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Lezione frontale

Antonio Gurrado

Se le matricole non sanno che cosa vuol dire apodittico. Lode a un solido modello didattico

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Lo scorso autunno il professor Massimo Arcangeli, che insegna Linguistica italiana, ha sottoposto le matricole a un test efferato: ha chiesto loro cosa significasse “apodittico”. Su centosettantasei studenti, centosettantacinque non ne avevano idea; parliamo di universitari, ragazzi che non solo hanno proseguito gli studi oltre l’obbligo ma hanno frequentato dei licei – in cui si studia Aristotele e quindi il sillogismo apodittico – e hanno deciso di intraprendere una carriera umanistica, sentendosi ferrati e portati. Questo misto di ignoranza e inconsapevolezza mi è venuto in mente leggendo l’ottima intervista di Mario Leone al pedagogista Daniele Novara il quale, frammezzo a tanti spunti brillanti e condivisibili, si lascia sfuggire un’intemerata contro la lezione frontale: “Tu, docente, devi farli lavorare, gestire le tue e le loro emozioni, organizzare l’apprendimento. Non basta entrare in classe, fare una grande spiegazione, dare loro da studiare e poi interrogarli”.

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Lo scorso autunno il professor Massimo Arcangeli, che insegna Linguistica italiana, ha sottoposto le matricole a un test efferato: ha chiesto loro cosa significasse “apodittico”. Su centosettantasei studenti, centosettantacinque non ne avevano idea; parliamo di universitari, ragazzi che non solo hanno proseguito gli studi oltre l’obbligo ma hanno frequentato dei licei – in cui si studia Aristotele e quindi il sillogismo apodittico – e hanno deciso di intraprendere una carriera umanistica, sentendosi ferrati e portati. Questo misto di ignoranza e inconsapevolezza mi è venuto in mente leggendo l’ottima intervista di Mario Leone al pedagogista Daniele Novara il quale, frammezzo a tanti spunti brillanti e condivisibili, si lascia sfuggire un’intemerata contro la lezione frontale: “Tu, docente, devi farli lavorare, gestire le tue e le loro emozioni, organizzare l’apprendimento. Non basta entrare in classe, fare una grande spiegazione, dare loro da studiare e poi interrogarli”.

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Mi sono chiesto se le centosettantacinque matricole che non capivano “apodittico” fossero vittime della noia da lezione frontale, ossia si fossero distratte o addormentate mentre il prof di filo faceva una grande spiegazione sui sillogismi e, poi, fossero riuscite a scampare rocambolescamente alla relativa interrogazione. Mi sono risposto che è inverosimile; forse invece la loro ignoranza e l’ancor più grave inconsapevolezza dei propri limiti sono frutto del progressivo scetticismo nei confronti del solido meccanismo spiegazione-interrogazione-valutazione. Che, parafrasando Churchill, è la peggior forma di didattica a eccezione di tutte le altre. Mi sono immaginato centosettantacinque professori di filosofia che, al momento di spiegare la logica di Aristotele, hanno organizzato l’apprendimento arronzando sulla terminologia, hanno eseguito uno degli infiniti stratagemmi didattici dalla flipped classroom al coding, non hanno dato da studiare sul manuale, hanno gestito le emozioni degli alunni con un’interrogazione generica e un voto generoso. Hanno fatto il loro dovere pedagogico convincendo gli alunni di essere bravi, e questi sono corsi in massa a coltivare il proprio talento all’università.

 

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La didattica a distanza – che sottraendola al contatto umano riduce giocoforza la scuola a mera comunicazione di contenuti – mette ulteriormente in discussione la lezione frontale, in quanto la soglia di attenzione degli alunni cala e bisogna escogitare nuovi stratagemmi per coinvolgerli. Pare che il dovere del professore sia farsi un po’ assistente sociale, un po’ saltimbanco. Ha commosso il web l’insegnante inglese che, per stimolare gli alunni all’interazione, si appiccicava un adesivo in faccia davanti alla webcam ogni volta che ponevano una domanda; sono certo che presto questo metodo didattico sarà patrocinato in appositi corsi di aggiornamento e spero non diventi obbligatorio spiegare Aristotele con la figurina di Cristiano Ronaldo sul naso, o suonando la chitarra, o a quattro zampe, pur di organizzare l’apprendimento in modo innovativo e trascinante. Mi ha colpito che un pedagogista acuto ed esperto come Novara abbia voluto associare al termine “spiegazione” l’aggettivo “grande”, ciò che presuppone due sottintesi. Uno è che esistano spiegazioni piccole, piccine, micragnose, che temo siano le più diffuse nella scuola italiana, “aprite il libro a pagina tot”, “metti via il cellulare”, “posso andare in bagno?”, “guardiamo il documentario su Manzoni”. Significa allora che il guaio non è che venga fatta la lezione frontale ma come viene fatta, da un personale che spesso arranca e deve ricorrere a mezzucci per rendersi più interessante. In tal caso, però, il problema non è che bisogna evitare le lezioni frontali ma che dovrebbero tenerle persone diverse. L’altro è che possano emergere grandi spiegazioni, spettacolari, accurate, di spessore scientifico applicato a qualsiasi materia. Credo significhi anche che una grande spiegazione passa attraverso la lezione frontale, e che la lezione frontale sia la strada obbligata per qualcosa di “grande”, nel senso di “adulto”. Presentare ai ragazzi un argomento nel modo in cui (con tutti i paracadute del caso, ovvio) lo si porgerebbe ad adulti serve a stabilire uno standard a cui devono adeguarsi, e far capire loro che non devono aspettarsi il contrario, che l’asticella si abbassi perché non vogliono allenarsi a saltarla. Se hanno problemi con la lezione frontale, vuol dire che non dovrebbero essere lì.

 

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