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Come gestire il politicamente corretto alle vongole (a volte anche Google aiuta)

Michele Masneri

L’italiano si arrangia un po’ come può col pol. corr. di importazione. Per questo ci vorrebbe una gita a Chiasso 2.0, come quella che Alberto Arbasino face sul Giorno il 23 gennaio 1963

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Il 23 gennaio 1963 Alberto Arbasino faceva sul Giorno la poi celebre tirata sulla “Gita a Chiasso”: in Italia gli intellettuali si ostinavano a inseguire e affrontare temi e tematiche e autori “tradotti”, che nei paesi di origine erano ormai dati per scontati, scriveva Arbasino. Per superare questa impasse sarebbe bastato arrivare alla dogana “di Ponte Chiasso, due ore di bicicletta da Milano”, e lì procurarsi testi come – e lì citava una serie di volumi fondamentali della contemporaneità, arrivati vent’anni dopo in Italia. Questo ritardo ventennale, sosteneva Arbasino, procurava una specie di straniamento, una doppia velocità: autori già affermati e magari in crisi nelle loro madrepatrie (tipo Salinger) venivano pensosamente scoperti e discussi in Italia: e in generale si passava molto tempo “lamentandosi a vuoto e perdendo del tempo inventando la ruota (…) mentre altrove già si marciava in treno o in dirigibile”.

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Il 23 gennaio 1963 Alberto Arbasino faceva sul Giorno la poi celebre tirata sulla “Gita a Chiasso”: in Italia gli intellettuali si ostinavano a inseguire e affrontare temi e tematiche e autori “tradotti”, che nei paesi di origine erano ormai dati per scontati, scriveva Arbasino. Per superare questa impasse sarebbe bastato arrivare alla dogana “di Ponte Chiasso, due ore di bicicletta da Milano”, e lì procurarsi testi come – e lì citava una serie di volumi fondamentali della contemporaneità, arrivati vent’anni dopo in Italia. Questo ritardo ventennale, sosteneva Arbasino, procurava una specie di straniamento, una doppia velocità: autori già affermati e magari in crisi nelle loro madrepatrie (tipo Salinger) venivano pensosamente scoperti e discussi in Italia: e in generale si passava molto tempo “lamentandosi a vuoto e perdendo del tempo inventando la ruota (…) mentre altrove già si marciava in treno o in dirigibile”.

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Oggi l’internet e i vituperati social ci fanno credere d’esser tutti sullo stesso piano, dalla mia Voghera io mi leggo il New York Times e rituitto la casalinga dell’Ohio, pensando di trovarmi in una felice unità di tempo e di luogo: mentre il colossale fuso orario ventennale è ancora lì, non se ne va: così causa sorpresa che un ministro degli Esteri venga criticato per aver fatto “blackface”, qui considerato “spiritoso”, “perché i problemi son ben altri”, o perché “il razzismo vero è parlare del colore della pelle”, tutto appunto molto anni Duemila. In rete si troveranno del resto tutorial anche semplicissimi che spiegano perché il nero-faccettismo non va bene, e risaliranno probabilmente a vent’anni fa. Gli stessi in cui ci si cominciava a lamentare, nelle patrie di origine, dei problemi del famigerato “politically correct”, che oggi si affaccia timidamente da noi.

   

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Il romanzo “La macchia umana” di Philip Roth, che tratta di accuse di razzismo farlocche a un professore universitario, è appunto del 2000. E la puntata di “The West Wing” in cui ci si chiede se la legge contro i crimini antigay non sia superflua, è del Natale 1999 (poi la legge è passata, le famiglie naturali sono sopravvissute). L’Italia di oggi pare insomma, per dirla alla Elena Ferrante, scontornata, ufficialmente nel 2020 ma ancorata saldamente al 2000 (anche come pil, del resto). E si dispera inutilmente molto contro questo maledetto politicamente corretto, mai arrivato ma molto dibattuto e combattuto. Con effetti di straniamento: se le cronache estere raccontano di certe università molto estreme e certi musei d’arte contemporanea esotici dove ti avvantaggeranno se sei una donna transgender invece che un maschio bianco etero, il sovranista di Pescara e il suprematista di Usmate sono sinceramente convinti che stia accadendo  qui e ora: mentre nell’ateneo italiano si sa che sarà più frequente l’esaminatore-palpeggiatore bianco (mediterranean privilege).

 

Invece che studiare, l’italiano si arrangia poi un po’ come può col politicamente corretto di importazione; a volte si sforza pure, e fa tenerezza, cavandosela generalmente malissimo, non solo tra blackface e bodyshaming, ma anche con declinazioni più domestiche: qualche tempo fa, un titolo di giornale vituperava un attacco omofobo al grido di “frocio di M”: quindi la parola con la F si potrà dire, quella con la M no. E il paparazzo che ha fotografato Di Maio in quella strana posizione acquatica ha risposto che chi pensa male di quella foto è “sessista”, mostrando di ritenere che “sessista” voglia dire sporcaccione (in molti casi, basterebbe una gita non a Chiasso ma su Google. Ma è un problema italiano forse innato, quello di non controllare le parole: del resto abbiamo appena imparato a distinguere il coming out dall’outing: quasi sempre sbagliati, almeno quanto “sauté” nei menu dei ristoranti italiani, per le vongole, e per le cozze).

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