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I venti del nuovo decennio

Michele Masneri

Innovazione, cibo, cinema, arte, diplomazia. Tanto Instagram e poca politica. Una pazza lista di venti italiani e italiane “under 50” da tenere d’occhio nell’anno appena cominciato

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Se fossimo un mondo migliore sarebbe una classifica di under 40 o addirittura 30, un listone da Vanity Fair americano presentato in una grande serata con tappeto rosso, ma qua tocca accontentarsi: essendo quel paese in cui “l’importante è arrivare a settant’anni con le analisi e la glicemia a posto, e poi la via del successo è tutta in discesa”, come sostiene qualcuno, ecco, già mangiati, una lista non necessariamente glamour di 20 giovanissimi per il 2020. Venti under 50 “da tenere d’occhio” nell’anno nuovo (come si diceva in quelle belle guide nere con filettatura oro degli anni Ottanta di Capital). Nel paese (aridaje) cronicamente scarso di classe dirigente, ecco dunque venti “personalità” che un po’ per scherzo, un po’ sul serio, potrebbero dare un contributo (ma in tanti casi lo stanno già dando). Innovazione, cibo, cinema, arte, diplomazia, pochissima politica, tanto Instagram, donne il più possibile: un po’ di classe dirigente di prima categoria, personaggi a volte celebri a volte po- co famosi fuori dalle rispettive bolle. Riserve forse della Repubblica, per ricambi anche futuri, per guardare con un po’ di ottimismo al futuro; ecco il listone, vabbè, buon anno.

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Davide Dattoli (1990)

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E’ la versione migliorata e corretta del WeWork americano, però made in Brescia. Col suo Talent Garden ha aperto spazi di coworking in tutta Europa (e forse presto anche negli Stati Uniti). Già nominato tra i 30 under 30 globali di massima influenza da Forbes, unisce la modestia manzoniana di un Martinazzoli con la furia futurista siliconvallica di un Mark Zuckerberg. A differenza del suo omologo americano Adam Neumann, fondatore di WeWork, che ha mandato all’aria l’azienda per togliersi un sacco di sfizi, Dattoli non beve, non fuma, mangia pochissimo, pur venendo da una famiglia di ristoratori. Quando non è su qualche aereo (low cost) diretto a inaugurare l’ennesimo “Tag”, come gli ultimi di Roma Ostiense o di Vilnius in Lituania, da bravo bresciano coltiva il basso profilo, e impone ai suoi cari vacanze defatiganti su micidiali colli e montagne. Come Zuckerberg si è regalato, per un compleanno, un viaggio in tutti i 50 stati americani. Ha un impressionante network internazionale di relazioni che va da John Elkann alla politica romana alla Silicon Valley. A ottobre ha coordinato i lavori dell’“Italy/Usa Innovation Forum”, l’evento promosso all’Università di Stanford in occasione della visita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E’ ossessionato dalla questione del ricambio generazionale, e della scuola. Sarebbe un bellissimo premier italiano 2020, anche o forse proprio perché non ha l’età.

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Imen Boulahrajane (1995)

