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Stregati dalla voce

Simonetta Sciandivasci

Abbiamo fatto delle immagini la nostra ossessione, ma sono davvero tutto? Sorpresa: con la complicità di Covid e lockdown siamo tornati ad ascoltare. Abbiamo riscoperto con la radio la parola. E anche podcast e audiolibri non sono mai andati così bene. Un’indagine

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L’uomo che verrà avrà le mani curve, le dita lunghe, il cranio più piccolo, la fronte più spessa, la gobba, i piedi palmati. Sapete, per via dello scioglimento dei ghiacciai, dell’uso prolungato di smartphone, dell’esposizione a schermi luminosi. Chissà poi se avrà un solo orecchio, come certi contemporanei di Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”, o se ne avrà due, dieci, nessuno, ora che i romanzi sono audiolibri, i documentari sono podcast, le conversazioni sono note audio, le terapie anti stress sono playlist, e tutto sembra confermare quello che ha scritto Forbes qualche mese fa: l’èra degli strilli è finita, benvenuti nella decade dell’ascolto. E chi se l’aspettava da un’umanità tronfia, boriosa, pigra e ossessionata dall’immagine, dove esiste solo ciò che è fotografato, che riscoprisse la voce, il suono, l’invisibile. Un’umanità che si smarrisce non appena i confini e le superfici delle cose sfumano, non combaciano, si rivelano diseguali, porosi, contraddittori, oscuri, ruvidi. Che chiede che il cinema venga contestualizzato, il male espunto, la letteratura sottoposta al tribunale del riesame perché da sola non è in grado di fruire di niente senza sentirsi offesa, aggredita, questionata. Che comunica senza dialogare, interagisce senza intervenire, connette senza unire.

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L’uomo che verrà avrà le mani curve, le dita lunghe, il cranio più piccolo, la fronte più spessa, la gobba, i piedi palmati. Sapete, per via dello scioglimento dei ghiacciai, dell’uso prolungato di smartphone, dell’esposizione a schermi luminosi. Chissà poi se avrà un solo orecchio, come certi contemporanei di Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”, o se ne avrà due, dieci, nessuno, ora che i romanzi sono audiolibri, i documentari sono podcast, le conversazioni sono note audio, le terapie anti stress sono playlist, e tutto sembra confermare quello che ha scritto Forbes qualche mese fa: l’èra degli strilli è finita, benvenuti nella decade dell’ascolto. E chi se l’aspettava da un’umanità tronfia, boriosa, pigra e ossessionata dall’immagine, dove esiste solo ciò che è fotografato, che riscoprisse la voce, il suono, l’invisibile. Un’umanità che si smarrisce non appena i confini e le superfici delle cose sfumano, non combaciano, si rivelano diseguali, porosi, contraddittori, oscuri, ruvidi. Che chiede che il cinema venga contestualizzato, il male espunto, la letteratura sottoposta al tribunale del riesame perché da sola non è in grado di fruire di niente senza sentirsi offesa, aggredita, questionata. Che comunica senza dialogare, interagisce senza intervenire, connette senza unire.

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L'illustrazione di Makkox


  

Questa umanità così avvilente, infantile, didascalica, spiccia è però la stessa che in un momento di spaventosa incertezza, anziché ristorarsi nella pienezza del visivo, ha saputo scegliere il sonoro e che, ancora prima, aveva cominciato a riscoprirlo, talvolta prediligerlo, accettando la sua sfida inevitabile: l’immaginazione, che è un salto nel buio, una responsabilità, una grandissima fatica. Un’immaginazione scortata dalla parola, della quale abbiamo dimenticato l’origine di convenzione, facendo così fatica ad accettarne il limite, l’imprecisione, l’impossibilità congenita di descrivere perfettamente ciò che nomina, di contenere completamente ciò che indica. E magari sta qui una delle ragioni del successo della parola pronunciata su quella letta, o scritta: è agita dalla voce, che riempie quello scarto tra il nome e l’oggetto designato con il suono, l’evocazione, la sensorialità.

 

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Quando Ulisse non cede alle sirene, recide la coscienza di sé come natura, inibisce l’impulso alla felicità e al piacere, stabilisce il dominio della ragione sull’istinto. Ragiona, fa ciò che deve e non ciò che vuole. E’ così che diventa eroe.

