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il foglio del weekend

Fuorisede via zoom

Secondo i dati Miur 2018, in Italia erano iscritti quasi 84 mila studenti stranieri, di cui il 5,4 per cento dalla Romania, il 4,4 dalla Cina, e in eguale misura, il 2,1 per cento, dall’India e dall’Iran

Fabiana Giacomotti

La pandemia ha rivoluzionato la vita degli studenti stranieri in Italia. Iraniani, cinesi, indiani e il business dell’edu-turismo

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Nima Khajavi Nouri ha ventotto anni, una laurea di primo livello in Architettura e Design conseguita presso l’Università di Teheran, qualche anno di insegnamento di tecniche di tessitura e una passione totalizzante per  i colori naturali. Grazie al suo ottimo inglese, da qualche tempo impartisce lezioni online a bambini delle scuole primarie e secondarie di Roma, dove è arrivato un anno fa per frequentare il corso di Science of Fashion presso l’Università La Sapienza. Si è recato in facoltà per sei mesi scarsi, fra ottobre 2019 e il 9 marzo 2020, data di inizio del primo lockdown. Da quella data si è chiuso nel suo appartamentino fra Monti e      san Lorenzo, senza mai più tornare in Iran e senza la possibilità di trovarsi una internship presso una maison di moda, come sperava, perché a causa della pandemia è bloccato fra l’esigenza di seguire le lezioni online e l’impossibilità di farlo dal proprio paese, dove la piattaforma Google Meet scelta dai docenti dell’ateneo romano per le lezioni, ma in genere qualunque piattaforma, sono difficilmente scaricabili. Fra collegamenti a singhiozzo e censura, l’Iran è proibitivo per gli studenti expat. L’ultima volta che ci siamo stati per lavoro, tre anni fa, non riuscivamo nemmeno a visualizzare il sito del Corriere della Sera, oscurato – supponiamo – per via delle foto di moda e di signorine in costume da bagno. A ogni tentativo di collegarci, venivamo anche pesantemente colpevolizzati da una schermata in inglese che ci segnalava l’immoralità del nostro comportamento e le pessime ricadute che la nostra rilassatezza di costumi avrebbe avuto sui nostri figli, con tanto di vignetta sulla falsariga degli affreschi trecenteschi per gli analfabeti. 

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Nima Khajavi Nouri ha ventotto anni, una laurea di primo livello in Architettura e Design conseguita presso l’Università di Teheran, qualche anno di insegnamento di tecniche di tessitura e una passione totalizzante per  i colori naturali. Grazie al suo ottimo inglese, da qualche tempo impartisce lezioni online a bambini delle scuole primarie e secondarie di Roma, dove è arrivato un anno fa per frequentare il corso di Science of Fashion presso l’Università La Sapienza. Si è recato in facoltà per sei mesi scarsi, fra ottobre 2019 e il 9 marzo 2020, data di inizio del primo lockdown. Da quella data si è chiuso nel suo appartamentino fra Monti e      san Lorenzo, senza mai più tornare in Iran e senza la possibilità di trovarsi una internship presso una maison di moda, come sperava, perché a causa della pandemia è bloccato fra l’esigenza di seguire le lezioni online e l’impossibilità di farlo dal proprio paese, dove la piattaforma Google Meet scelta dai docenti dell’ateneo romano per le lezioni, ma in genere qualunque piattaforma, sono difficilmente scaricabili. Fra collegamenti a singhiozzo e censura, l’Iran è proibitivo per gli studenti expat. L’ultima volta che ci siamo stati per lavoro, tre anni fa, non riuscivamo nemmeno a visualizzare il sito del Corriere della Sera, oscurato – supponiamo – per via delle foto di moda e di signorine in costume da bagno. A ogni tentativo di collegarci, venivamo anche pesantemente colpevolizzati da una schermata in inglese che ci segnalava l’immoralità del nostro comportamento e le pessime ricadute che la nostra rilassatezza di costumi avrebbe avuto sui nostri figli, con tanto di vignetta sulla falsariga degli affreschi trecenteschi per gli analfabeti. 

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Il brillantissimo Nima, insieme con molti altri studenti iraniani (anzi “persiani”, non sbagliate definizione perché si offendono) è uno dei tanti, tantissimi ventenni che il coronavirus ha relegato in una sorta di limbo didattico-accademico: possono sì seguire le lezioni, le matricole parzialmente in presenza grazie a un complicatissimo sistema di prenotazione che impone al docente, oltre al controllo del rispetto delle normative anti-Covid, di accogliere gli studenti in aula a turno e in contemporanea di garantire a tutti la lezioni via Meet o Zoom. Non tutti, però, riescono a farlo agevolmente. I brasiliani, i messicani o i cinesi per mere problematiche di fuso orario, sebbene anche in Cina poche fra le piattaforme internazionali siano aperte o di facile accesso, a partire da Google e YouTube. Altrove, invece, le connessioni sono lente o costose (“gli studenti italiani che si lamentano mi fanno ridere; per noi dieci minuti di attesa sono già pura benedizione”, sorride via Skype una studentessa pachistana), oppure gravate da filtri e censure. In media si arrangiano tutti, mostrando una padronanza di social e reti che nemmeno il povero Adriano Galliani quando ribaltò il sistema di ricezione televisiva dell’Italia proto-berlusconiana: abbiamo studentesse bengalesi che da certe città dal nome impronunciabile creano straordinari ponti e connessioni per non perdere uno solo dei corsi programmati nel loro piano di studi (Telegram è il sistema favorito) dandoci nel frattempo dei punti sulla conoscenza delle tecniche di tessitura e di retail nel senso di commercio minuto e di sfruttamento dei canali social per promuoverlo. 

