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Le infezioni collaterali

Gaia Manzini

Scoprire, chiusi in casa per difendersi dal virus, altre contaminazioni: degli spazi e delle abitudini, del dubbio continuo e dell’incertezza. Nel mondo che si è fatto più piccolo si sognano ristoranti pieni, matrimoni, battesimi, persino funerali

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La mattina la sveglia suona alle 7.45, mezz’ora dopo il solito orario, ma di questo ne siamo felici. Dopo colazione noi adulti andiamo al lavoro: io sulla poltrona verde vicino alla vecchia cassettiera che da bambina mi faceva da comodino, il computer sulle ginocchia, una bottiglia d’acqua, il telefonino in carica. Mio marito invade la sala da pranzo, libri e dizionari sparpagliati sul tavolo dove di solito mangiamo. Capita che, a seconda delle giornate, ci scambiamo la postazione, ed è come se seguissimo le regole dello smart working, anche se dello smart working non ce n’è mai importato granché. Qualche appunto finisce tra i documenti l’uno dell’altra, ma va bene lo stesso: sono imprevisti che movimentano la mattinata. Nostra figlia, invece, va in classe con i compiti assegnati per la giornata: in camera sua, sdraiata sul tappeto o alla scrivania; a volte, in cucina; a volte, buttata sul nostro letto. Quando le scrivo su un foglio l’elenco di quello che dovrà fare mentre noi lavoriamo, ho un brivido di piacere: mi sento Leslie Stephen con sua figlia Virginia (Woolf) nella grande casa di Hyde Park Gate, o Patrick Brontë con le sue tre figlie nello Yorkshire. La vanagloria aiuta a non sentirsi topi in trappola. O forse il coronavirus è una buona giustificazione per la mitomania.

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La mattina la sveglia suona alle 7.45, mezz’ora dopo il solito orario, ma di questo ne siamo felici. Dopo colazione noi adulti andiamo al lavoro: io sulla poltrona verde vicino alla vecchia cassettiera che da bambina mi faceva da comodino, il computer sulle ginocchia, una bottiglia d’acqua, il telefonino in carica. Mio marito invade la sala da pranzo, libri e dizionari sparpagliati sul tavolo dove di solito mangiamo. Capita che, a seconda delle giornate, ci scambiamo la postazione, ed è come se seguissimo le regole dello smart working, anche se dello smart working non ce n’è mai importato granché. Qualche appunto finisce tra i documenti l’uno dell’altra, ma va bene lo stesso: sono imprevisti che movimentano la mattinata. Nostra figlia, invece, va in classe con i compiti assegnati per la giornata: in camera sua, sdraiata sul tappeto o alla scrivania; a volte, in cucina; a volte, buttata sul nostro letto. Quando le scrivo su un foglio l’elenco di quello che dovrà fare mentre noi lavoriamo, ho un brivido di piacere: mi sento Leslie Stephen con sua figlia Virginia (Woolf) nella grande casa di Hyde Park Gate, o Patrick Brontë con le sue tre figlie nello Yorkshire. La vanagloria aiuta a non sentirsi topi in trappola. O forse il coronavirus è una buona giustificazione per la mitomania.

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Ho la ricrescita, ma andrò dal parrucchiere solo quando inizierò a somigliare alla Befana; o forse no, non ci andrò, imparerò a tingerli a casa. Improvvisamente vorrei organizzare una gita a Cremona e Lodi che sono a pochi chilometri da Milano, ma che conosco pochissimo

Al pomeriggio c’è stata una riunione (telematica) sul divano; a seguire un piccolo concerto, chitarra e voce, tra il corridoio e l’anticamera: camminare, fare finta di scontrarsi con altre persone, guardarsi allo specchio e cantare “Pablo è vivo!”, sperando che nessuno ci spii dalla finestra e chiami il 113 (tanto il 113 è intasato, quindi fate quello che vi pare). Prima di cena, verso le 19, tappetini stesi per terra di fianco al letto: una lezione di yoga per fare finta di bruciare qualche caloria, di compensare la sedentarietà coatta. Insomma, noi ci proviamo: ci proviamo a mantenere la normalità o un suo facsimile.