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Lo scrive Adorno nella “Dialettica dell’Illuminismo”, spiegando anche che Omero assegna alle sirene la tentazione e le trasforma così in creature colpevoli che agiscono per scopo, non per istinto.

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Le conversazioni sono note audio, le terapie anti stress sono playlist: l’èra degli strilli è finita, benvenuti nella decade dell’ascolto. La voce riempie quello scarto tra il nome e l’oggetto designato con il suono, l’evocazione, la sensorialità


 

Le sirene sono mostri anfibi ripugnanti e sanguinari, ma la loro immagine non conta: è della loro voce che Ulisse non vuole privarsi, premonendosi di ogni accortezza necessaria per non farsene del tutto ammaliare, seguirle e finire ucciso. Le sirene sono, prima di tutto, voce e Adorno rende chiara la ragione per la quale alla voce non facciamo che tornare, dalla voce siamo irretiti, ammaliati, incantati e disarmati come da nessuna immagine. Può darsi che sia perché la voce è suono e secondo alcune religioni politeiste il mondo è nato da un suono (e finirà, secondo Eliot, “non in un baccano ma in un piagnisteo”)? Il suono lo abbiamo cercato più di qualsiasi altra cosa nella prima fase del lockdown: prima ancora dei concertini sui balconi, abbiamo assistito a sessioni di percussioni con le pentole offerte dai nostri vicini, che sembravano così voler segnalare che erano vivi, che avrebbero resistito, che sarebbe andato tutto bene. Più avanti, invece, è venuto l’ascolto.

 

Durante la fase 2, secondo i dati raccolti da Gfk per Ter (Tavolo editori radio), l’ascolto della radio è aumentato di settimana in settimana, in modo costante, fino a stabilizzarsi su un rialzo del 20 per cento, in robusta parte dovuto al ritorno degli italiani in macchina, confermando così che l’autoradio è ancora una piattaforma fondamentale per il pubblico radiofonico. In quella percentuale e nella sua curva continuamente crescente si deve anche leggere, secondo il presidente del Cda di Ter Marco Rossignoli, una precisa eredità del lockdown, durante il quale moltissimi hanno o sperimentato nuove forme di ascolto o scoperto le più tradizionali. Per i podcast la tendenza è ugualmente espansiva: nel 2019 hanno conquistato 12 milioni di italiani, con un incremento del 16 per cento rispetto all’anno precedente.

 

In verità, non c’è molto da stupirsi. Tanto per la radio quanto per il podcast, che sempre di più annette ciò che in radio fatica a trovare spazio (dallo storytelling libero dai paletti dei palinsesti, fino al radiodramma), non si tratta che di un ritorno alle origini.

 

Alla riconquista della radio, d’altronde, dovremmo essere abituati: non è la prima volta che succede, dal 1924, quando andarono in onda le prime trasmissioni dell’Uri (Unione radiofonica italiana), la bisnonna della Rai, fino a oggi, essa è sembrata sul punto di morire un gran numero di volte. Con l’avvento della televisione negli anni Cinquanta e, ancora di più, con quello dei canali musicali più o meno commerciali come Mtv negli anni Novanta, fino all’arrivo dei podcast.

   

Questi ultimi, prima di diventare quello che sono oggi, e cioè una piattaforma che salva e valorizza ciò che la radio espunge, sono parsi, come tutti i mezzi disintermediati, una concorrenza letale per le vecchie trasmissioni radiofoniche. Era un allarme comprensibile ma, in fondo, ingiustificato, e che infatti non ha trovato riscontro nella realtà. Anzi. Dice al Foglio Edoardo Camurri, giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico: “Lavorando per la televisione e per Radio 3, che ha una sua unicità rispetto alle radio commerciali, mi è diventato chiaro presto che la radio è molto meno mediata della tv. In tv, se hai un’idea per un programma, prima di arrivare all’effettiva realizzazione, devi passare per mille mediazioni prima di tutto tecniche, e poi editoriali, che sono compromessi, e che rendono piuttosto complicato raggiungere una identità precisa tra ideale e reale: far combaciare l’uno e l’altro è praticamente impossibile. In radio, invece, il processo di mediazione è parecchio ridotto, non soltanto rispetto a quello che accade in televisione ma proprio in assoluto: così, è molto più facile riconoscersi in quello che si fa, riconoscere la propria idea. La radio offre l’immediatezza, che non intendo come spontaneità, attenzione (la spontaneità è un’ambizione sciocca, o almeno ingenua), bensì come l’espressione prima dell’espressione e, ancora meglio, l’espressione alla base dell’espressione”.

