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Cosa ci dice il caso Suarez sulle università italiane

Massimo Adinolfi

Quello che è successo a Perugia svela un problema non piccolo che affligge oggi il sistema universitario. Invece che il peso dell'Istituzione, i docenti sentono molto più sulle loro spalle il peso dell’algoritmo che vuole ottimizzare la performance del sistema

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Che cosa c’entra l’esame di italiano di Suárez con il machine learning, la débâcle del sistema universitario e il Recovery Fund? Un po’ di pazienza e spiego tutto. Mettendo in chiaro, innanzitutto, due o tre cose. Primo: sapete che gran calciatore sia Luis Suárez: con lui in area "si può andare sino alla fine del mondo", così lo omaggia la stampa spagnola, dopo l’ultima doppietta in campionato. Sapete anche che la Juventus voleva acquistarne il cartellino, e l’uruguaiano aveva già per le mani un preliminare di contratto, l’agosto scorso. Quello che non sapete è che io tifo Juve (senza particolare calore, per la verità). Col che voglio dire: le questioni di campanile e – mi permetto – la regolarità del campionato non c’entrano nulla (almeno con questo articolo). Secondo: sapete che l’esame di italiano di Suarez si è svolto a Perugia: la cocumella, i cinque hermani e le domande preconfezionate. A rigore, questa roba chiama in causa non le prestazioni dell’intero sistema universitario, ma solo quelle dell’Università per Stranieri di Perugia. La Rettrice, in effetti, si è già dimessa. Sotto il profilo penale, poi, la cosa va ulteriormente ristretta: ne va solo delle eventuali responsabilità personali dei singoli docenti coinvolti. Avrei potuto dire allora che si tratta non di una débâcle, di un disastro generale, di un inabissamento complessivo, bensì di una gigantesca, ma dopo tutto circoscritta, figura di tolla. Sono però un docente universitario, e in certa misura mi sento chiamato in causa. Ho timore che la faccenda mi riguardi, e che il clamore del caso Suárez aiuti a vedere un problema non piccolo, che affligge oggi il sistema universitario (e, si potrebbe persino dire, tutti i sistemi sociali complessi).

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Che cosa c’entra l’esame di italiano di Suárez con il machine learning, la débâcle del sistema universitario e il Recovery Fund? Un po’ di pazienza e spiego tutto. Mettendo in chiaro, innanzitutto, due o tre cose. Primo: sapete che gran calciatore sia Luis Suárez: con lui in area "si può andare sino alla fine del mondo", così lo omaggia la stampa spagnola, dopo l’ultima doppietta in campionato. Sapete anche che la Juventus voleva acquistarne il cartellino, e l’uruguaiano aveva già per le mani un preliminare di contratto, l’agosto scorso. Quello che non sapete è che io tifo Juve (senza particolare calore, per la verità). Col che voglio dire: le questioni di campanile e – mi permetto – la regolarità del campionato non c’entrano nulla (almeno con questo articolo). Secondo: sapete che l’esame di italiano di Suarez si è svolto a Perugia: la cocumella, i cinque hermani e le domande preconfezionate. A rigore, questa roba chiama in causa non le prestazioni dell’intero sistema universitario, ma solo quelle dell’Università per Stranieri di Perugia. La Rettrice, in effetti, si è già dimessa. Sotto il profilo penale, poi, la cosa va ulteriormente ristretta: ne va solo delle eventuali responsabilità personali dei singoli docenti coinvolti. Avrei potuto dire allora che si tratta non di una débâcle, di un disastro generale, di un inabissamento complessivo, bensì di una gigantesca, ma dopo tutto circoscritta, figura di tolla. Sono però un docente universitario, e in certa misura mi sento chiamato in causa. Ho timore che la faccenda mi riguardi, e che il clamore del caso Suárez aiuti a vedere un problema non piccolo, che affligge oggi il sistema universitario (e, si potrebbe persino dire, tutti i sistemi sociali complessi).

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Siamo così al machine learning. Che, di per sé, non è affatto il problema, ma anzi la soluzione per una miriade di problemi. Sapete pure questo: il machine leanring è la capacità delle macchine di imparare dalla mole di dati che processano, per esempio dalle scelte di acquisto che compiamo su Amazon. Più scelte compiamo, più dati forniamo ad Amazon, meglio Amazon ci conosce, e più precisamente formula i suoi consigli per gli acquisti: forse ti potrebbe interessare anche… I campi in cui gli algoritmi sono al lavoro sono ormai infiniti. Si può dire che quasi non c’è momento della nostra giornata che non ne sia riguardato. Sono negli ascolti musicali, nelle indicazioni sul traffico, in ogni ricerca che effettuiamo al computer, nella gestione di dati d’ascolto o di gradimento, ma anche negli ambienti di lavoro, nella gestione di linee di produzione industriale, nell’analisi statistica di dati di laboratorio, nella perlustrazione degli spazi interstellari, e così via. Ovunque. 

