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L’oro di Napoli

Francesco Palmieri

La superstizione riesce a salvarsi anche dagli assembramenti molesti. L’importanza dei riti, da Marotta a De Luca. E tutti col corno in mano

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E così, dall’oggi al domani, potrebbe andare tutto storto. Un principato o una famiglia, un bar o un amore, un chiosco o una carriera. Fummo prudenti, attenti. Ligi ai dettagli. Eppure dalla sera alla mattina, per imperscrutabile ragione, ciò che sta in alto se ne scivola in basso, la forza diventa debolezza e persino un Maradona può sbagliare un calcio di rigore, il gol a porta vuota. Siamo appesi a un filo. Così tu, governatore della Campania – on o don Vincenzo De Luca, rischi di finire come un povero Attilio Fontana; di perdere il controllo sul coronavirus cui hai affidato i prossimi destini elettorali, la fama di pater sceriffo, l’aurea primavera dell’arguzia a effetto. Basta che s’impennino i contagi per colpa di una festa. E che festa. Per una Coppa Italia strappata all’aborritissima Juventus era legittimo e evidente che sarebbero scesi tutti in piazza: ma quali mascherine e assembramenti, quale dei tuoi lanciafiamme. Valli a tenere, a Napoli: molti avrebbero firmato una liberatoria per beccarsi il Covid, magari a decorso bonario, piuttosto che cedere la Coppa al nemico del cuore.

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E così, dall’oggi al domani, potrebbe andare tutto storto. Un principato o una famiglia, un bar o un amore, un chiosco o una carriera. Fummo prudenti, attenti. Ligi ai dettagli. Eppure dalla sera alla mattina, per imperscrutabile ragione, ciò che sta in alto se ne scivola in basso, la forza diventa debolezza e persino un Maradona può sbagliare un calcio di rigore, il gol a porta vuota. Siamo appesi a un filo. Così tu, governatore della Campania – on o don Vincenzo De Luca, rischi di finire come un povero Attilio Fontana; di perdere il controllo sul coronavirus cui hai affidato i prossimi destini elettorali, la fama di pater sceriffo, l’aurea primavera dell’arguzia a effetto. Basta che s’impennino i contagi per colpa di una festa. E che festa. Per una Coppa Italia strappata all’aborritissima Juventus era legittimo e evidente che sarebbero scesi tutti in piazza: ma quali mascherine e assembramenti, quale dei tuoi lanciafiamme. Valli a tenere, a Napoli: molti avrebbero firmato una liberatoria per beccarsi il Covid, magari a decorso bonario, piuttosto che cedere la Coppa al nemico del cuore.

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E’ il richiamo identitario di chi – messe le mani avanti – rivendica la discendenza da una cultura che studia la “seccia”

E festa fu. E contagi – trascorsi i fatidici quattordici giorni – non furono. Ma quanti corni vennero attivati? Quanti scongiuri pronunciati a mezza bocca sotto la mascherina? Perché a De Luca sfuggì detta – anzi conoscendo il tipo gli sortì dopo scaltrita riflessione – una frase da fatidico glossario di Partenope: “Noi guardiamo con fiducia, un ritorno dell’epidemia non è inevitabile. Certo, poi c’è qualcuno che lavora per portare seccia, come quell’esponente politico... Ma noi contiamo di scansarla”. E la scansò, alla faccia – ça va sans dire – del capo leghista Matteo Salvini, reo di iellare per avere criticato l’acquiescenza del draconiano governatore all’orgia calcistica – alias bomba biologica, o assembramento universale o baccanale da finis lockdown preludio a nuove reclusioni da contagio. Altro che le movide.

 

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Non è stata una battuta e basta, ma il richiamo identitario di chi – messe le mani avanti – rivendica la discendenza da una cultura che studia la seccia, ossia la seppia col suo spargimento di nero o jettatura/malocchio e ne fa “scienza e coscienza” (per dirla alla Giuseppe Conte) nel governo quotidiano. Cose che un barbaro del nord, un Salvini, non può capire. E guai a lui se il popolo dell’ex capitale delle Due Sicilie comincia a sospettarlo di “portare seccia”; se fa davvero breccia l’idea che è un menagramo: addio speranze di voto. Contro uno jettatore Napoli può essere implacabile. Ricco, povero, fascista, comunista, uomo o donna, incolto o intellettuale: sbaglia chi pensa che il fascinum, il suo apparato di riti e superstizioni sia solo, o sia stato, faceto folklore funiculì funiculà. Dalla remota madre Grecia al ’700 e al 2020, la credenza è così profonda da essere paragonabile al culto di san Gennaro su cui si fonda l’identità collettiva. Con o senza la fede. E’ piuttosto questione di appartenenza, simbolo cui anche laici e atei s’inchinano.

