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la lettera

La scuola oltre la lamentela

Emmanuele Michela

La Dad è una fatica, viva le lezioni in presenza, ma in questi mesi ho imparato ad amare la realtà così com’è. Ci scrive un insegnante 

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Al direttore - Sono un insegnante di una scuola secondaria di primo grado paritaria della Brianza, tra le zone più colpite dalla seconda ondata di Covid. Scrivo leggendo con interesse i diversi punti di vista sulla Didattica a distanza e i giudizi che si spendono sulla situazione attuale della scuola, apparsi su più giornali dove ci si interroga sul futuro dei giovani e sugli ipotetici risultati nefasti che tale modalità di fare didattica e di trattare le nostre generazioni più giovani avranno. Non le nascondo che pure io sono preoccupato per una società che mette all’ultimo posto quelle classi che costituiscono il futuro, abituandole già ora alla rinuncia e alla tiepidezza, nonché a vivere una vita senza rischi ma magra.

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Al direttore - Sono un insegnante di una scuola secondaria di primo grado paritaria della Brianza, tra le zone più colpite dalla seconda ondata di Covid. Scrivo leggendo con interesse i diversi punti di vista sulla Didattica a distanza e i giudizi che si spendono sulla situazione attuale della scuola, apparsi su più giornali dove ci si interroga sul futuro dei giovani e sugli ipotetici risultati nefasti che tale modalità di fare didattica e di trattare le nostre generazioni più giovani avranno. Non le nascondo che pure io sono preoccupato per una società che mette all’ultimo posto quelle classi che costituiscono il futuro, abituandole già ora alla rinuncia e alla tiepidezza, nonché a vivere una vita senza rischi ma magra.

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Porto il mio semplice contributo, affermando innanzitutto di sentire una certa sproporzione tra il mio lavoro e l’aspettativa che dall’altra parte della classe – o di uno schermo – incontro sempre. Maschi e femmine, bravi e meno bravi, mai come in questo periodo mi sono accorto che i miei studenti sono uguali, e davanti al rischio di cedere a un’apatia e a una negatività dettati dal periodo, si lanciano verso ciò che trovano di interessante, anche nella scuola, con domande vere e autentiche.

 

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Ricordo bene una studentessa, dopo qualche settimana di lockdown, di fronte a una mia affermazione banale e un po’ lamentosa (“Chissà per quanto ancora dovremo fare scuola così…”), incalzarmi con le sue domande: “Ce lo dica lei, almeno, prof, per quanto dovremo vivere così. Non capiamo nulla, nessuno ci dice nulla”. Il mio silenzio, la mia incapacità di saziare quella fame, mi hanno inchiodato allo schermo, ma mi sono accorto in seguito che avevano cambiato il mio rapporto con lei e quella classe, togliendomi dalla cattedra e mettendomi in condivisione con loro di quella stessa ansia di senso.

 

Se c’è una cosa che, però, mi ha stupito realmente di questa seconda ondata, è stato vedere come tanti colleghi si sono mossi, in un contesto dove non mancano le comprensibili lamentele e fatiche per un modo di fare scuola che di scolastico ha ben poco. Un esempio su tutti, la mia preside: pochi giorni fa ci ha mandato il nono cambiamento di orario da settembre. In serie ha dovuto far fronte a studenti in quarantena, studenti positivi, classi in quarantena, docenti in quarantena che facevano lezioni collegati da casa con colleghi in classe a mantenere l’ordine, seconde e terze medie a casa con le prime a scuola, orari da incastrare e problemi di connessione da fronteggiare. E quando festeggiavamo pensando al ritorno in classe delle seconde e terze medie, una nuova noia: la positività di alcuni colleghi, da sostituire. Ogni volta, dietro a quella novità, qualcuno si è dovuto sedere davanti al pc e trovare il modo di far combaciare insegnanti, classi, disponibilità e aule, senza dimenticarsi dei BES e di chi era collegato da casa, il doposcuola e il sostegno.

 

Questo modo di muoversi – straordinario nell’ordinarietà delle cose da fare – ho potuto rintracciarlo anche in altri colleghi, sia della mia scuola che di altri istituti, oggi come durante il primo lockdown. Me lo sono chiesto spesso, in questo periodo, cosa giustifica un atteggiamento così. Non penso possa essere motivato solo da un amore al proprio lavoro. Basta davvero solo quello? Quale soddisfazione potrebbe darti il lavoro in un contesto simile? Semmai, in quel darsi da fare vedo un amore alla realtà così com’è. Dura e complessa ma, in fin dei conti, anche solo in parte aperta a noi, alla nostra misera iniziativa e al nostro piccolo sforzo. Ecco, in un anno dove abbiamo dovuto scontrarci con un mondo che non conoscevamo, con le sofferenze della pandemia e le fatiche imposte dalle varie limitazioni, l’asetticità della didattica a distanza e le lunghe assenze di studenti e colleghi, il miglior insegnamento che ho tratto e posso offrire ai miei studenti credo sia proprio questo: amare la realtà così com’è, e cercare in quei pochi centimetri che ci offre di ricalcolare sempre il nostro modo di agire, per trovare la strada migliore che ci permetta di vivere il presente e non stancarci mai di cercare tra il fango quotidiano le perle che, non possiamo nasconderlo, non mancano mai. Solo così mi accorgo che riesco a uscire dalla lamentela per fatiche che la vita ci mette davanti, in fin dei conti niente rispetto a quelle che patisce che soffre veramente – penso in particolare ai malati, o a chi ha perso il lavoro in questo periodo terribile. E penso che sia questa la risposta più bella da condividere e verificare insieme ai miei studenti, che siano da stanare nascosti dietro uno schermo o seduti in classe.

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