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Cattivi Scienziati

Contro le classifiche di "eccellenza". La rivolta delle università negli Stati Uniti

Enrico Bucci

La facoltà di medicina della Washington University ha criticato, e non da sola, il sistema delle valutazioni in base al merito che spesso si trasformano in criteri discriminatori. In Italia non va meglio. E queste prime proteste sono una buona notizia anche per noi

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Il preside della facoltà di medicina della Washington university ha recentemente dichiarato: "... è ora di smettere di partecipare a un sistema che non serve ai nostri studenti o ai loro futuri pazienti".
A cosa si riferiva?

 

A una rivolta, una di quelle che, se avrà successo, potrà finalmente rimuovere uno degli ostacoli più stupidi che, pur con ottime intenzioni, sono stati posti sulla strada dello sviluppo scientifico e della formazione universitaria: l’inveterata ossessione per le classifiche numeriche, che dovrebbero essere in grado di stabilire quali siano le istituzioni e le persone più meritevoli all’interno del sistema accademico nazionale e internazionale.

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Il preside non è solo: la rivolta contro le stupide classifiche di “eccellenza”, basate su criteri numerici arbitrari e deformanti, coinvolge infatti già anche l'Università della Pennsylvania, Harvard, Stanford, Columbia e la Washington university di St. Louis, le cui medical school si sono recentemente mosse nella stessa direzione.

 

Né le scuole universitarie di medicina sono le uniche che negli Stati Uniti stanno apertamente rifiutandosi di partecipare agli “esercizi di valutazione”: lo scorso settembre, la Columbia University ha scelto di ritirarsi dalle classifiche universitarie.

 

Due mesi dopo, alcune facoltà di legge ne hanno seguito l’esempio: le scuole di giurisprudenza di Yale e di Harvard hanno annunciato che si sarebbero rifiutate di fornire dati a US News & World Report, e diverse scuole di giurisprudenza di ottimo livello hanno seguito il loro esempio. US News & World Report, utilizzando algoritmi che combinano per esempio punteggi da test standardizzati, donazioni ricevute da ex studenti e sondaggi di opinione, pubblica graduatorie annuali per i college universitari e le scuole di specializzazione in economia, giurisprudenza e medicina.

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Questo sistema, tipico degli Stati Uniti, soffre di alcuni problemi specifici – per esempio, incentiva le università a selezionare studenti provenienti da gruppi sociali ricchi, dato che potrebbero essere dei futuri donatori e così promuovere la scalata della classifica, e per lo stesso motivo seleziona chi già avuto precedenti vantaggi nella propria formazione, dato che è a maggior probabilità di futuro successo; in una parola, i criteri di merito apparentemente neutrali prescelti per costruire le classifiche si trasformano di fatto in strumenti di discriminazione a priori, in cui ciò che realmente conta per scalare le graduatorie è la selezione ottimale in ingresso, invece che il miglioramento reale del proprio operato.

 

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Si potrebbe pensare che il problema sia limitato agli Stati Uniti; purtroppo, come ben sanno coloro che sono oggi all’interno del sistema accademico italiano, l’ossessione per il ranking, con i soliti venti anni di ritardo, ha ben presto contagiato anche il nostro paese.

 

Assistiamo così alla pubblicazione continua di classifiche e graduatorie di dubbio significato reale e comunque problematiche dal punto di vista del loro utilizzo, ma più spesso ancora notiamo sulla stampa nazionale la discussione dettagliata del risultato ottenuto da questo o quell’ateneo in un certo specifico esercizio di valutaizone a cura di qualche ente straniero; peggio di tutto, abbiamo ormai da tempo introiettato all’interno della normale attività accademica e ministeriale gli esercizi di valutazione, utilizzati al fine di distribuire posti e risorse nonostante, ormai da anni, ne siano ben noti i limiti e le ridicole deformazioni che inducono.

 

Le critiche, in Italia, hanno sin qui sortito solo un continuo rappezzamento dei criteri di valutazione, in primis di quelli di costosi enti finanziati allo scopo come Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), con l’introduzione di regole sempre più barocche e imperscrutabili e l’allargamento progressivo della valutazione a settori sempre più ampi del nostro sistema pubblico della ricerca e della formazione; e la cosa è così sfuggita di mano che, per fare un esempio, differenti esercizi di valutazione della stessa agenzia producono risultati opposti per gli stessi enti valutati, senza contare gli effetti in termini di aumento di frodi e plagi causati dal fatto che si utilizzano gli indicatori bibliometrici per la valutazione

 

È per questo che l’inizio della rivolta negli Stati Uniti a questa ossessione valutativa, a quella malattia burocratica che sta uccidendo l’università, è una buona notizia anche per noi: se tutto va bene, fra una decina d’anni si invertirà la tendenza anche da noi, tenendo conto del classico ciclo di assunzione con ritardo che riguarda da sempre le mode americane nel nostro paese.

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