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Influencer riflessiva. Nota soprattutto per il suo nome social, Imen Jane, con cui irrora ogni giorno pillole di economia ai duecentomila followers su Instagram, è l’economista che piace ai millennial anzi alla generazione z, insomma quella di Greta e delle sardine, ma anche al più anziano ministro dell’Economia Gualtieri, che la vorrebbe a lavorare a via Venti Settembre. Lei non ci pensa neanche, dice al Foglio, perché sta per lanciare “una startup”, “un progetto editoriale, infotainment sviluppato solo su piattaforma social”, insomma la prosecuzione del suo Instagram con altri mezzi. Perché lei dal suo account spiega materie micidiali da boomers – la Finanziaria, la Brexit, il deficit e il pil – al popolo che ha abiurato i giornali come orrendi manufatti radioattivi. Sul suo Instagram le chiedono “scusa Imen, mi sai dire cos’è la Corte costituzionale?”, e lei con i suoi spiegoni 2.0 risponde, riposta, decolla. Ma è una star anche offline, dai grattacieli delle startup milanesi alla vecchia assemblea di Confindustria a Roma. Dove posta: “Confindustria, Carbonara e Cottarelli, la mia giornata perfetta”. Tutto è nato da sua sorella, che “non legge i giornali e che si informa sui social”, spiega Imen, e dall’anno scorso, quando per il decennale della crisi Lehman ha cominciato a ricostruire cos’era successo, in storie da quindici secondi che hanno fatto il botto. “Non è che non c’è più voglia di giornalismo, anzi. Vedo molta rassegnazione in giro, ma è come se dicessimo che la gente non si veste più. No, la gente ha sempre bisogno di vestiti, ma nessuno se li cuce più a casa, e dunque sarebbe folle buttarsi oggi nel business delle macchine da cucire. Va cambiato supporto, e approccio”. E per cambiare non intendo che bisogna fare i gattini. Semplicemente va trovato un nuovo format”. Così insieme a un cofounder, Alessandro Tommasi, ex manager di Airbnb, sta per lanciare il suo progetto, ispirato a Ian Bremmer, autore di culto americano, “una persona incredibilmente autorevole che però sa essere anche incredibilmente spigliata. Puoi dire cose interessanti, e non per questo devi far cadere la gente addormentata ai convegni”.

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Lorenzo Ortona (1976)

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Console generale d’Italia a San Francisco. Già all’Ue e in Israele, è uno dei rappresentanti della “nuova” Farnesina, a suo agio tra i founders più scatenati della Silicon Valley come nei contesti politici più paludati. E’ il regista molto silenzioso che ha coadiuvato l’ambasciatore Varricchio nella recente visita di Mattarella in Silicon Valley (erano quarant’anni che un presidente della Repubblica italiana non metteva piede nel più ricco e popoloso stato americano). Pur provenendo da una delle più illustri dinastie degli Esteri – suo nonno Egidio, ambasciatore a Washington, fu uno degli italiani che ristabilirono le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti nel dopoguerra – da giovane aveva altri programmi, ma poi ha ceduto al richiamo della feluca. Ora si sta battendo per l’apertura a San Francisco di un centro per le startup italiane, anche con astuto soft power (spesso cucina personalmente per ospiti come il fondatore di Twitter Jack Dorsey). Bonus: l’adorabile moglie, la newyorchese giornalista Sheila Pierce.

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Claudio Monteverde (1980)

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Tecnologico. Da novembre è capo della comunicazione globale di Gucci, ma viene dal mondo delle telecomunicazioni. E’ stato infatti in Vodafone, dove si occupava dell’ufficio stampa italiano e poi a Google: dove negli ultimi otto anni si è occupato di comunicazione per il Sud Europa. E’ un bocconiano e uno yogi convinto.

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L’Estetista cinica (1974)

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Nome d’arte di Cristina Fogazzi, quarantacinque anni, probabilmente sconosciuta ai più ma non al mercato: col suo marchio Veralab fa “ventuno milioni di fatturato solo online, ma il mio obiettivo è venticinque”. Vende creme e saponi, tutto col suo logo, tutto soprattutto online, con trenta dipendenti e trentamila spedizioni al mese. Fogazzi arriva dalla non ridente Sarezzo, centro della produttiva Valcamonica. Dopo un diploma al liceo classico è diventata un’influencer riluttante, famiglia operaia, un anno a Lettere, e poi ha cominciato col centro estetico, ma tutto inizia perché cerca di introdurre nella retorica estetistica un po’ di ironia. “Un rimedio immediato contro la cellulite?”, si chiede sul suo sito. “Chiama la fata madrina”; “noi estetiste parliamo di cellulite e rughe, per fortuna, e non di malattie, quindi va bene essere competenti e preparate, ma bisogna anche essere leggere, perché per fortuna di cellulite, rughe e peli superflui non si muore e la nostra vita è già talmente infarcita di questioni serie che almeno sull’estetica spero ci possiamo permettere di scherzare”. Con Instagram le spedizioni passano da 30 a 30.000 l’anno, e il fatturato totale da 30 mila a 30 milioni (un numero da media impresa, da imprenditori riuniti a Capri, anche se nel mondo anziano analogico pochi la conoscono). Manda pacchi di prodotti agli influencer famosi che poi la ripostano, e ha inventato una maglietta con scritto “Who the fuck is Estetista Cinica”, che ha impazzato per Milano. “Basta copiare gli altri. La maglietta era copiata da Keith Richards (Who the fuck is Mick Jagger) e il mandare pacchi lo fanno quelli “grossi”, come Netflix che ti manda il mug o il cappellino per pubblicizzare le sue cose”. Insomma gli influencer lei li usa: “Pensare che oggi si possa fare a meno di loro è come negli anni Ottanta non capire il potenziale della pubblicità in tv”.