 

Nella casella di posta ho ricevuto decine di mail: i corsi d’inglese sono sospesi per un po’; così la piscina, la palestra, ovviamente la scuola e anche l’università dove lavora mio marito. Tutto per limitare la diffusione del virus, il contagio. Ma un contagio è già in circolo quasi per tutti: lo spazio si restringe, il mondo in cui viviamo è più piccolo, i luoghi di casa si contaminano gli uni con gli altri e vengono contaminati da altri luoghi esterni che altrimenti non sarebbero mai entrati tra le nostre quattro mura. Stasera improvvisiamo una discoteca, noi tre in salotto, che ne dite?

 

Il mondo che sto vivendo in questo momento è più piccolo e inevitabilmente ci sono molte cose che non posso più fare, perché violerei le nuove norme di sicurezza. Mi osservo le dita mentre scrivo, scuoto la testa: eh no, niente manicure. Ho la ricrescita, ma andrò dal parrucchiere solo quando inizierò a somigliare alla Befana; o forse no, non ci andrò, imparerò a tingerli a casa. Niente massaggi; anche se i massaggi non li ho quasi mai fatti, ma adesso me ne è venuta voglia. Niente bagno turco, spa, terme (d’accordo, non ci vado mai perché appena vedo tutto quell’umido, una vocina nella mia testa inizia a ripetere allarmata Micosi! Micosi! Eppure, adesso, non poterci andare, anche solo per scappare senza neanche spogliarmi, mi sta sulle scatole). Improvvisamente vorrei organizzare una gita a Cremona e Lodi che sono a pochi chilometri da Milano, ma che conosco pochissimo. E poi sogno ravioli al vapore, spaghetti di soia, anatre all’arancia; sogno ristoranti pieni gente, aperitivi a buffet, tavolate di quaranta persone, matrimoni, battesimi, anniversari, persino funerali.

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Mia nonna mi raccontava di quando erano sfollati a Cairo Montenotte in Liguria. Il loro giardino confinava con quello di un convento. Il muro di cinta era alto e bianco, non si vedeva quello che c’era dall’altra parte. Mia madre e le sue sorelle fantasticavano su enormi alberi da frutto, su pomodori grossi come cocomeri, su conigli arrosto, su torte di mele e confetture rosa in barattoli di vetro. Riuscire a vedere cosa ci fosse in quel giardino era l’impresa di ogni pomeriggio; l’impresa era anche solo immaginare cosa ci potesse essere, partendo dall’unico indizio di un fico che sconfinava affacciandosi sui loro pomeriggi di bambine. Le proibizioni se non altro, stimolano la fantasia, sono un motore letterario.

 

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Che dici, vado a prendere un caffè con Gabriella? Organizziamo una cena da noi? Scrivo a Ilaria di passare con il cane? In questi quindici giorni c’è stata una contaminazione diversa, meno visibile di quella degli spazi. E’ quella del dubbio continuo e dell’incertezza come se uno degli effetti del coronavirus fosse soprattutto quello di mettere a nudo la natura precaria di questi tempi difficili. A gennaio, prima che scoppiasse l’emergenza, ho riletto La strada di Cormac McCarthy. ”Passò in rassegna le scatolette, scuotendole, stringendole forte in mano… Pensò che da qualche parte nella stiva dovevano senz’altro esserci intere casse di viveri, ma che probabilmente ormai non c’era più nulla di commestibile. E comunque con il carrello potevano trasportare solo una certa quantità di roba. Gli venne da pensare che stava accogliendo quella manna dal cielo con un atteggiamento che sfiorava pericolosamente il distacco, ma ancora una volta si ripeté quello che già si era detto in precedenza. Che la fortuna poteva anche non essere tale“. Il mondo grigio alla fine, l’apocalisse, l’odissea di un padre e di suo figlio; la fortuna che potrebbe essere un inciampo. Ora mi chiedo se non fosse una preparazione a tutto questo, una specie di corso propedeutico.

