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Quando arrivano le ragazze

Aprile e il rumore delle donne

Gaia Manzini

Diventare donna doveva proprio essere come la fioritura, un sentirsi sbocciare nella bellezza e nella grazia. Il rumore che facevo da adolescente era quello di un gigantesco equivoco

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Una lavastoviglie che parte, un frullatore, una ventola; quelli che in cortile parlottano e fumano, ma non riusciamo a vederli: arriva solo la loro nicotina che sa di chiacchiere in famiglia; il portinaio del palazzo davanti che si gode il sole con la mascherina in faccia e parla, parla, parla con chiunque passi; c’è una bicicletta elettrica che fa un fischio, sembra un’ambulanza, quando sfreccia tutti si affacciano per la paura che qualcuno si sia sentito male. I vicini di sopra sono barricati in casa. Capisco che i loro bambini non ce la fanno più quando iniziano a correre, passi pesanti, progressivi, una marcia sopra le nostre teste: vanno avanti fino a sera, anche oltre; spostano mobili, imitano l’incedere dei dinosauri che è quasi mezzanotte, ma nessuno ha il coraggio di dire niente - ci vorrebbe una carezza, ci vorrebbe una promessa: tornerete presto a giocare nei parchi e incontrarvi con altri bambini, ve lo giuro, io lo so. C’è un neonato nella via, non sappiamo dove abiti ma ogni tanto manda un urlo acuto da aquilotto che mi riporta ai primi mesi di mia figlia, quando tutto sapeva di futuro. Poi qualcuno da un appartamento che non vedo cede alla tensione, urla: le parolacce si sfilacciano, rotolano in strada e mi commuovono, ogni imprecazione vale come una preghiera; perché il mondo ormai è puro suono.

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Una lavastoviglie che parte, un frullatore, una ventola; quelli che in cortile parlottano e fumano, ma non riusciamo a vederli: arriva solo la loro nicotina che sa di chiacchiere in famiglia; il portinaio del palazzo davanti che si gode il sole con la mascherina in faccia e parla, parla, parla con chiunque passi; c’è una bicicletta elettrica che fa un fischio, sembra un’ambulanza, quando sfreccia tutti si affacciano per la paura che qualcuno si sia sentito male. I vicini di sopra sono barricati in casa. Capisco che i loro bambini non ce la fanno più quando iniziano a correre, passi pesanti, progressivi, una marcia sopra le nostre teste: vanno avanti fino a sera, anche oltre; spostano mobili, imitano l’incedere dei dinosauri che è quasi mezzanotte, ma nessuno ha il coraggio di dire niente - ci vorrebbe una carezza, ci vorrebbe una promessa: tornerete presto a giocare nei parchi e incontrarvi con altri bambini, ve lo giuro, io lo so. C’è un neonato nella via, non sappiamo dove abiti ma ogni tanto manda un urlo acuto da aquilotto che mi riporta ai primi mesi di mia figlia, quando tutto sapeva di futuro. Poi qualcuno da un appartamento che non vedo cede alla tensione, urla: le parolacce si sfilacciano, rotolano in strada e mi commuovono, ogni imprecazione vale come una preghiera; perché il mondo ormai è puro suono.

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È dai rumori che inizia un racconto di Simone de Beauvoir, Monologo: “Porci! Ho tirato le tende perché non entri ’sta luce cretina dei lampioni e degli alberi di Natale ma i rumori trapassano i muri”. Sopra di lei il Capodanno impazza, la gente per strada continua a parlare, il mondo invade irrispettoso la sua solitudine, ma lei preferisce che le spacchino le orecchie piuttosto che sentire il telefono che non suona. Il marito l’ha lasciata, la figlia è morta tragicamente, con la madre ha un rapporto terribile: è una donna spezzata. Che rumore fa una donna? Ci penso in questi giorni di aprile tra le maglie del tempo dilatato. A casa di mia madre, tra i suoi libri, ho trovato Memorie di una ragazza per bene: dalla dedica capisco che glielo aveva regalato sua sorella Anna, chissà se lo ha letto davvero, chissà se lo ricorda – cosa pensava di quella ragazzina che al finale di Piccole donne inorridiva davanti al matrimonio di Laurie e Amy? È una strana coincidenza questo ritrovamento, perché proprio il 15 aprile di quarant’anni fa moriva Sartre e si scioglieva la coppia più all’avanguardia di tutta Europa. Simone se ne andava sei anni più tardi: era il 14 aprile. Sempre in primavera.

  

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E poi, ancora: nell’aprile del 1990 aveva nevicato, fiocchi grandi grandissimi e fuori stagione che spegnevano le fioriture. Aveva nevicato e io non ero potuta uscire, i miei mi avevano chiusa in casa mentre Pietro, Fabio e la mia amica del cuore se ne andavano per la città. Mi ero rintanata in camera, piangevo silenziosa, mi commiseravo, perché l’unica cosa che desideravo davvero era diventare donna. Diventare donna nella mia testa di sedicenne voleva dire fare quello che volevo, usare il mio corpo come mi pareva, apparire bellissima ed essere amata. Nei miei pensieri aleggiava una frase, l’avevo sentita dire a mia madre, ma non ero in grado di capirla davvero: la intendevo come una bella promessa invece dell’imposizione di un destino. “Donna non si nasce, lo si diventa”. Sì, sì: doveva proprio essere come la fioritura, un sentirsi sbocciare nella bellezza e nella grazia. Il rumore che facevo da adolescente era quello di un gigantesco equivoco. Non sapevo niente di donne, del loro coraggio e della loro forza, della speranza e della fatica, del non sentirsi mai autorizzate a essere brave o migliori. Quel diventare donna nel senso di ‘essere relativo’: non ne avevo coscienza, ma già mi comportavo come tale. Vivevo solo per stare dentro gli occhi degli altri, per sentirmi desiderata; se a una festa nessuno posava il suo sguardo su di me, mi sentivo svanire.

  

Che rumore fa una donna? penso in questa reclusione, mentre ascolto la musica anni Sessanta del mio dirimpettaio. Che eredità ho da passare a mia figlia di nove anni? Vorrei tenerla così, dentro al bozzolo dell’isolamento, spaventata dalla sua crescita, spaventata dal fatto che tra qualche anno si ritrovi a fare i conti con le solite difficoltà, con la malinconia che ogni tanto ci accompagna e l’incertezza che allontana i nostri sogni, anche senza il virus.

  

Se gli uomini “accettassero di amare una loro simile, (…) le donne sarebbero molto meno ossessionate dal pensiero della loro femminilità; acquisterebbero naturalezza, semplicità e sarebbero donne senza tanta fatica, dato che, dopo tutto, lo sono”.

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La casa è invasa dalle voci: le videochiamate che ci si fa con gli amici in questi giorni. Mia figlia ha un appuntamento fisso con i compagni intorno alle cinque del pomeriggio. La chiamata inizia che sono in quattro e si conclude sempre come conversazione a due. Sì, ha un amico speciale: è una complicità innocente e bellissima, fatta di letture condivise di Topolino, di interessi scientifici (robot umanoidi e roba del genere), di risate pazze per smorfie e facce strane. Le chiedo cosa le piace di lui, non alludo né all’amore né all’attrazione, né al fatto che sia maschio e lei femmina.

 

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“Mi piace perché è simile a me”, dice con naturalezza. E allora penso: mia figlia sì che conosce Simone de Beauvoir, che l’ha già capita.


 

Gaia Manzini, scrittrice, il suo ultimo romanzo è “Ultima la luce” (Mondadori). Il prossimo uscirà per Bompiani nel 2021.

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