 

Ogni napoletano borghese (chi fa eccezione è portatore di qualche occulto gene lappone o vichingo, basterà indagare) potrebbe doppiare la voce del conte Altavilla nel romanzo noir di Théophile Gautier, Jettatura: “Io sono un uomo civile; sono stato educato a Parigi, parlo inglese e francese; ho letto Voltaire; credo nelle macchine a vapore, nelle strade ferrate e alle due Camere, come Stendhal; mangio i maccheroni con la forchetta; porto al mattino dei guanti di Svezia, il pomeriggio dei guanti di colore, e la sera dei guanti paglierini”.

Fatta questa premessa, ogni napoletano si confronta tutta la vita con il rischio acquattato del malocchio. Specialmente i più raffinati lo sanno e lo misero a sistema, da quando il giurista Nicola Valletta, flos dello Ius partenopeo, allievo dell’illuminista Antonio Genovesi, diede alle stampe la Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura. Era il 1787, ma le massime non sono prescritte: “La Jettatura dunque da donna, o uomo si scaglia, siccome una mina da guerra, che spesso non si vede donde viene e si conosce quando già scoppiando abbia cagionate ruine”. Lo sguardo più della voce, la voce più del tatto trasmettono il nefasto influsso che penetra invisibile “per tutt’i forellini minuti della corporatura”. Come fa un virus.

 

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Gli jettatori, consapevoli della propria potenza, sono incapaci di dominarla: altrimenti sarebbero maghi, che è tutt’altra faccenda

Fu ed è l’angosciato tentativo, malcelato dal sorriso, di dar senso ai fallimenti nella Storia: la rovina subitanea di un prospero reame, di un affare condotto con tutte le cure o la malattia che smentisca un’apparente salute di ferro. Un’angoscia che studiò l’antropologo Ernesto de Martino, la ricerca del sabotaggio occulto sfuggente alla ragione per cui malgrado le premesse tutto può andare a rotoli da un istante all’altro. Scrittrice di storie sognate, Antonella Cilento rimanda volgo e professori “alla tradizione magico-alchemica antichissima a Napoli e resistente in ogni sua declinazione, dalla scienza naturale seicentesca alla massoneria settecentesca, che però la tradizione popolare ipostatizza nella jettatura con le sue numerose incarnazioni”.

 

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Da Valletta a De Luca, la jettatura è individuata non tanto come causa trascendente, ma quale movente naturalistico benché inspiegabile, nello sforzo di individuare una ragione per chi non si può contentare di etichettarla come caso, sfiga o Provvidenza: “Ogni accidente, che noi deboli, ed ignoranti mortali chiamiamo casualità, dee star ligato nella catena dell’universo; niente potendo esser fuori d’ordine, e tutto essendo a qualche fisica causa congiunto”, scrive Valletta. “L’aver carte buone, e propizia sorte, o averle cattive; il soffrir sinistri in un viaggio; gli avvenimenti contrari nella vita umana, e tante altre vicende, che chiamiam fortuiti accozzamenti, e casi, non son essi ligati a qualche cagion naturale? Or ciò, che da questa occulta causa a danno dell’uom procede, o per essa, o per l’effetto, o pel modo di produrlo, i Nostri appellano jettatura”.

 

Questo scetticismo circa gli sforzi umani, friabili come un castello di sabbia laddove parevano fortezze di granito, questa precarietà denunciarono più di altri certi spiriti forti: Gian Leonardo Marugi, matematico e traduttore di Locke, con i Capricci sulla Jettatura; Antonino Schioppa, con l’Antidoto al fascino detto volgarmente jettatura, stando al passo con l’Europa che ai primi dell’800 scommetteva sul magnetismo animale (lui propose di sostituirlo al vecchio corno ma con poca fortuna). Fu però tra i giuristi che l’ideologia della jettatura prosperò e si tramandò, forse perché meno fiduciosi nella giustizia umana e consapevoli di quanto spesso un tribunale possa pronunciare sentenze disoneste. O terrorizzati dalla cosiddetta jettatura sospensiva, che congela trascinandolo per anni un processo civile o penale. Esponenti di massimo rilievo furono, nel secolo scorso, due avvocati presidenti della Repubblica: Enrico De Nicola e Giovanni Leone. In modo sommesso il primo, che si dotò con astuzia di un “giovane di studio” gobbo affinché fosse accolto con giubilo nelle cancellerie di Castel Capuano; in maniera plateale il secondo, di cui restano ai posteri le duplici corna squadernate agli studenti che lo “jettavano”, o il vistoso toccamento degli attributi nel messaggio di fine anno del 1977 (secondo la formula: Terque, quaterque, testiculis tacti) mentre scandiva poco volentieri le parole “drammi familiari”.

 

Difficile pensare che Leone non conoscesse il trattato del canonico Andrea De Jorio: La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano dedicò una corposa sezione all’uso delle corna a scopi apotropaici nelle molteplici varianti. Quando nel 1832 lo pubblicò, De Jorio era a sua volta reputato fra i più portentosi jettatori del Regno, secondo solo nella Storia all’inarrivabile duca di Ventignano, che trovò congruo spazio in letteratura: prima nel Corricolo di Alexandre Dumas (forse tramite la mano del ghostwriter napoletano Pier Angelo Fiorentino), più tardi nel romanzo Il Principe Isidoro di Harold Acton, il quale ne descrisse la sciagurata vita. Perché gli jettatori, consapevoli della propria potenza, sono incapaci di dominarla: altrimenti sarebbero maghi, che è tutt’altra faccenda. Perciò alcuni di loro, dolenti per il danno involontario procurato agli altri, maledetti anche nelle benedizioni impartite ai propri cari, puniti per i complimenti profusi, gli sguardi d’affetto e gli intenti altruistici che subito si trasformano in affilatissimi strumenti d’offesa, si recludono fuggendo il mondo per evitargli nocumento. O addirittura cercano di risarcirlo.

