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Addio cancel culture

Simonetta Sciandivasci

Abbiamo passato The Terrible Ten ad aver paura degli hater. Invece sono pochi, e li metteremo in fuga

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Roma. Il decennio appena andato – The Terrible Ten l’hanno chiamato gli americani, fenomenali titolisti – lo abbiamo trascorso in buona, troppa parte a ruggire, o a temere i ruggiti degli altri, quelli che non vedevamo in faccia ma di cui sentivamo la voce. Gli hater, i leoni da tastiera, i troll. Ci è parso, sempre di più e sempre più spesso, che la legge del più forte fosse diventata la legge del più hater, di questi qua, e che oltre a essere garanzia di successo mediatico fosse diventata anche il principio di una possibile carta costituzionale mondiale. La cancel culture (sintesi per chi vive in un frigorifero: se sei impresentabile ti cancello) è nata per domare i ruggiti degli hater, le loro indignazioni facili, e dir loro che l’istanza era stata accolta, e avevano ragione se dicevano che Woody Allen era un animale, e quindi era bene che di lui si provasse a non far distribuire i nuovi film e a far dimenticare i vecchi, essendo stati tutti girati con dispendio di sangue di vergini. Abbiamo assistito al vilipendio di registi, comici, scrittori, direttori d’orchestra, geni assoluti, stupefacendoci di quanto numerosi fossero i forconi puntati contro di loro e di come quasi tutti non provassero neanche a reagire e decidessero di scomparire e aspettare che la furia passasse. La furia è passata? Un po'. Ma non conta tanto questo quanto il fatto che ci stiamo rendendo conto di aver fatto male i conti.

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Roma. Il decennio appena andato – The Terrible Ten l’hanno chiamato gli americani, fenomenali titolisti – lo abbiamo trascorso in buona, troppa parte a ruggire, o a temere i ruggiti degli altri, quelli che non vedevamo in faccia ma di cui sentivamo la voce. Gli hater, i leoni da tastiera, i troll. Ci è parso, sempre di più e sempre più spesso, che la legge del più forte fosse diventata la legge del più hater, di questi qua, e che oltre a essere garanzia di successo mediatico fosse diventata anche il principio di una possibile carta costituzionale mondiale. La cancel culture (sintesi per chi vive in un frigorifero: se sei impresentabile ti cancello) è nata per domare i ruggiti degli hater, le loro indignazioni facili, e dir loro che l’istanza era stata accolta, e avevano ragione se dicevano che Woody Allen era un animale, e quindi era bene che di lui si provasse a non far distribuire i nuovi film e a far dimenticare i vecchi, essendo stati tutti girati con dispendio di sangue di vergini. Abbiamo assistito al vilipendio di registi, comici, scrittori, direttori d’orchestra, geni assoluti, stupefacendoci di quanto numerosi fossero i forconi puntati contro di loro e di come quasi tutti non provassero neanche a reagire e decidessero di scomparire e aspettare che la furia passasse. La furia è passata? Un po'. Ma non conta tanto questo quanto il fatto che ci stiamo rendendo conto di aver fatto male i conti.

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Gli hater sembrano tanti e non lo sono, sembrano la maggioranza e non lo sono neanche per sogno, però lo sono sembrati perché urlavano, ingigantivano, dicevano cose così violente che le contavamo per dieci, a volte per cento – e forse era giusto o almeno inevitabile, non eravamo preparati a tanta rabbia, non potevamo che recepirla con esagerazione, allarmisti che siamo. Nei prossimi mesi, e anni, non saremo al riparo da questo schifo, naturalmente, ma è piuttosto probabile che questo schifo, una volta che avremo certificato che non è maggioranza, non sarà più condizionante. E scusate se il solo pensiero dominante è quello calcolante e le cose esistono se le nomini ma vivono se le nominano in tanti, in milioni di milioni. Quelli che al mattino si alzano e scrivono che Zalone è un razzista sconsiderato sembrano molti perché sono molto cretini. E anche se abbiamo iniziato l’anno inoltrandoci sconfortanti tweet (o articoli di giornale, ahia) che esprimevano il loro disappunto verso Zalone, non disperate. Michela Murgia, che ha ideato il fascistometro, ha cerchiato le firme degli articoli in prima pagina sui giornali per accusarli di sessismo, e che quindi prima di sedersi dalla parte opposta agli indignati ci pensa bene, sta con Zalone. Vorrà pure dire qualcosa, no? Vorrà pur dire che stiamo facendo un passo verso la riappropriazione del dire le cose che pensiamo fregandocene dei ruggiti che ci procaccerà. No?

 

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Usiamo un altro esempio. J.K. Rowling, una liberal nel cui limpido progressismo si specchierebbe Michelle Obama, qualche settimana fa è stata accusata di transfobia per aver osato manifestare convinto sostegno a Maya Forstater, licenziata dal centro studi del quale era dipendente per aver espresso più volte opinioni come “gli uomini non possono diventare donne” (Rowling ha efficacemente sintetizzato così: “Per lei il sesso esiste”). Faceva notare qualche giorno fa il Washington Post che Rowling, che per mesi si è scusata per aver fatto morire un personaggio di Harry Potter amato dai suoi lettori, stavolta, pur essendo stata travolta dagli insulti, non ha ceduto: non ha cancellato il tweet, non ha chiesto venia, non ha accettato inviti a trasmissioni in cui le sarebbe stato domandato di spiegarsi meglio. Si tratta di una signora che vive dei numeri di copie di libri che vende: se temesse la marea degli hater e gli effetti della cancel culture, correrebbe ai ripari. Dopotutto, con quello che ha guadagnato finora, se pure dovessero bruciare i suoi libri, potrebbe comunque non porsi il problema di come mettere insieme il pranzo con la cena finché campa. Se volete esser romantici, potete anche dare un’altra lettura: Rowling è una coraggiosa eroina.

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