 

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Forse erano all’opera anche (attenzione, non dispiacetevene: uso eufemismi) nell’abborracciato esame di Suarez dinanzi a una commissione poco arcigna? Magari. A quel che capisco, Google Translate (che ne fa uso) se la sarebbe cavata meglio, molto meglio del calciatore. No, Suarez non ha avuto bisogno di compulsare lo smartphone sotto il banco, e i commissari, dal canto loro, avevano altre preoccupazioni che non quella di affinare il test: volevano autografi. Come siano andate le cose penso lo si sia capito: Suarez voleva passare l’esame, la Juve voleva che passasse l’esame, e anche gli esaminatori volevano (ehm) che passasse l’esame. Il punto è proprio questo: perché gli esaminatori volevano la stessa cosa? Preciso: indipendentemente da quanto, nella circostanza, si siano adoperati, lecitamente o illecitamente, affinché l’esame andasse a buon fine, perché l’esaminatore vuole, fortissimamente vuole che l’esaminato si prenda il benedetto pezzo di carta? Non sono ingenuo, quindi risparmiatemi tutto il pensar male che fa peccato però ci prende: non mi interessa la vile mercede. Intendo dire: questo è l’aspetto che interessa la Procura, i tifosi di calcio e tutti gli indignados. Ma non è quel che serve per capire il perché di una così clamorosa genuflessione, di una prosternazione così profonda agli dèi del calcio. La Juventus, lo sappiamo, è potente, potentissima: è, anzi, il Potere, e dietro ci sono gli Agnelli, la Fiat (no, la Fiat non c’è più: succede). Sia pure, ma dall’altra parte c’è l’Università. Che vorrebbe dire: la Vecchia Signora delle Istituzioni. Non erano ancora sorti gli Stati nazionali, le Università c’erano già. Erano un bel pezzo della Casta. Professori, chierici, dotti, medici e sapienti. Prestigio accademico, reputazione, influenza sociale e culturale: un’infrastruttura mica da poco. Venendo a tempi più recenti, e a formati già alquanto rimpiccioliti, io ricordo ancora che il professore con cui mi laureai soleva dire ai poveri ragazzi che non superavano l’esame di filosofia morale e che, prima di lasciare il campo, balbettavano qualche scusa puerile che lui, il professore, umanamente li capiva, era loro vicino e volentieri avrebbe speso anche una lacrimuccia per loro, ma come pubblico ufficiale non poteva derogare dai suoi doveri. Quindi: bocciatura. Prendi e porta a casa. 

 

Oggi? Come mai le cose non vanno così? Mi correggo: in realtà vanno ancora così, le cose, nella generalità dei casi funziona così, io stesso mi comporto così (senza la storia del pubblico ufficiale, però). Ma alle spalle del singolo docente si sente molto meno il peso massiccio dell’Istituzione, e molto più la silenziosa ruminazione del machine learning, cioè dell’algoritmo che volendo ottimizzare la performance del sistema, e misurando la performance del sistema dal numero dei laureati, spinge l’esaminatore a volere la stessa cosa dell’esaminato: la promozione.

 

Intendiamoci, l’Università è una cosa molto più complessa. Non voglio mica dire che non ha altra missione che quella di sfornare laureati di qualunque taglia, foggia e dimensione. Più complesso è anche l’algoritmo, che è in grado di macinare molte più cose di un semplice numeretto. E più complesso, per fortuna, è lo stesso docente, che non vuole né deve ancora costringere la propria professione entro i rozzi binari che ho tracciato. Il sistema dell’istruzione, peraltro, fa non bene, ma benissimo, a proporsi di aumentare il numero dei laureati; gli algoritmi sono pure loro sacrosanti, nella misura in cui aiutano l’università a valutare i propri servizi, e ottimizzare le risorse. Il punto è che però questo tipo di attività (di valutazione, ottimizzazione, rendicontazione) rischia a volte di farsi assorbire da – io lo chiamo così – "l’imperativo della risposta attesa". Che non sempre va per il sottile: se la risposta attesa è più laureati, la via più facile per ottenere la risposta è abbassare la soglia di difficoltà dell’esame. Se Perugia vuole più iscritti, la via più facile è la fotografia con Suarez. E se i professori vogliono il loro momento di gloria, la via più facile è, di nuovo, la foto con Suarez. (C’è anche questo: il credito sociale è dispensato dalla foto con il calciatore molto più che dall’appartenenza al corpo docente. E il credito sociale vale ormai più della gloria scientifica).

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Confesso. non c’è stata (ancora) alcuna débacle complessiva del sistema universitario: lo dico per la tranquillità di tutti (la mia, in particolare). Ma l’imperativo della risposta attesa, armato dal machine learning, cioè dall’algoritmo che induce la risposta del sistema (Amazon, i professori perugini o la commissione d’esame) dall’aspettativa del suo fruitore (il cliente, Suarez o lo studente) fa sentire sempre di più la sua decisa pressione. Pressione sul singolo docente, innanzitutto, che è chiamato – giustamente, democraticamente – a dar conto del proprio operato in termini di soddisfazione dell’utente. Ma cosa succede, allora, se a chiedergli conto è un direttore del corso di studi che deve a sua volta dar conto al direttore di dipartimento della difficoltà rappresentata dal tale esame, direttore che deve pure lui dar conto, in termini di risposte attese, al senato accademico, senato che deve dar conto al rettore, che deve riportare il tutto alla conferenza dei rettori, che ne darà conto al ministro? E venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo, cioè quell’ultimo docente la cui risposta l’intera piramide sociale attende, perché tutto fili liscio: studente soddisfatto, docente con le spalle al coperto, direttore con una grana di meno, e così via fino all’ultimo tassello del sistema.

