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L'abito del lockdown

Tutti a scuola in pigiama

Maurizio Stefanini

Gli studenti ora lo usano per seguire le lezioni online, ma l’abbigliamento da notte indossato durante il giorno ha una lunga tradizione, anche politica e letteratura. Da Machiavelli a Buzzati

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Cinquanta sfumature di pigiama, potremmo dire… In tempo di lockdown, la didattica a distanza è tornata protagonista delle giornate dei ragazzi italiani, specialmente dei più grandi. Lo attesta il portale Skuola.net, che dopo aver sentito tremila studenti rivela però che almeno un terzo di loro ammette tranquillamente di seguire le lezioni da remoto in pigiama.

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Cinquanta sfumature di pigiama, potremmo dire… In tempo di lockdown, la didattica a distanza è tornata protagonista delle giornate dei ragazzi italiani, specialmente dei più grandi. Lo attesta il portale Skuola.net, che dopo aver sentito tremila studenti rivela però che almeno un terzo di loro ammette tranquillamente di seguire le lezioni da remoto in pigiama.

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Un altro 57 per cento si veste comunque “da casa”, in tuta o in abiti comodi, mentre solo uno su dieci ammette di vestirsi come se dovesse uscire per andare a una lezione normale. Anche questo, se vogliamo, è un modo per affrontare la sindrome da catastrofe, e gridare in faccia alla pandemia la voglia di continuare a vivere come se l’emergenza non ci fosse. Alla faccia di chi potesse pensare che machiavellicamente il fine giustifica i mezzi e che dunque lo stare in casa autorizza tute e pigiami, era però proprio Niccolò Machiavelli a pensare e soprattutto vestirsi altrimenti.

 

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Caduto in disgrazia dopo la restaurazione dei Medici e riparato in campagna nella casa paterna di San Casciano, in una famosa lettera all’ambasciatore Francesco Vettori raccontava di come, dopo aver passato tutta la giornata tra boschi e osteria in abbigliamento che oggi definiremmo casual, a chiacchierare con gente del popolo, giocare e bere, la sera tornato a casa “in sull’uscio mi spoglio questa vesta cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo”.

 

Col vestito della festa per sentirsi all’altezza del compito, anche se si trovava in una stanzetta e non lo vedeva nessuno, al chiarore di un vecchio lume scrisse i “Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio” e “Il Principe”. Il manuale per democrazie e il manuale per dittatori con i quali rivoluzionò la storia del pensiero occidentale. Ma anche la tuta ha i suoi estimatori. Un altro grande che preferiva scrivere di notte per potersi concentrare senza scocciatori o distrazioni era ad esempio Honoré de Balzac.

 

E Stefan Zweig lasciò appunto una famosa descrizione di Balzac che si sveglia a mezzanotte e, con l’aiuto di un servitore, “indossa la sua tonaca. Per esperienza di anni si è scelto questo indumento come il più adatto alla sua fatica. E’ come l’armatura per il guerriero, come la giacca di cuoio per il minatore, idonea alle esigenze della sua professione”. O, appunto, come la tuta del lavoratore in smart working o dello studente in smart lesson. Zweig ricorda pure che per scrivere il colossale affresco della “Commedia Umana” Balzac si è scelto “questo camice lungo e candido, di morbido casimiro nell’inverno e di fresco lino nell’estate, perché bene si adatta a ogni movimento, lascia libero il collo, riscalda senza opprimere, e forse anche perché, somigliando a una tonaca fratesca, gli ricorda che ha una missione, che ha prestato giuramento a un imperativo superiore, facendo anche voto di rinunciare, sinché la indossa, al mondo e alle sue seduzioni”.

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Insomma, un abito “reale e curiale” che ricorda l’altezza del compito o una tuta che invece vi rende più casalingo sono in teoria due scelte opposte, ma in pratica potrebbero essere considerate facce di una stessa medaglia. Il pigiama, quello no, sembra invece indizio di trascuratezza e menefreghismo. Ma è davvero così? In effetti, quel grande scrigno di archetipi che è il cinema non è che sia del tutto univoco.

 

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“Venere in pigiama”, ad esempio, film nel 1962, era la storia di Kim Novak, sociologa ad alto tasso sexy che si fingeva avventuriera disinibita per avvicinare quattro uomini utili alla sua inchiesta sui costumi sessuali degli americani. Titolo italiano, che l’originale era “Boys’ Night Out” echeggiante il “Venere in visone” con Elizabeth Taylor di due anni prima, ma comunque richiamante un pigiama come simbolo di seduzione. Ma anche di possibile inganno. Come dire: attenti a chi vi si presenta in pigiama. “Il bambino con il pigiama a righe”, bestseller dell’irlandese John Boyne del 2006 da cui il film di Mark Herman del 2008, è la storia del bambino di 8 anni figlio di un ufficiale nazista che durante la Seconda guerra mondiale fa amicizia col coetaneo ebreo Shmuel dall’altra parte di un filo spinato.