 

Seguo le notizie e immediatamente mi alzo, passo sulle mani il disinfettante, anche se ne metto sempre troppo e le dita poi si appiccicano le une alle altre. Chiedo a mia figlia di fare lo stesso, poi lo ricordo a mio marito. Se lo spazzolino cade a terra l’esclamazione è lunga e lamentosa, segue un’imprecazione. I lavaggi della lavastoviglie sono saliti a 2,5 al giorno. Nelle pause dal lavoro ho pulito la cappa, ho disinfettato la lavatrice, ho passato lo sgrassatore alla candeggina sul tavolo almeno una decina di volte. Mio marito mi ha appoggiato entrambe le mani sulle spalle: “Sono preoccupato”, ha detto. Anch’io, avrei voluto rispondere. Dopo la chiusura della Lombardia siamo quasi barricati in casa, fatta eccezione per la spesa da comprare e una passeggiata solitaria. Fino a pochi giorni fa però siamo stati preda della contraddizione continua. Me ne stavo tra le quattro mura per ventiquattro ore, poi cambiavo idea: non avevo più paura, diventavo spavalda. La sera prima dell’interruzione delle scuole, il 23 febbraio, sono andata a una festa di compleanno, eravamo una ventina di persone, la nostra voglia di divertirci quasi intatta, la preoccupazione ancora frenata da un mezzo sorriso. E’ un’esagerazione, ha detto un avvocato sul balcone, fumando una sigaretta. Una specie di psicosi collettiva, ho ribattuto io. Intanto la mamma con il bambino a casa malato mi tirava occhiate piene di dubbio, occhiate che in fondo condividevo.

 

Ogni presa di posizione è transitoria. Transitorio l’umore, la preoccupazione, la voglia di vedere gli altri, abbracciarli, dire vi voglio bene, non ve lo dico mai, ma invece è così. Anche se nell’incertezza, nella transitorietà dell’umore ci viviamo da un po’ e per molte ragioni, tutte diverse da quelle legate all’epidemia

Sono andata a bere un caffè con un’amica che è venuta a Milano per la settimana della moda. Giorni dopo nello stesso bar ho rivisto una persona dopo anni: ci siamo mandate qualche messaggio whatsapp dopo esserci incontrate velocemente alla presentazione di un libro (quando ancora si facevano le presentazioni dei libri); ci era venuta voglia di stare un po’ insieme, così ci siamo ritrovate in piena emergenza sanitaria un po’ come due passeggeri che finalmente si incrociano sul ponte del Titanic. La settimana successiva, abbiamo organizzato una cena qui a casa per gli amici, sono venute persino due persone aggiunte all’ultimo. Tra vino, gorgonzola e polpette, qualcuno ha tossito e io l’ho guardato malissimo. Tutto bene? Sì, certo figurati, perché? Al mattino mi sono svegliata di cattivo umore: mi sentivo tutti i sintomi della malattia. Poi però sono uscita per fare la spesa, ho scherzato con il fruttivendolo, gli ho dato pure una pacca sulla spalla quando mi ha detto: gli asparagi non te li do, costano una fucilata. Una settimana fa siamo andati a scuola a ritirare i libri lasciati in classe, non si poteva neanche entrare nel portone: un bidello consegnava i testi dentro dei sacchetti. Sapevamo già che per un po’ saremmo stati noi gli insegnanti di nostra figlia, anche se nessuno ne ha molta voglia. Eppure, nel frattempo abbiamo deciso di prenotare per sabato un ristorante che ci piaceva; così tanto per non pensare e vedere qualche amico. Chiedi il tavolo nella saletta, ho detto a mio marito. Perché? Così siamo solo noi, ho risposto. Sabato mattina avevamo già cambiato idea. Gli amici, anche. Il giorno dopo chiudevano la Lombardia.