 

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Povero Suarez! Povera cuccumella napoletana, scambiata per un cocomero! Quale responsabilità sto accollando a un episodio persino esilarante, se non fosse avvilente. In realtà, la responsabilità che mi interessa portare infine in evidenza è un’altra. E riguarda la necessità di spezzare quel circolo vizioso per cui mentre a un primo livello dovrebbe essere lo studente a rispondere come vuole il docente, se è preparato, a un secondo livello, che finisce col mangiarsi il primo, è il docente a venire frettolosamente incontro alle aspettative dello studente, per soddisfare parametri a cui è vincolata la valutazione del sistema (sua personale, del corso, del dipartimento, ecc. ecc.) – e, oplà!, l’esame è superato. Il primo livello è il livello sul quale si colloca, o si dovrebbe collocare, la missione accademica: formazione, ricerca, trasmissione e diffusione della conoscenza. Il secondo livello è il nano sale sulle spalle del primo che ne storpia la logica, preoccupandosi del successo in output (il laureato) indipendentemente dalla solidità dei risultati (la preparazione del laureato).

 

Non c’è bisogno di osservare che questa logica perversa rischia di insinuarsi dappertutto. Anche in cose come i fondi Next Generation Ue, per stare alla più stretta attualità. I fondi saranno vincolati a determinate procedure formali di verifica e controllo, come è assolutamente indispensabile che sia: lungi da me l’idea di volerne fare libero omaggio. Ma il rischio è che diventi preminente, se non esclusiva, la preoccupazione di rispettare la formalità delle procedure, indipendentemente dalla rilevanza finale per l’economia reale. Tu mi dai una tabella da rispettare, e io rispetto la tabella. Mi specchio persino in essa, e ti faccio vedere quanto sono bravo: bravo però non nell’incidere sull’economia reale, ma solo nell’osservare la tabella.

 

Ma perché, si potrebbe obiettare, le due cose dovrebbero divaricarsi? Perché osservare la tabella dovrebbe prendere una strada, e incidere sull’economia reale un’altra? Non vorrebbe semplicemente dire che la tabella è fatta male? Non è così semplice, purtroppo. Perché, lo dicevo prima, l’Italia ha davvero un basso numero di laureati: proporsi di aumentarlo è sacrosanto. Il sistema universitario ha bisogno di più autonomia e di qualche iniezione di competitività: spingere un Ateneo a darsi da fare per attrarre nuove risorse, nuovi iscritti, nuovi investimenti è un altro obiettivo apprezzabile. La tabella, insomma, non è detto affatto che sia fatta male. Pure le domande a Suárez: non saranno state affatto cattive domande. Il guaio sorge, piuttosto, quando chi deve verificare le risposte è quello stesso che ha interesse a che le risposte siano giuste. E ha quell’interesse preminente perché l’interesse di base, quello che sta sul primo livello e che riguarda la missione originaria del sistema, la preparazione effettiva, è ormai scomparso dai radar.

 

Finisco. Il machine learning non basta: Amazon mi propone i libri che fanno al caso mio, ma da qualche altra parte, bisognerà pure che, indipendentemente da Amazon (dai suoi potentissimi algoritmi, dalle sue accuratissime tabelle), io venga in chiaro di quale sia il caso mio. Di cosa voglio veramente, se posso mettere un po’ di enfasi sull’avverbio. E dunque anche che lo studente (non credo Suárez) venga in chiaro di cosa significhi "veramente", indipendentemente dal voto, studiare, conoscere, formarsi, infine laurearsi. E ancora: che l’Italia venga in chiaro di cosa ci voglia per invertire "veramente" il declino di questi anni, non per ottenere visti e bollinature.

 

Di che razza di verità si tratta, però? Di quella che, non identificandosi necessariamente con la risposta attesa, può misurare quest’ultima sul metro della realtà. Può offrire un punto di vista esterno, non modellato sulle aspettative di successo predefinite da qualche algoritmo. Purtroppo, il nostro paese dispone sempre meno di questi circuiti esterni: uno sono le Procure, certo, come nel caso di Suárez, ma povero è quel paese che non ne ha altri, che non sa cioè alimentare di volta in volta esigenze diverse da quelle interne al sistema. Che non ha docenti per i quali non si tratta soltanto di adeguarsi alla richiesta di superare l’esame. Che non ha politici per i quali non si tratta soltanto di adeguarsi alla richiesta degli elettori (dicesi: populismo). 

 

Dopo tutto, Suárez doveva giocarsi le sue carte da un’altra parte, su un campo di calcio: quella è la realtà su cui si sarebbe dovuto veramente misurare. Lo sa tutto il resto dell’università, e del paese, dove dovranno giocarsi le loro carte gli studenti del futuro? Non ne sono sicuro.

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