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Jannik Sinner (2001)

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Promessa alpina. E’ il più giovane tennista italiano della storia ad aver vinto un torneo Challenger. Mamma cameriera, papà cuoco, è cresciuto come in una fiaba tra le montagne. Giustamente a 13 anni era già campione italiano di slalom gigante. Nel frattempo, però, si appassiona a quello che all’inizio è solo un hobby, il tennis. Poi lascia lo sci, pare perché fosse troppo pericoloso, e l’hobby diventa così il centro della sua vita. Agli Internazionali Bnl d’Italia ha conquistato la prima vittoria in una main draw Masters 1000 battendo Steve Johnson.

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Massimo Lapucci (1969)

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La finanza dal volto umano. E’ il più grande di questa lista e sforerebbe un po’ i termini, ma si chiude un occhio. Laurea in Economia e commercio alla Sapienza di Roma, poi London Business School e Yale. Inizio carriera alla Ernst&Young per poi passare, tra le tappe più importanti, alle Ferrovie dello Stato dove è il gran capo della finanza. L’ultima incarnazione è quella di segretario generale della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino (Crt) che lo porta a capo dello European Foundation Centre (Efc), il centro europeo della filantropia con base a Bruxelles. Ma non ci sono solo le opere buone: ci sono anche le Ogr, di cui Lapucci è direttore generale. La realtà più interessante di Torino, ex officine di riparazione dei treni che oggi, sull’esempio di Station F a Parigi, diventano incubatore per le startup più tecnologiche. Insieme a un epicentro di dibattiti, incontri, arte, eventi, cibo, socialità, come si è visto durante l’ultima Artissima.

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Daniele Ferrero (1970)

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L’uomo del cioccolato. Nato a Milano, laureato a Cambridge, inizia la sua carriera a McKinsey a Londra. Ma da due anni è il responsabile del rilancio della Venchi, celebre azienda italiana del cioccolato (i più arbasiniani ricorderanno il cacao Due Vecchi). Il marchio decotto, comprato all’asta fallimentare e tirato a lucido è ora presente in tutte le stazioni e aeroporti italiani e internazionali. Ecco così che nel 2018, in coincidenza con i 140 anni del marchio fondato nel 1878, l’Italia è invasa di punti vendita Venchi: da Porta Nuova a Milano alla stazione Termini all’aeroporto di Fiumicino: punti vendita che siano “la quintessenza del Made in Italy”, ha detto (in effetti, a Porta Nuova il negozio Venchi sta vicino a quello di Chiara Ferragni). “Con un’idea in più: oltre al cioccolato, offrire anche il gelato artigianale, per allungare la stagionalità dei prodotti e aggiungere un altro forte connotato di italianità, riconoscibile soprattutto all’estero”. Oggi i monomarca Venchi sono 88, di cui 47 in Italia, e l’obiettivo è arrivare a 100 milioni di fatturato annuo e un giorno andare in Borsa. L’ispirazione è stata la belga Godiva, nata come pasticceria artigianale e diventata gigante del cioccolato di qualità. I modelli imprenditoriali di Ferrero invece sono Gianluigi Aponte, l’armatore di MSC Crociere, dove ha fatto uno stage a diciott’anni, e naturalmente Oscar Farinetti, il fondatore di Eataly di cui è seguace; “ci ha aperto gli occhi sul made in Italy”, ha detto. Bonus: non ha nessuna parentela con i celebri Ferrero della Nutella.

