tutti e che esista indipendentemente da ciò che il ‘potere’ dice che sia. La ‘cancel culture’ si basa sull’opposto di quella visione. Coloro che controllano il discorso costituiscono una maggioranza effettiva e la ‘verità’ è qualunque cosa essi dicano che sia. Da dove viene il perdono in un mondo postmoderno? Sembra molto invitante, moralmente liquido e liberatorio, a prima vista. Ma l’ascesa della ‘cancel culture’ ci rivela le zanne assassine dietro al suo ghigno”.

  

E se il torto non è di peccare ma di esistere, come una colpevolezza che ormai giace in noi inerte, come un debito impossibile da cancellare e rinegoziare, che allora ciascuno si senta un po’ criminale, senza saper neanche perché.

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