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E se dagli imbruttiti ci salvassero i belli? Eccoli qui, gli splendidi Guaidó

Simonetta Sciandivasci

Il “cosa volete che ne sappiano delle sofferenze del popolo questi radical chic” è una piagante obiezione internazionale, e in un paese affamato come il Venezuela è qualcosa di parecchio più serio di un ritornello populista

Roma. In politica, la moglie del capo è una faccenda seria. Soprattutto se è bella, perché può essere la carta vincente (una delle carte vincenti). Scusate il sessismo, la frivolezza, la svalutazione intellettuale, la reificazione del corpo – sono la moglie del ministro! E facci vedere il tuo ministero! – eccetera, ma voi, signori, l’avete vista Fabiana Rosales? La moglie di quel Guaidó per il quale non si può non tifare non perché sia la sola alternativa possibile a Maduro, ma perché è la migliore alternativa possibile a Maduro (almeno finora, non è escluso che spunti fuori un altro Simón Bolívar, qui siamo ottimisti utopisti)? E’ bellissima. Zero Mariana Rodrìguez e molto Alexandria Ocasio-Cortez. Tutta occhi da madre e faccino da figlia al college; capelli lunghi lisci di quella liscezza francese per cui meno li pettini e più sono perfetti (e mai una piega, a parte qualche volta); incarnato da ventenne per sempre; guardaroba da ragazza di buona famiglia, niente di eccentrico a parte una cintura fucsia in combine con un orologio orribile. Bellissima sempre, incinta, dopo il parto, a due mesi dal parto, bellissima pure con l’herpes e col marito che porta l’apparecchio, bellissimo lo stesso, bellissimo anche lui perché è bellissima lei. Date un’occhiata al suo profilo Instagram: è un diario della bellezza di lei che si riflette in quella di lui e viceversa. Due belli speculari, come lo sono stati gli Obama, ma più raggiungibili di loro, più domestici, imperfetti. Scendono in piazza uno di fianco all’altra e non mano nella mano, impegnati come sono lei a stringere il cerchietto, il rosario, il pugno da portare al cuore e lui il telefono, il microfono, il megafono, il pugno da alzare in alto.

 

Angela Nocioni ha scritto su questo giornale che i leader dell’opposizione venezuelana (Leopoldo López e signora, più il suo vice, che è il nostro Guaidó, e signora, che è la nostra Rosales), hanno un’allure, un fare, un rimando iconografico nel quale è difficile che il popolo venezuelano, stremato com’è, s’identifichi. Ha ragione. Trump sostiene Guaidò e questo è un ostacolo grosso in un paese “fradicio di timori d’ingerenze yankee”. Fabiana Rosales ha molte foto in cui indossa un cappellino da yankee, dal quale esce una treccia da studentessa di Berkeley, però ne ha altrettante in cui va a messa, dai parenti brutti, dagli amici coi brufoli, alle manifestazioni di piazza, e senza un filo di trucco, di perle, di Winona Ryder, ed è vestita fast fashion, o casual, o male e basta. Il “cosa volete che ne sappiano delle sofferenze del popolo questi radical chic” è una piagante obiezione internazionale, e in un paese affamato come il Venezuela è qualcosa di parecchio più serio di un ritornello populista.

  

Tuttavia, i venezuelani sono affamati anche di felicità, come tutti (tranne gli europei, stando a Serotonina di Houellebecq: per noialtri non ci sono più le condizioni storiche per essere felici, saluti, fumate pure). Ha detto Rosales a El Mundo che quando suo marito ha giurato da presidente, ha visto molta gente così: euforica. Perché lui è un bravo ragazzo e lei una brava ragazza. Perché lui rischia la vita e lei anche e lo sanno entrambi e nonostante questo scendono in strada, a volte con la camicia e le maniche arrotolate da élite, altre con la t-shirt motivazionale, altre ancora con la canottiera macchiata di pappa. Uniti. Belli. Coraggiosi. I ragazzi che si amano. Come quelli delle poesie francesi o dei film di Hollywood, e che tutti, affamati o no, privilegiati o no, vorremmo che ci sposassero o almeno governassero. E smetteremo presto di vergognarci di desiderare che dagli imbruttiti ci salvino i belli.

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