 
Come segnala la preside del corso in Sapienza, la sociologa dei media Romana Andò, per il nuovo Anno accademico le prenotazioni dall’estero sono aumentate del 35 per cento, nonostante i ritardi nel rilascio dei visti, legati a una consegna materiale di documenti come ovvio molto problematica e a una burocrazia extra moenia che la pandemia ha reso ancora più complessa. Resta però il fatto incontrovertibile che tutti questi studenti, siano di Moda, di Architettura, di Arte o di Ingegneria, si fossero iscritti in un’università romana per godere innanzitutto delle bellezze della città, sedotti dal cosiddetto italian lifestyle che, insieme con la “dolcevita”, esalato in un sospiro sognante, è linguaggio ma soprattutto immaginario internazionale.  Sbarcano a Fiumicino e vogliono il full monty: rovine romane, musei a costo zero, gli aperitivi, i “raga” cinturati Gucci con cui fare amicizia e quel genere di accademia che questo paese soleggiato ha prodotto in un millennio e che resta largamente accessibile a tutti. Anche volendosi concedere un monolocale tutto per sé, studiare in un’università pubblica italiana costa dalle tre alle sei volte in meno rispetto a un ateneo americano, in particolare a quelli privati, quasi sempre senza nessuna differenza rilevante nella preparazione, perlomeno nelle discipline umanistiche. Anzi: certi bachelor degree in Letteratura o Storia dell’arte producono mediocrità sconfortanti, lasciatecelo dire, del tutto imparagonabili con gli equivalenti titoli europei, in particolare dell’est. 

 
“Per voi è facile creare bellezza, essendo nati qui: l’ispirazione è ovunque”, dicevano gli studenti arrivati da dovunque fino all’anno scorso, per poi andarsi a cercare la grande bellezza più adatta a ciascuno di loro: talvolta si trattava di cultura, molto più spesso di una libertà di pensiero e di espressione sconosciuta nel paese di origine e alla quale, nonostante la volontà, faticavano a adattarsi, perché la capacità critica è una pianta che si irrobustisce con gli anni ma va piantata nella prima infanzia, e a molti questo seme è stato negato. Per questo, era bellissimo vederli scaldarsi “ovunque” al sole, un giorno dopo l’altro, trovare connessioni fra idee e tradizioni diverse, integrarsi. Ma, al momento, l’“ovunque” è diventato inaccessibile. Le visite sono bloccate, i laboratori si tengono col contagocce, le relazioni fra gruppi etnici diversi praticamente impossibili. A dati Miur 2018, in Italia erano iscritti quasi 84 mila studenti stranieri, di cui il 5,4 per cento dalla Romania, il 4,4 per cento dalla Cina, e in eguale misura, il 2,1 per cento, dall’India e dall’Iran, paese che, soprattutto con Roma, vanta storici rapporti diplomatici e, va detto anche in questo caso, studenti in genere di ottime capacità, preparazione e profondità di visione, che armonizzano facilmente con quella occidentale nonostante la differenza di credo religioso: le numerose basi comuni nella matematica, nella filosofia e nella lingua permettono di superare molti ostacoli. 

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Dopo un’iniziale controversia che riguardò il Politecnico di Milano, antesignano della tendenza, i corsi di laurea erogati interamente in inglese si sono moltiplicati dai 339 dell’Anno accademico 2017-2018 ai 441 del 2019-2020. In testa si trova l’Alma Mater Studiorum di Bologna, con quaranta corsi, seguita dall’Università di Padova e dalla Sapienza, rispettivamente con venticinque corsi, e dalla Statale di Milano con venti. Sebbene sia impossibile enumerare gli insegnamenti impartiti in inglese dalle università private e dalle scuole professionali che, grazie alle ultime riforme, hanno ottenuto la famosa e sospirata “equiparazione” ai corsi di laurea di primo livello (un caso classico proprio gli istituti di moda e design, come la Naba, da cui proveniva il più incredibile ministro dei Beni culturali che sia mai toccato all’Italia, Alberto Bonisoli), non ci sono dubbi che per loro il coronavirus sia stato un colpo durissimo.