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Irene Graziosi (1991)

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Agitatrice e instagrammatrice culturale, è autrice di “Venti”, canale YouTube e format che sta agli anni Venti come “Avere vent’anni” stava ai 2000 (scusate la confusione lessicale), condotto da Sofia Viscardi (se questi nomi non vi dicono niente, probabilmente non siete di Milano o siete vecchi). Ha collaborato con Vice producendo contenuti sia scritti che video e conducendo documentari, tra cui la serie sulla sessualità “La prima volta”. Ora fa anche un po’ la dj. Bonus perché è una romana che lotta a Milano.

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Leone Lucia Ferragni (2018)

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Il royal baby d’Italia. L’unico bambino che il paese vede crescere sotto i suoi occhi in un reality show continuo e infinito è l’arma finale dei coniugi Fedez. In un paese privo di nascite e a invecchiamento precoce, loro offrono gratuitamente agli spettatori lo spettacolo di un bebè bellissimo, con riccioli biondi e occhi azzurri, che pare il principe di una Casa reale forse nordica, e si sposta senza saluti al balcone ma sempre felice e sorridente. Non conosce tristezza. A Los Angeles, a Milano, a Cremona, ai giardinetti, a Madonna di Campiglio, negli Emirati (come in questi giorni, con tutta la truppa Ferragni sempre insieme tra località sciistiche e balneari, sempre taggata in resort “di sogno”, sempre con tutta la famiglia insieme, sorelle, cognati, il nonno dentista, la temibile nonna scrittrice giallista Marina Di Guardo, nei cui occhi brilla una luce inquietante, la luce soddisfatta di chi ha realizzato un disegno, una Middleton cremonese, una Regina Vittoria dell’algoritmo, che fa sedere le sue figlie sui troni instagrammatici d’Europa. E cosa aspettano, ci si chiede, gli sceneggiatori, a mettere insieme un film o almeno un episodio su questo clan che si sposta di continuo in favore di iPhone, inseparabile come una “catena di affetti” (cfr. “Amici miei”)? Ci saranno gelosie, e preferenze, e questioni sulle suite? Prenderanno i resort in blocco, in piani, come i sovrani arabi? Avranno rivalità di followers? Di che parleranno? E quel bebè, il principino d’Italia, cosa farà da grande?

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Virginia Valsecchi (1993)

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Figlia della leggendaria coppia Pietro Valsecchi-Camilla Nesbitt, produttori di Checco Zalone e collezionisti d’arte scatenati, è esponente di quella genia millennial ferroviaria che vive sul Frecciarossa tra Milano a Roma. Ha poco più di vent’anni e ha prodotto “Made in Italy”, la serie sulla moda milanese, e pur potendo vivere da rich kid con massimo orizzonte esistenziale Ponza, si interessa invece di politica, si alza presto al mattino e legge persino i giornali cartacei. Bonus: ha un fidanzato simpatico.

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Lorenza Baroncelli (1981)

