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Disciplinare la ripresa, vasto programma

Giuliano Ferrara

Ci sono società in cui una semiquarantena è di rigore da sempre. Da noi lo sconfinamento reggerà solo se la disciplina è quella del senso comune. Spero che ce la si faccia, ma vedo tutto il grottesco della moltiplicazione di regole e avvisi

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Disciplinare la ripresa è un compito pubblico quasi impossibile, almeno nei paesi latini. Se è vietato fumare, se ce lo si vieta assolutamente, va bene, ci si adegua, magari con sforzo, ma se bisogna ridurre il numero delle sigarette è un casino, la volontà si intorcina nella dipendenza, nel gusto, nel desiderio libero di manifestarsi e deluso della benché minima insoddisfazione. La disciplina del tutto o niente, il ritorno hopperiano alla malinconia solitaria urbana, quella che Hughes chiamava la frontiera interiore di una certa umanità del Novecento, si è rivelato un carattere sottotraccia anche di noi i più futili, i più goderecci, i più sociali. Diverso è distanziarsi in una fila per i bus o per il ristorante o per l’ombrellone, e poi restare distanti in modo eloquente per il virus che contagia e affratella, diverso è dimostrare ogni giorno, con adesione graduale a regole difficili da interpretare, che in fondo salutarsi, toccarsi, avvicinarsi, parlarsi cordialmente, chiedere una informazione al conduttore, sbattere gli uni contro gli altri è qualcosa che si può surrogare con altro.

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Disciplinare la ripresa è un compito pubblico quasi impossibile, almeno nei paesi latini. Se è vietato fumare, se ce lo si vieta assolutamente, va bene, ci si adegua, magari con sforzo, ma se bisogna ridurre il numero delle sigarette è un casino, la volontà si intorcina nella dipendenza, nel gusto, nel desiderio libero di manifestarsi e deluso della benché minima insoddisfazione. La disciplina del tutto o niente, il ritorno hopperiano alla malinconia solitaria urbana, quella che Hughes chiamava la frontiera interiore di una certa umanità del Novecento, si è rivelato un carattere sottotraccia anche di noi i più futili, i più goderecci, i più sociali. Diverso è distanziarsi in una fila per i bus o per il ristorante o per l’ombrellone, e poi restare distanti in modo eloquente per il virus che contagia e affratella, diverso è dimostrare ogni giorno, con adesione graduale a regole difficili da interpretare, che in fondo salutarsi, toccarsi, avvicinarsi, parlarsi cordialmente, chiedere una informazione al conduttore, sbattere gli uni contro gli altri è qualcosa che si può surrogare con altro.

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Ci sono società in cui una semiquarantena è di rigore da sempre. Ricordo certi caffè del lago Lemano, da ragazzo, che mi facevano una tremenda impressione: voci soffuse, contatti inesistenti, distanziamento naturale, tavolini vicini che sembravano lontani, controllo perfetto dei riflessi, delle relazioni con il personale, insomma una conferma della desolazione poetica (“On the borders of Leman I sat down and wept”). Ma come si farà dal panettiere, dal barbiere, dal calzolaio, intorno all’edicola domenicale, davanti ai sagrati delle parrocchie, nelle piazze di gioco e vanità per adulti e bambini, tra le carni, le verdure, i tabacchi, nel davanzale di strada dell’artigiano, al parco sulle panchine. Da confinati, ce la siamo cavata in farmacia e tra gli scaffali dei supermercati, e stoccando quantità di tabacco tutte in una volta, ma lo sconfinamento reggerà solo se la disciplina è quella del senso comune. Quella del timore per sé e per gli altri. Un timordiddio che fonda la comunità anche nei comportamenti privati e rende rituale e individuale ciò che generalmente, cappuccino e cornetto, è spontaneo, naturale, collettivo.

 

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Abbiamo sempre sfottuto gli inglesi dicendo che sono quel popolo che se poco poco vede formarsi una fila, si mette in coda, e noi italiani che di file ce ne intendiamo così così, da sempre inclini agli assembramenti, ora dovremmo imitarli. Spero che ce la si faccia, ma vedo tutto il grottesco della moltiplicazione di regole e avvisi, perché da carcerati in licenza semilibera era possibile rendere ad essi l’omaggio del minimo spazio di libertà concesso, ma da liberi è critico considerarli una regolamentazione della nostra arieggiata e ritrovata capacità di movimento. Bisogna che il senso comune supplisca, e sarà se accade un’altra grande conquista. L’ombrellone diradato verrà poi, il governo dei bambini scalmanati seguirà, e ci sarà il momento dell’aperitivo e del pranzo composti, colazioni a sacco praticamente, per nuclei affini e testati, senza tanti scambi di amabilità, diffidente cortesia verso chi serve in tavola o sta alla cassa, tante mascherine e un gran senso di oppressione sotto l’ombra mediterranea come si stesse su una larga e lunga spiaggia piatta di Rostock, incassati in quelle sdraio a righe coupé a protezione da un vento che non c’è. Che afa respireremo.

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