 

Se non autentica, è verosimile la figura di Nicola Angarella, protagonista del racconto conclusivo di L’oro di Napoli di Giuseppe Marotta. Gasista di mestiere (come lo scrittore stesso da giovanissimo per sopravvivere), Nicola era dotato della tremenda facoltà. Spietato, il destino volle castigarlo persino uccidendo la ragazza di cui s’era innamorato ma su cui aveva fissato uno sguardo troppo intenso. Perché la sorte dello jettatore non ammette redenzione, anche se Angarella appuntava su un taccuino i morti e gli infortunati che il giudizio popolare gli attribuiva: “In suffragio dei primi faceva ogni tanto celebrare una messa; ai secondi inviava lettere anonime contenenti piccole somme di denaro”. In tempi di Covid avrebbe dovuto sottrarsi all’occhiuta presenza di De Luca. Perché all’epoca sua, alla fine della Prima guerra mondiale, venne accusato di avere procurato al quartiere Avvocata l’epidemia di ‘spagnola’ che decimò i residenti. Per la verità, precisa Marotta, in ogni quartiere la responsabilità fu attribuita agli omologhi di Angarella, sicché “i nomi di jettatori dei rioni Stella, Pendino, Porto, Chiaia e San Giuseppe che venivano considerati a loro volta responsabili della ‘spagnola’ gli ispirarono un singolare e ambizioso proposito. In poche parole: misurarsi con loro, influsso contro influsso; sopprimerli o esserne soppresso; liberare almeno in parte Napoli, le pietre e la gente che amava, dalla jettatura”. Ma la morte naturale precedette la sua generosità suicida.

 

La narrazione napoletana riserverà sempre posto alla jettatura. Come lo concede all’incanto. O alla camorra. “Non ho dubbi: il tema è ancora di competenza della nostra letteratura, perché è così legato alle nostre radici che le modificazioni della Storia non possono cambiarlo”, aggiunge Cilento: “Certo, mentre ci fa ridere o riflettere quando il contesto è letterario o artistico, c’indigna quando la jettatura viene evocata da persone che dovrebbero svolgere con serietà il loro ufficio pubblico e non ne sono capaci. Però attenzione: come ogni residuato bellico, la jettatura può essere pericolosa se maneggiata per caso, nel posto sbagliato o al momento sbagliato. E ciò vale senz’altro per il suo uso in politica”.

 

“Credere ciecamente alla iella è una forma di fissazione”, dice Vessicchio. E negarla? “E’ un’altra forma di fissazione…”

L’ideologia del professor Valletta non ha mai abbandonato la città anche se giustificata dal “non è vero ma ci credo”. Ne è convinto il maestro Peppe Vessicchio, con l’aplomb partenopeo minoritario e ineguagliabile che l’ha reso il volto più amabile del Festival di Sanremo. Citando Eduardo dice (e poi gli scappa una risata): “Credere alla superstizione è da stolti, ma non crederci porta male”. Dovendo farne oggetto di “giocosa ricerca” nella musica, la paragona a una dissonanza: “E’ ciò che non appartiene al campo dell’immediato possibile. E’ una nota estranea al sistema: può rivelarsi una forzatura dalle conseguenze disastrose o al contrario miracolose, se s’affianca ad altri sistemi e apre a nuove possibilità”. La superstizione schiude l’accesso “all’alternanza tra possibile e impossibile, positivo e negativo, essere e non essere. E sappiamo quanto i contatti con ciò che non è, non può o non deve, per esempio il mondo dell’aldilà, condizionino Napoli e discendano dalla radice orientale che ha avuto una cospicua influenza sulla città”. Ma bisogna starci attenti. Come in musica quando si “gioca” con le tonalità che hanno molte alterazioni in chiave: “Sono le meno praticate. Prendi il Fa diesis maggiore: tanto può sortirne un disastro quanto il Va, pensiero…”.

Sempre il giusto è nel mezzo: “Non affido alla superstizione le mie decisioni”, confida Vessicchio, “ma rimango attento a ciò che si fa o si pensa obbedendo all’antico desiderio di propiziare la sorte: per esempio, prima di fare una cosa importante io digiuno. E ogni volta che ho contravvenuto non è andata bene. Forse si tratta meschinamente di attribuire un insuccesso al mancato rito pur di evitare l’autocritica? Chissà. Certo, credere ciecamente alla iella è una forma di fissazione”. Negarla? “E’ un’altra forma di fissazione…”.

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