 

Di questa specie di immunità alla sovrastruttura che della radio è uno dei tratti genetici, è convinto anche Stefano Bartezzaghi, semiologo, giornalista e scrittore: “Sospetto da molto tempo che la radio faccia vedere più di quanto non faccia la televisione. Chiunque sia mai stato in una regia televisiva capisce bene che l’unico che vede, in tv, è il regista: sceglie lui cosa vediamo noi. La radio invece trasmette solamente una voce e la fa vedere. Si tratta di scegliere fra l’evidenza e l’evocazione”.

 

E’ la voce il punto fermo e, insieme, il timone. Lo è il suo potere evocativo, appunto. Tommaso Ragno, attore teatrale e cinematografico, oggi tra i migliori e più richiesti lettori di romanzi per la radio e per le piattaforme di audiolibri, dice: “Credo che il potere della voce sia inestricabilmente collegato a quello dell’ascolto. Nella registrazione della lettura di un libro per me conta prima di tutto la capacità di svuotamento di sé che un attore è in grado di fare per far emergere non soltanto quello che c’è scritto dentro un libro, cioè il significato, ma pure il suono. E’ chiaro che non è interessante il contenuto di per sé di questo tipo di scritture, quanto il suono che c’è dentro, quindi che cosa a livello proprio preverbale è capace di suscitare un’associazione di parole. Dentro una voce c’è un potere preverbale, evocativo, quasi di incanto.

 

Si presume che chi legge un libro produca o esorti in chi lo legge un’immaginazione, ma è importante che l’attore non imponga una propria interpretazione: deve, invece, porgere ciò che è riuscito a percepire dallo scrittore. Mi viene in mente la poesia di Rimbaud, “Vocali“, dove ogni vocale è connotata con aggettivi che si riferiscono a sensazioni tattili, visive, come a dire che il suono è così imprendibile che ha bisogno di altre associazioni per poter essere, se non compreso, di certo sentito”. Quando Gianrico Carofiglio, l’anno scorso, pubblicò per la prima volta l’audiolibro di un suo romanzo dove a leggere non era un attore ma lui stesso, disse al Foglio: “L’audiolibro è una forma di trasposizione del cartaceo che ne rispetta alcune caratteristiche fondamentali: tanto il lettore quanto l’ascoltatore riempiono i vuoti che lo scrittore lascia con consapevolezza. Io non ho mai descritto l’aspetto di Fenoglio, ma i miei lettori lo immaginano, ciascuno a suo modo. L’immagine, invece, ha una connotazione autoritaria: non puoi sceglierla, è quella che è”. Chiariva così un punto importante, smentendo una lettura facilona e sbrigativa che siamo stati tentati di dare più volte al successo della narrativa recitata, specie all’inizio, qualche anno fa: non si tratta di supplire all’incapacità di concentrazione dei lettori, ma di costruire una complicità tra creatore e fruitore. Il coinvolgimento e la compartecipazione, del resto, sono affluenti dell’empatia, la grande istanza globale, il grande (discutibile) quadrifarmaco, o forse ne sono i prodromi.

 