 

In questo caso il pigiama è un’immagine inquietante, per assomigliare all’abito che era imposto ai detenuti dei campi di Hitler. “La ragazza dal pigiama giallo”, film del 1977 di Flavio Mogherini, padre della futura Alta Commissaria europea, è addirittura un thriller: gialli sono i resti dell’indumento che sono rimasti sul cadavere carbonizzato di una donna trovato su una spiaggia di Sydney. Fantascienza sospesa tra il rosa e il demenziale è invece “Pigiama party”, film del 1964 sulla giovane ufficiale dell’intelligence marziana Go-Go che viene inviata sulla Terra con il compito di preparare la strada per l’invasione aliena, ma si innamora di un terrestre e durante un pigiama party cambia idea, e passa con noi.

 

Occasione ambigua legata a un abbigliamento ambiguo, al “Pigiama party” fu anche intitolata una canzone al 52simo Zecchino d’Oro del 2009. “Per il mio compleanno sapete cosa c’è? / La novità dell’anno è la festa qui da me / Che non sarà di giorno, papà mi ha detto sì / Al mio pigiama party ti aspetto venerdì”. Testo originale in tedesco, ma con traduzione in italiano, nella tradizione del Coro dell’Antoniano. “Inviti con le stelle su cartoncini blu / Pigiami a paperelle non ne vogliamo più / Con pagliaccetto bianco e ciabattine a pois / Troviamoci al tramonto, che festa si farà”. E’, chiaramente, ancora un appuntamento per bambine. “Stai con noi / Se questa festa è proprio quello che ti manca / Stai con noi / Con il pigiama, sei invitata pure tu / Stai con noi / E salteremo fino a che non ci si stanca / Da un letto all’altro, su e giù / Stai con noi / Pop-corn e bibite da fare indigestione / E la battaglia coi cuscini partirà”. Ma già tra amiche in pigiama si inizia a sfidare qualche tabù. “Stai con noi / Racconteremo quella storia del terrore / Che tanto urlare ci farà, buuuh / Sdraiate su mio letto, in confidenza sai / Le cose che abbiam detto, nessuno saprà mai / Incollo sul diario la foto dove tu / Cammini all’incontrario ridendo sempre più”.

 

Lasciamo perdere l’effetto vintage di quella foto incollata, invece che postata su Facebook o Instagram. Ma, insomma, si inizia con i Pigiama party dello Zecchino d’Oro; si continua con la puntata del Pigiama party in cui le amiche di “Beverly Hills 90210”, provocate da una di loro, si mettono a svelare segreti scabrosi che le destabilizzano; si arriva al Pigiama Party dove in “Grease” le Pink Ladies cercano di “iniziare” Sandy al “vizio” di vino e al fumo, facendole ai lobi il foro per l’orecchino, e Rizzo prima sfotte la “icona di purezza” Sandra Dee e poi scappa per la grondaia per andare nella macchina dei Thunderbirds. “Io mi voglio levare gli sfizi, adesso che ho l’età per godermeli!”.

 

Simbolo di trascuratezza, di infantilismo, di licenza, ma pure di libertà. Continuando a pescare qua è là nel pigiama dell’immaginario cinematografico ci imbattiamo anche in Bridget Jones, che sui titoli di apertura canta a squarciagola “All by myself” con addosso un pigiamone di Natale rosso mentre tracanna bicchieri di vino. E Claudette Colbert, con un pigiama da uomo nella scena delle “Mura di Gerico” in “Accadde una notte” di Frank Capra. E il “Baby doll” che prese il nome dal pigiamino ridotto della protagonista dell’omonimo film del 1956 di Elia Kazan da Tennessee Williams, con cui Carrol Baker prese una candidatura all’Oscar, e secondo molti storici del costume ebbe anche avvio negli Stati Uniti quel fenomeno che sarebbe stato definito “Rivoluzione sessuale”.

 

E così arriviamo a “Sex and the City” e nel primo film, dove Sarah Jessica Parker-Carrie Bradshaw attraversa New York vestita solo di pigiama e pelliccia sotto la neve nella notte di Capodanno, per riconciliarsi con l’amica Miranda. Ma nel “Giuoco del pigiama”, film del 1957 tratto da un musical e da un romanzo di Richrd Bissell, il capo di abbigliamento notturno diventa fulcro di una schermaglia sindacale, oltre che amorosa. Doris Day è infatti una tosta sindacalista di una fabbrica di pigiami. E si scontra con un capostruttura che prima, pur innamorato, è costretto a licenziarla per aver lei sabotato una macchina; ma poi la riconquista, facendo ottenere agli operai l’aumento di stipendio per cui lei aveva lottato.