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Rigeneratrice. Braccio destro di Stefano Boeri alla Triennale milanese, è una romana esperta appunto di rigenerazione urbana, di cui è stata assessore a Mantova. Come si aggiustano le città è infatti la sua passione. “Il lavoro più bello del mondo. Non sei più l’architetto che decide se una cosa è bella o brutta ma la devi fare, scegli le persone per farla. Quando parli di urbanistica, di sognare di cambiare una città, parli di politica. Il lavoro di governo della città è un lavoro molto concreto, reale”. Ma un esempio di rigenerazione? “Mah, una cosa piccola, le Pescherie. Un edificio di Giulio Romano. Il comune non aveva i soldi per restaurarlo. Lo aveva messo in vendita a duecentomila euro. Duecentomila euro, ti rendi conto? Noi abbiamo prima bloccato la vendita, poi abbiamo cominciato ad aprirlo, facendolo conoscere alla cittadinanza. Poi l’abbiamo dato in concessione a una fondazione per trent’anni, e coi soldi della fondazione si pagano i restauri”. Giachetti quando era candidato sindaco a Roma contro la Raggi la voleva. “Ero stata nominata da Giachetti come assessore alla rigenerazione urbana nel 2016 in caso di vittoria”. Sei del Pd. “Non sono iscritta al partito, a nessun partito. Ovviamente sono una persona che ha la passione politica… Giachetti l’ho conosciuto quando ero a Mantova, mi chiamò, mi disse, vieni a prendere un caffè. Poi dopo qualche mese un altro caffè. Al terzo caffè gli dissi: ma che voi da me?”. Ma com’è Roma vista da Milano, dai fuorisaloni, dalle fuoriserie? “Triste. Abbandonata. Sono dieci anni che Roma è abbandonata, da Alemanno in poi”. Facciamo un gioco, trasformiamola in Milano. “Eh”. Beh, rigeneriamola, no? Non è il tuo mestiere? Se ce l’ha fatta Medellin, dove hai lavorato, ce la può fare pure Roma. La prima cosa. “Riattivare il meccanismo economico”. Eh, vabbè. Ma che vuol dire. “Riattivare il mercato immobiliare”. Ma come si fa. “Costruendo il dialogo con tanti attori economici”. Cioè, andando in giro a chieder soldi col valigino? “No, convincendo investitori a investire, dando garanzie, dare affidabilità a chi investe dei capitali che poi può costruire. Poi è un tema burocratico, semplificare le regole per costruire”. Eh, ma sempre costruire. Sei fissata. Sei una palazzinara. “Ma costruire vuol dire levare criminalità, fare sicurezza, fare bellezza”. “Come è successo a Milano, l’idea che ricostruire, modificare l’esistente, porta benefici a tutti”. A Roma ti dicono: eh, vabbè, ma qui ci guadagna qualcuno. “Poi è un tema burocratico, semplificare le regole per costruire, se vuoi rigenerare o se vuoi nuove costruzioni. A Milano per esempio hanno fatto un meccanismo per demolire le opere incompiute. Anche se solo hai fatto le fondamenta, viene considerata come se fosse un edificio vero e proprio. Sono riusciti a fare in modo che se hai un’opera incompiuta e la demolisci e ricostruisci hai diritto a un aumento di cubatura del trenta per cento. Se la demolisci e basta mantieni il permesso a costruire. Se non fai niente perdi il diritto a costruire”. “Mio padre ancora non ha capito bene che lavoro faccio. Dice: sei un architetto. Quando me lo disegni questo bagno?”.

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Ludovica Rampoldi (1979)

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Sceneggiatrice, ha scritto molto immaginario degli anni Dieci. Nel 2011, insieme con Gabriele Romagnoli, firma soggetto e sceneggiatura de “Il gioiellino”, diretto da Andrea Molaioli e ispirato al crac Parmalat. Nel 2014, “Il ragazzo invisibile”, regia di Gabriele Salvatores. Per la televisione, con Alessandro Fabbri e Stefano Sardo, ha creato soprattutto le serie Sky “1992” e “1993” e “1994”. Ha lavorato alla scrittura delle prime tre stagioni di “Gomorra” (con Stefano Bises, Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli) e nel 2019 a “Il traditore”, scritto con Marco Bellocchio, Valia Santella e Francesco Piccolo per la regia di Marco Bellocchio. E’ figlia di Guido, storico inviato di Repubblica.

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Chiara Rusconi (1973)

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Gallerista bresciana-globale, ha viaggiato, ha visto il mondo, poi ha deciso di tornare nella non glamour Brescia, dove è nata, e dove ha installato una delle gallerie più interessanti che si occupano d’arte contemporanea in Italia, “APalazzo”, tutto attaccato, nel leggendario palazzo Cigola-Fenaroli-Valotti.