Dice Ragno: “Quando leggo un libro imparo moltissimo sulla tecnica di scrittura: non voglio dire, naturalmente, che divento scrittore, ma in un certo senso è come se il libro lo scrivessi io. Cerco allora di pormi dal punto di vista dell’ascolto dell’autore come qualcuno che ha origliato nella stanza accanto le voci di qualcuno che sta parlando: riporto a chi ascolta me quello che ho sentito, in una maniera non del tutto logica o spiegabile, perché un attore è, attraverso la sua voce, un evocatore. C’è poi un dato fondamentale: la voce non è staccata dal corpo. Questo fa sì che il corpo influisca sulla voce, contaminandola, depotenziando il controllo che io esercito. E’ la sfida più affascinante, più faticosa, ed è la ragione per la quale ogni volta che vado a incidere un romanzo, non parto con una decisione a priori – questo si legge così o cosà – ma faccio un lavoro simile a quello di chi scrive: mi metto a disposizione dell’espressione, ne divento tramite, lascio che scorra libera attraverso di me. Ho la voce, ne maneggio il potere, ma quel potere è mitigato dall’ascolto: non posso mai smettere di essere in ascolto del testo, della sua purezza originaria, né posso, allo stesso tempo, dimenticare mai che, per chi mi ascolta, lo sforzo (perché di sforzo si tratta) deve valere la pena”. E’ una scrupolosità antica, così antica da sembrare quasi antiquata, e invece è perfettamente idonea. Potrà sbalordire, ma i dati dicono che chi ascolta podcast e audiolibri mantiene una soglia di attenzione incredibilmente elevata. Se si tiene conto che l’età media degli utenti di queste piattaforme è di trentacinque anni, lo stupore aumenta. Ma come, i millennial, voraci inappagati cronici, frettolosi bulimici ossessivi compulsivi, quelli per frenare le indignazioni dei quali Twitter s’è inventato la funzione “sei sicuro di aver letto l’articolo?”, frase che il social network propone ogni qual volta un utente sta per ritwittare un contenuto editoriale. Queste brutali genti semoventi ormai nemmeno più giustificabili con la scusa dell’età sono un pubblico capace non di lettura ma di ascolto? Accipicchia. Google ha previsto che nel 2020 gli adulti americani ascolteranno audio digitali più della radio, e Spotify cerca di accaparrarsi i migliori prodotti podcast in modo da diventare leader mondiale, sperando che questo valga all’azienda una medaglia in libertà d’espressione. In verità, i podcast hanno un potenziale di rendita enorme anche grazie all’attenzione dei loro fruitori (per ora, Spotify investe quasi a fondo perduto, certa di raccogliere presto il triplo o il quadruplo del valore – l’ultimo maxi acquisto è costato cento milioni di dollari). Così come alcuni programmi di radio commerciali sono pensati per fare da sfondo ad attività quotidiane (andare in macchina, lavorare, studiare, rassettare), anche molti podcast tentano di proporre contenuti facili da seguire mentre si fa altro: dopotutto, i creatori sanno di rivolgersi a un pubblico multitasking. Vois, una startup italiana che crea contenuti podcast esclusivamente per brand interessati a farsi pubblicità su quelle piattaforme, ha rilevato che oltre l’80 per cento degli ascoltatori, al termine dell’audio cerca il prodotto che ha sentito sponsorizzare. Bbc Global News non molti mesi fa aveva pubblicato una ricerca basata su interviste realizzate in 10 paesi diversi ed era venuto fuori anche lì che il pubblico era particolarmente recettivo (si registravano i punti più alti di engagement, buona tenuta dell’intensità emotiva, e ottima resa della memoria: la storia della singola puntata veniva ricordata a lungo dopo l’ascolto).

 

Tra le ragioni di questa stupefacente attenzione c’è senza dubbio quell’offerta di compartecipazione che il podcast ha ereditato dalla radio, che a sua volta l’ha mutuata da quella assenza di mediazioni di cui parla Camurri. Senza contare la carnalità della voce.

 

Una delle donne di cui Bertrand Morane, il protagonista de “L’uomo che amava le donne” di Truffaut, si innamora perdutamente, con una specie di disperazione che per le altre non prova, è Aurora, la telefonista che ogni mattina lo chiama per svegliarlo (un servizio estinto, che oggi noi affidiamo ad Alexa e a tutti gli altri assistenti vocali di cui i nostri dispositivi digitali sono muniti, e dietro ai quali, peraltro, un’inchiesta di Bloomberg ha svelato non molto tempo fa che ci sono dipendenti in carne e ossa, che indirizzano al meglio i nostri algoritmi, ne correggono gli errori e, soprattutto, si ritrovano talvolta ad ascoltare le nostre conversazioni private perché, e questo è uno dei fatti principali della nostra vita, anche da spenti, i nostri pc, tablet, telefoni eccetera eccetera, ci ascoltano: chi ha visto “Ghost” in età ragionevolmente giovane, sa che prima degli assistenti vocali, ci spiavano i fantasmi dei nostri cari, e quindi non se ne cruccia).