 

Ogni presa di posizione è transitoria. Transitorio l’umore, la preoccupazione, la voglia di vedere gli altri, abbracciarli, dire vi voglio bene, non ve lo dico mai, ma invece è così. Stringiamoci un po’, facciamo festa, non pensiamo più a niente. Pare che qualcuno lasci post it anonimi attaccati a muri, ai portoni, agli alberi, alle serrande dei negozi, ai cartelli stradali; e non solo a Milano, ma anche a Bergamo e in molte cittadine dell’hinterland. tutto andrà bene!, c’è scritto. Levante già nel 2019 cantava Andrà tutto bene e sembrava rispondere a Brunori Sas: “Ma vedrai che andrà bene/ Andrà tutto bene / Tu devi solo metterti a camminare/ Raggiungere la cima di montagne nuove” (Al di là dell’amore). Come se fosse da tanto tempo, da prima del coronavirus, che avevamo bisogno di rassicurazioni, di fermare le vibrazioni del dubbio. Perché nell’incertezza, nella transitorietà dell’umore ci viviamo da un po’ e per molte ragioni, tutte diverse da quelle legate all’epidemia.

 

E se lo spazio si restringe, il tempo – che ora si muove lento e magmatico – ha alzato un muro, un confine netto con tutto quello che precede il contagio. L’ultima vacanza, quella di Capodanno, sembra appartenere a un’altra èra, come se invece di due mesi fossero passati anni e come se dovessimo imparare a maneggiare questo procedere nuovo che ci è stato consegnato.

 

L’altro giorno, ripensando a tutto quello che non posso fare, mi è venuta voglia di imparare la salsa. Un ballo a due con scambio continuo di partner in una grande sala da ballo (il bancone che serve solo gin tonic, la luce stroboscopica, le sedie appoggiate al muro per chi vuole fermarsi a riprendere fiato). Anche se mi è sempre piaciuto ballare da sola, ora mi sembra di aver cambiato idea. A gennaio, durante una cena, un amico insospettabile si è dichiarato ballerino provetto. Ricordo di averlo preso in giro, di aver fatto della facile ironia. Invece eccomi qui: con Spotify collegato a una playlist latina. Se gli spazi si contaminano, si contaminano pure le abitudini (e i tic). Sto scrivendo la biografia di Orso Bianco, dice mia figlia battendo sui tasti di un vecchio computer come se avesse una consegna con un editore (pare che ineffabile orso di peluche abbia avuto una vita che nemmeno Sandokan). Mio marito adesso usa anche lui lo sgrassatore alla candeggina e io cerco di intonare quegli stornelli romani un po’ d’antan che a lui piacciono tanto e che gli ricordano la sua città. Allora mi dico che se non possiamo uscire, se un vetro ci divide dagli altri, se ogni abbraccio è destinato a essere censurato, se non possiamo frenare il virus, così come non siamo capaci di trovare un’alternativa valida al sistema capitalistico o un rimedio al surriscaldamento del pianeta, forse, ci possiamo inventare una nuova socialità. E, forse, se tra le mail di sospensione di attività ci sono quelle dolorosissime dei festival culturali programmati in tutta Italia, magari possiamo prendere questi festival, le loro intenzioni, i loro programmi, e contaminarli gli uni con gli altri, facendone un unico, grandissimo festival online, con incontri virtuali e continui scambi di idee: abbracci della mente e del pensiero. Anche se sì, certo: non è lo stesso che avere un pubblico, non è lo stesso che vedersi di persona e poi andare a cena, non è lo stesso che trovarsi in una delle tante città d’arte italiane, non è lo stesso che respirare la cultura en plein air. Ma, certo, è meglio di niente. Dobbiamo uscire il meno possibile, mantenere due metri di distanza dagli altri, lavarci le mani, disinfettare telefoni e tastiere del computer, trasformarci in fobici della pulizia. Ma possiamo anche favorire le contaminazioni positive. E immaginare un nuovo domani.

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