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Francesco Vezzoli (1971)

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Il nostro artista più internazionale e intellettuale. Ha vissuto il mondo e l’America, poi è tornato a Milano quando ancora nessuno sano di mente ci voleva stare . E’ stato una star giovanissimo, adesso si appresta a diventare una specie di Gore Vidal italiano, se Gore Vidal fosse stato un artista figurativo. A Parigi ha appena inaugurato la mostra “Huysmans critico d’arte. Da Degas a Grünewald, sotto gli occhi di Francesco Vezzoli”, calandosi nella mente del più inaspettato critico culturale ottocentesco, Huysmans. Bonus: ha una passione per la tv generalista, e per “Il vedovo”, il film di Dino Risi del 1959 di cui sa le battute a memoria.

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Pasquale Salzano (1973)

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Appena lasciato il Qatar come ambasciatore, si appresta a diventare il capo delle relazioni internazionali della Cassa depositi e prestiti. E’ di Pomigliano d’Arco come il ministro Luigi Di Maio, che da sempre è indicato come suo grande sponsor e amico (talvolta anche come compagno di scuola, cosa che inorgoglisce molto l’ambasciatore, di dieci anni più grande).

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Luca Lo Pinto (1981)

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E’ il nuovo direttore del museo Macro, uno dei simboli dell’ascesa (e soprattutto caduta) dell’arte a Roma nell’ultimo ventennio. Lo Pinto ha appena vinto il concorso pubblico per dirigere il museo di via Mantova, sostituendo così il direttore uscente Eugenio de Finis. Il Macro, autobiografia dell’arte romana, nato nei gloriosi anni pregiubilari, cresciuto nei faticosi Duemila, in cerca d’identità nei Duemiladieci quasi venti. Diventato oltretutto “Macro Asilo”, secondo l’affascinante dicitura (non si sa se asilo nel senso di diritto o di scuola elementare) dell’èra de Finis, già fautore del Maam, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz. Insomma il confronto col passato non sarà particolarmente ansiogeno per Lo Pinto, che al momento si divide tra Roma e Vienna, dove fa parte del team curatoriale della Kunsthalle. Ma è soprattutto fondatore della rivista e casa editrice Nero, la boy band dell’arte che ha tenuto su il morale e il livello estetico della Capitale negli ultimi anni (bonus).

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Mirko Scarcella (1988)

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Dopo aver “inventato” Gianluca Vacchi, lo strategista instagrammatico più di successo d’Italia si è stabilito a Miami, da dove ingrandisce il suo impero con TikTok e con altri mezzi. Crea e gestisce “mostri”, celebrità dei social globali, dopo l’infanzia a Sesto San Giovanni, i genitori ambulanti, il tirocinio da commesso di Zara. Adesso ha appena lanciato la sua ultima fatica, “La Bibbia”, uno strano oggetto editoriale, tra libro d’arte e manuale di successo per giovani internettari, con foto di copertina di David Lachapelle che lo ritrae in mutande ricoperto di smile, e l’introduzione di Floyd Mayweather. Bonus: dopo di lui Gianluca Vacchi è tornato nel cono d’ombra.

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Cristina Segni (1976)

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Archistar riluttante. Di stanza in California, lavora allo studio Foster and Partners. E’ una romana trasferita a San Francisco, ha partecipato al design dell’Infinite Loop, il mammozzone circolare della Apple a Cupertino. E sì, è la nipote di un celebre presidente della Repubblica.

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Gabriele Bonci (1977)

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Pasta madre della Repubblica. Dopo aver illuminato la Capitale con i suoi supplì e le sue pizze, aver sfidato Milano col suo panettone (per l’occasione è anche dimagrito molto), essersi rifugiato nei boschi della Garfagnana per sperimentare cucina del territorio, tra bacche e licheni, per fortuna adesso è rinsavito ed è tornato alla civiltà, con un nuovo avamposto accanto alla sua storica forneria, in cui serve pollo fritto.

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