Era con la voce che si esortavano gli uomini alla guerra. E’ con la voce che si mesmerizza, seduce, contratta.
Dice Bartezzaghi: “So ciò che del resto è ovvio: nella voce e in parte nella scrittura a mano, la lingua porta con sé un po’ del corpo che l’ha prodotta o la sta producendo – con le sue inclinazioni, volumi, toni, registri, impennate, irregolarità. La voce si sente: oggi sentire è più desiderato che leggere e intellegere, cioè connettere”.

 

Dice Ragno: “La voce ha una incredibile capacità erotica, nel senso di eros come dio delle relazioni. Mi sono provato a immaginare come sarebbe un social dove anziché scrivere o postare foto si potesse solo postare dei vocali: chissà cosa accadrebbe se potessimo sentire le voci di chi scrive un post”.

 

In teatro è diverso? Alcune compagnie teatrali, durante il lockdown, chiamavano persone a caso, e leggevano loro delle poesie, tenevano dei piccoli spettacoli. Il mezzo modifica la voce?

 

“Ricordo una cosa stupenda che mi disse Carlo Cecchi dopo prove che mi avevano stremato. Io ero sconfortato e lui dal fondo della platea mi disse che un attore è un tramite tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Stavamo facendo ‘Amleto’ al teatro Garibaldi di Palermo. Per me è rimasto un episodio capitale, perché la presenza dal vivo sul palco così come la presenza del suono sono entrambi atti molto più liberi di quelli che la cosiddetta società dell’immagine ti costringe a vivere: uno spettacolo puoi anche non vederlo, puoi chiudere gli occhi e ascoltarlo. Capii allora che un attore ha a che fare con saperi derivati, depositati nel tempo, in un tempo molto lontano. Credo che la sua voce arrivi da un profondo silenzio. Da un profondo ascolto, da qualcosa che lo sorpassa”.

 

Il rimando carnale a cui la voce ci porta, però, non si risolve più nell’invisibilità. Il nostro è un tempo che vuole non la concretezza intesa come pragmatismo, ma come risultato. Per questo, la voce è presto diventata, almeno in radio, un’insistenza che chiamava soddisfazione. Su Doppiozero, Tiziano Bonini, professore associato in Media studies all’università di Siena, ha ricordato che Walter Benjamin iniziava le sue trasmissioni in radio dicendo “Stimati invisibili”. Si rivolgeva, effettivamente, a un pubblico di ascoltatori che mai avrebbe visto e che mai avrebbe visto lui. C’è stato un tempo in cui lo specifico radiofonico stava tutto lì: nell’invisibilità dei conduttori che “parlavano di fronte al vetro della regia e si vedevano restituire la propria immagine riflessa, mentre il pubblico era solamente una presenza evocata, fantasmatica”. Non è più così da tempo. Le radio, come i giornali, organizzano incontri pubblici in cui autori, speaker e ascoltatori si incontrano, chiacchierano, interagiscono attraverso i loro corpi. Soprattutto, in moltissime trasmissioni usa ormai filmare la diretta e trasmetterla sui canali digitali dell’emittente (talvolta anche in quelli televisivi). Scrive Bonini: “Senza l’invisibilità, la radio perde i suoi superpoteri ma diventa più umana, si fa intermediario di relazioni faccia a faccia, che a volte durano oltre l’ascolto, pur nell’asimmetria della relazione di potere costruita al microfono”.

 

Michele Dalai, scrittore, editore e conduttore radiofonico, dice al Foglio: “La radio aveva in esclusiva assoluta il potere di trasformare la voce in immagine: ti portava lontano e ti permetteva però, con una specie di mitopoiesi continua, di darle dei volti, di immaginare gli spazi. Era una libertà illimitata che è la stessa identica della narrazione, ma in più era accompagnata da una voce che se aveva i colori giusti, le sfumature giuste, dava un vantaggio competitivo enorme su tutte le altre forme di racconto. Ora questo tratto distintivo si è perso, connota altre forme, altri contenuti audio. Ciò che la radio mantiene in esclusiva, invece, è la facilità di fruizione: basta girare una manopola per raggiungere tutti. Chiunque può ascoltare la radio, che per questo è stata salvifica durante i regimi, le guerre, le costrizioni. Anche questo, però, rischia di venire disperso: la radio rincorre il web, non è sicura della sua forza originaria e originale, e così porta le voci e i volti dei media più nuovi o minori al suo interno, senza capire che in questo modo rischia di perdere se stessa”.