 

Come simbolo di libertà, in pigiama e vestaglia di flanella grigia nel 1953 il leader nazionalista ed ex primo ministro Muhammad Hidayat Mossadeq si presentò al processo in cui il regime dello Scià lo accusò di “cospirazione e tradimento”. Aveva cercato di nazionalizzare il petrolio al costo di uno scontro per cui Reza Pahlevi era stato costretto a fuggire a Roma, salvo poi essere riportato al potere con un golpe montato dalla Cia e dalle Sette Sorelle. Lo stesso pigiama continuò d’altronde a portare in carcere per i tre anni che fu condannato a scontare, peraltro in condizioni di massimo favore: per lui costruirono addirittura una intera biblioteca! L’interpretazione che tutto il mondo diede fu che presentandosi in pigiama intendeva contestare la legittimità dell’intero processo.

 

Allo stesso modo cercò di convincere gli uditori con altri comportamenti: in particolare, fingere di dormire saporitamente durante le udienze, per poi svegliarsi all’improvviso e urlare proteste e invettive. Ma qualcuno che meglio lo conosceva osservò che in effetti Mossadeq in pigiama aveva l’abitudine di andare spesso anche prima del processo. Nella miniserie che la Rai dedicò a Soraya nel 2003, infatti, si vedeva Mossadeq, interpretato da Claude Brasseur, che a Anna Valle, nel ruolo della imperatrice, spiegava di preferire il pigiama perché risparmiando sul tempo per vestirsi poteva fare più cose. Insomma, altro che trascuratezza: anche il pigiama ha i suoi efficientisti estimatori!

 

E, appunto, per un Machiavelli che scriveva “I Discorsi” e il “Principe” con l’abito buono e un Balzac che faceva i suoi romanzi in tenuta da lavoro, abbiamo avuto anche un Roberto Rossellini che in pigiama, e a letto, scrisse e montò i suoi film. Anche se nel mezzo era comunque costretto a vestirsi e a scendere in strada per girarli. Allo stesso modo, Dino Buzzati lavorava in redazione, ma al ritorno si metteva in pigiama e a letto, e fu così che scrisse ad esempio “Il deserto dei tartari”. Le “Memorie di un uomo in pigiama” del fumettista spagnolo Paco Roca sono appunto il racconto di un uomo che è riuscito a realizzare il suo sogno d’infanzia di starsene a casa tutto il giorno col pigiama addosso: salvo rendersi poi conto che la vita può non essere semplice lo stesso. E Mossadeq ci dà pure una terza chiave.

 

La parola, in effetti, viene attraverso l’India e l’inglese proprio dal persiano: pāy-jāme, che letteralmente è un “indumento per le gambe”. Parola e capo si diffondono in Inghilterra nel Seicento come effetto dei primi contatti tra Compagnia delle Indie e Asia Indo-Iranica, la moda poi passa, ma col radicarsi della presenza britannica in oriente torna, e dal 1870 si espande in tutto il mondo occidentale come abbigliamento notturno. All’inizio solo maschile, ma poi anche femminile. Il pigiama è dunque il punto di arrivo di un percorso di storia dell’abbigliamento per dormire che alla fine del Medio Evo aveva conosciuto già una rivoluzione epocale con la diffusione delle camicie da notte di lana a basso prezzo. Fino ad allora, la gran parte dei poveri per scaldarsi di notte dormiva ammucchiata nuda, a contatto pelle con pelle.

 

A parte dare occasione a quel tipo di comportamenti che appunto dalla descrizione che ne diede il grande scrittore medioevale sono oggi detti “boccacceschi”: la pratica favoriva la diffusione della lebbra, che infatti nel Medio Evo era endemica, e dopo il Medio Evo scompare in pratica dall’Europa. Salvo in Scandinavia, dove l’uso di dormire a contatti di pelle restò fino a Ottocento inoltrato, e dove appunto la lebbra prese il nome di “malattia di Hansen” (da quando nel 1873 il norvegese Gerhard Armauer Hansen ne scoprì il batterio responsabile, aprendo la via per la cura). Ma in India e Iran, invece, il pigiama era stato un abbigliamento per tutto il giorno. E forse Mossadeq nel volerlo indossare dappertutto propugnava anche un ritorno alla tradizione di prima della occidentalizzazione. Effettivamente la Rivoluzione islamica del 1979, nel volerlo vendicare, ha imposto un ritorno all’abbigliamento non europeo: anche se evidente soprattutto nelle donne, per cui l’imposizione del chador è stata tutt’altro che emancipazione.

 

Il pigiama, al contrario, continua a essere spesso visto come simbolo sovversivo. Nel gennaio del 2007, per esempio, Ras al Khaimah, uno degli Emirati Arabi Uniti, fece una legge apposta per vietare ai dipendenti pubblici di lavorare in pigiama. Nel gennaio del 2019 pure il supermarket Tesco di St. Mellons a Cardiff, Galles, dovette vietare formalmente ai clienti di presentarsi in pigiama. E lo stesso fece nel gennaio del 2012 il comune di Dublino per gli utenti dei suoi uffici. Sperando di non aver dato un’idea di codice di abbigliamento per telestudenti in un prossimo Dpcm.

 

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