 

Giorgio Zanchini, giornalista e conduttore radiotelevisivo, una delle voci più amate della Rai, sul processo di trasformazione della radio dice al Foglio: “Il cambiamento più rilevante e ovviamente figlio della rivoluzione digitale. E’ cambiata l’interattività, la radio si è ramificata, si è sposata con la rete. Ma su questo non mi soffermerei troppo. Mi sembra molto interessante invece il fatto che la radio abbia mutato i suoi standard formali. E’ una sorta di lungo processo di oralizzazione. Fino a qualche decennio fa, e mi riferisco soprattutto al servizio pubblico, la radio era scritta, libresca, molto formale. Negli ultimi decenni, anche sulla spinta delle radio di movimento, le radio libere degli anni 70, l’oralità, la spontaneità, quella che alcuni definiscono l’autenticità, sono diventate fondamentali e hanno spinto anche la radio pubblica ad aggiornare i suoi linguaggi. E’ successo anche per vicende molto pratiche, casuali: si decise a un certo punto di far leggere i giornali radio di Radio Rai non più agli annunciatori o non soltanto agli annunciatori che parlavano un italiano perfetto, ma anche ai giornalisti con le loro cadenze, le loro imperfezioni. E questo vale per i notiziari, ma anche per le trasmissioni. Io mi accorgo subito di quando un conduttore legge: mi sembra subito libresco, letterario, formale. La radio italiana, come in fondo tutta la cultura italiana, è figlia di un grande formalismo, eppure il paese si è sbracato nella direzione opposta, e così in molte radio locali e commerciali il rispetto per la povera lingua italiana è molto basso. C’è poi l’eterno ricatto dell’autenticità, e cioè l’idea che occorra parlare come parla la gente comune, usare parolacce, espressioni corrive, idioletti , borborigmi, frasi zoppicanti. Non sono in grado di stabilire se si tratti del corrispettivo della fine della mediazione, delle competenze, se sia l’ennesima conseguenza dell’azzeramento delle gerarchie. Forse è anche quello”.

 

Se conta l’autenticità, si instaura anche in radio un meccanismo di personalizzazione? Ovverosia: i programmi vengono costruiti intorno a chi li conduce? Il podcast è allettante per questo: consente a chiunque disponga dei mezzi necessari (pc, microfono, wifi) di creare il proprio audioblog.

 

La radio assimila o meno questo processo? Dice Zanchini: “Gli anglosassoni fanno distinzioni capziosissime tra lo speaker, il conduttore, l’annunciatore, il conduttore musicale, ma insomma: non entriamo in quel labirinto. Io provo a distinguere tra vari tipi di conduzione e conduttori che dipendono molto dalla personalità del conduttore ma ancora di più dal canale e dal pubblico. Un esempio molto concreto: La Zanzara è Cruciani, mentre Radio3 ha programmi con una struttura così forte da rendere il conduttore quasi fungibile. La trasmissione che conduco io, “Radio anch’io”, ha un format in fondo così solido che permette di essere condotta da chiunque, poi si può essere più o meno bravi ma la struttura è più forte del conduttore. In questo Radio3, con le sue spinte egualitariste e collettiviste, è l’esempio migliore, e tende spesso a far prevalere la struttura sul conduttore. Lo speaker mattatore, definiamolo così, è figlio della tradizione americana, che ha canali quasi sempre conservatori, il nome che si fa costantemente è Rush Limbaugh ma altri potrei menzionarne che improntano di sé l’intera radio, l’intero canale, e sono divenuti un modello anche politico: il conduttore è un domatore di folle dalla personalità prorompente, riceve telefonate degli ascoltatori e conciona su tutto, spesso insultando ascoltatori masochisti. Si chiamano call in radio show, e sono prodotti di lunghissima tenuta, spesso la stessa persona conduce per decenni lo stesso show, e hanno una forte influenza anche politica”.

 

Negli anni Settanta, Andrea Camilleri lavorava in radio alla Rai e scrisse a un certo punto: “Da troppo tempo gli addetti ai lavori della Rai sono condizionati dalla routine e sono poco aperti alle proposte degli ascoltatori… d’altronde si rischia di cadere nella demagogia. La piazza, manipolata dalla società di massa, quando ha fatto richieste giuste? Teniamo presente che la Rai, quando è diventata più democratica, non è stata mai superficiale. Il problema di fare cultura oggi è molto più difficile. Cerchiamo dei prodotti radiofonici da mandare in onda, che provino a interpretare la realtà in cui viviamo. L’invito è a opere originali, non a deliranti monologhi, sfoghi narcisistici, letture di poesie o imitazione di programmi già esistenti. La sfida è a ciò che è vecchio, falso e inutile”.

 

E’ un invito raccolto, decenni dopo, dal podcasting. E’ interessante come la radio subisca e non subisca lo spirito dei tempi: in parte gli si adatta, lo rincorre disperatamente, in parte gli rema contro. Ed è interessante come siano le sue caratteristiche più antiche, fondative, ad aver generato altri contenitori, decisamente più futuribili, nel senso non che dureranno di più o le sopravvivranno, quanto piuttosto perché sembrano meglio strutturati per portare nel futuro ciò che la radio è stata in passato, non solo tramandandolo, ma allargandolo. Dice Camurri che la radio è un media: in quanto tale, non può essere esente dallo spirito dei tempi. Il suo senso sta ancora nella voce, nell’immaginazione, nel suono, nella musica. E nello scarto che distanzia tutto questo dalla parola scritta. Nelle conversazioni sulla musica tra Manganelli e Paolo Terni (ripubblicate di recente da L’Orma), Manganelli dice a Terni, che è stato uno dei maestri di Camurri: “Il musicista si trova, diciamo, di fronte a uno strumento che agisce molto più prontamente coi suoi incantesimi per mortificare il significato, mentre lo scrittore, purtroppo, deve portarselo dietro e deve ucciderlo passo dopo passo”.

 

E’ una relazione che descrive bene anche la dialettica tra l’ascoltare e il vedere, la loro antinomia tuttavia nutriente, che spiega la ragione per cui “Video Killed the Radio Star” è sempre stata soltanto una canzone, e mai un fatto. Il visivo non ha soppiantato il sonoro, e non accadrà mai che il sonoro soppianti il visivo. Tuttavia, incredibilmente, uno rafforza l’altro: il nostro tempo lo testimonia.

 

Secondo Dalai, un pregio di questo momento è la buona convivenza tra immagine e audio: “Il racconto in audio non soppianterà l’immagine, però credo che finalmente si sia tornati a considerarlo un genere di pari dignità e credo che quello che succedeva dagli anni 40 in poi col radiodramma o con le grandi serie di racconti stia tornando ad avere una sua forza e una considerazione. Sono mondi diversi, corrono in parallelo, poi può capitare che si accavallino, certo: adesso vedo tanti tornare a lavorare con l’immagine. Ci sono grandi voice over di documentari o ancora racconti portati su immagini di documentari oppure che vengono direttamente travasati al video per raccontare delle storie, perché in fondo è quello che facciamo. Abbiamo acquisito i tempi e i modi per raccontare e a quel punto il video è semplicemente un pezzo in più del nostro racconto. Però non credo ci sia una competizione diretta e anzi, per fortuna esistono tutte e due”.

 

Dice Camurri: “Abbiamo privilegiato a lungo la vista come senso principale, ma è molto affascinante per noi esseri umani trovarci in una situazione in cui dobbiamo privilegiare un altro senso come l’udito. In radio, la parola è libera dall’immagine ma è signora dell’immaginazione. E diventa una scoperta, un massaggio. Il medium è il messaggio, ed è il massaggio, come diceva McLuhan con un gioco di parole. C’è questo continuo massaggio, questo ricercare l’attenzione e una compagnia continua. La radio è sempre doppia: c’è la radio che trasmette e la radio dell’orecchio degli ascoltatori, che è un altro sistema radiofonico legato alla nostra disciplina dell’attenzione, dell’ascolto, il quale ha un incredibile elemento di vitalità. L’orecchio, se ci pensiamo bene, è il labirinto che la natura ha voluto mettere sul nostro corpo. Il Minotauro è il nostro cervello e l’orecchio è il labirinto che ci porta da lui, dal mostro meraviglioso che siamo. La radio lavora esattamente in questo fantastico, spaventoso labirinto”.

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