 
Mentre le università pubbliche nazionali stanno registrando in generale un’ottima crescita nelle iscrizioni, addirittura del 20 per cento per gli ingressi ai test di Medicina grazie a una serie combinata di fattori positivi che vanno dall’aumento della cosiddetta tax free area dai 14 ai 20 mila euro allo stesso lockdown per le ragioni che vedremo (a RomaTre segnalano un forte aumento di immatricolazioni mentre in Sapienza, dopo l’elezione a Magnifica Rettrice della preside della facoltà di Medicina Antonella Polimeni, un fatto clamoroso che avviene dopo 703 anni di storia dell’ateneo, si attende un nuovo boom),  le piccole università private straniere con sede a Roma sono ai limiti della sopravvivenza    . Talvolta oltre. In piazza sant’Andrea della Valle ha chiuso per esempio la sede romana della Richmond – the American International University in London, che ha sede nel Delaware del presidente eletto Joe Biden, mettendo in cassa integrazione venti dipendenti. Una delle loro docenti, Giulia Rossi, che si destreggia abilmente fra istituti e università nazionali e internazionali come la John Cabot, racconta di aver tenuto un corso intensivo a distanza per venticinque studenti la scorsa primavera, al termine del quale le è stato comunicato che non ci sarebbe stata alcuna prosecuzione “per i mesi a venire”.

 

D’altronde, come garantire la “full italian experience” che il sito della Richmond in Rome, ancora attivo, continua a proporre? Come offrire il “vero gusto della cultura italiana”, fatto di “cene con coetanei” e “visite all’Opera e a Pompei”, quando non ci si vede nemmeno a lezione? Nessuno ha ancora calcolato il danno diretto e indotto di questa mancata mobilità studentesca festante a livello internazionale, ma già lo scorso aprile la trend forecaster Lidewji Edelkoort, della Parson School of Design di New York, prevedeva che il blocco dei confini sarebbe stato un colpo mortale per gli istituti privati mondiali anche prestigiosi come il suo, che basano tutti le proprie fortune sul brand, sulla fama mediatica dei docenti, sulla garanzia di uno stage presso aziende di prima fascia e su tasse di iscrizione per così dire correlate al servizio, cioè nell’ordine dei cinquantamila dollari all’anno. 
L’edu-turismo mondiale, questo derivato dei Grand Tour settecenteschi con i suoi sogni di “sofisticatezza” e le sue ricercatissime derive “decadent”, è una voce consistente nel bilancio di quartieri e di città intere, non solo italiane; il centro di una fitta rete di attività che vanno dall’immobiliare alla ristorazione ai servizi alla persona. Saltate tutte le regole della presenza, eccezion fatta per le matricole come appena comunicato dal premier Giuseppe Conte, ora i più abili fra gli studenti riescono a destreggiarsi fra lezioni a distanza in Italia e contemporaneo soggiorno in un’altra città europea, vedi Dora Malnar, croata, che ci risponde da Parigi di aver “sperato fino all’ultimo di poter tornare a Roma per la ripresa delle lezioni” ma di aver scelto di trascorrere il secondo lockdown a Parigi come au pair per “migliorare il mio francese”.

 

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Il timore di contagiarsi, o di portare il virus in casa dei suoi datori di lavoro, non la sfiora minimamente; ma d’altronde una piccola indagine svolta ufficiosamente fra gli atenei ha evidenziato che quasi nessuno studente straniero teme il contagio da coronavirus. Segue le prescrizioni e i protocolli, forse perché non può fare altrimenti, genericamente e a parole si preoccupa per la salute dei propri parenti lontani, ma non ha coscienza della malattia in riferimento a sé: non a caso centinaia di loro hanno fatto domanda per accedere ai programmi Erasmus, e molti aspettano di partire, dolendosi giusto per la scarsità di soluzioni di viaggio a basso prezzo. Nel frattempo, accettano delusi ma pazienti la didattica a distanza che, un mese dopo l’altro, sta mutando il volto degli atenei italiani, spesso gravati da burocrazie ridondanti e lentissime, di certo inadeguate al momento e al futuro che va configurandosi, favorendo al contempo inevitabilmente chi della distanza ha fatto la propria ragion d’essere, e cioè le università telematiche. In Italia ne sono riconosciute undici, e già lo scorso gennaio avevano registrato un incremento di iscrizioni nell’ordine del 24 per cento. La didattica a distanza imposta a tutti dal lockdown ne ha resi evidenti molti vantaggi, annullandone la percezione di “seconda scelta” e già a giugno tutte, da Pegaso alla Niccolò Cusano, registravano incrementi importanti nelle iscrizioni, talvolta spinti anche da aiuti e supporti.

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C’è per esempio Unitelma Sapienza, tremila studenti e oltre quindicimila persone attivate fra corsi e gestione, il cui rettore, Antonello Folco Biagini, storico di fama internazionale sull’Europa Orientale, la scorsa primavera ha istituito mille borse di studio per l’iscrizione agevolata dei maturati di eccellenza ai corsi nell’area giuridica, economica, informatica, psicologica e archeologica. Risultato: oltre duemila richieste e in programma nuovi master per gli studenti internazionali che, ormai è chiaro, troveranno le lunghe residenze all’estero sempre più dispendiose e, in parte, inutili. Con ogni probabilità, i Grand tour educativi diventeranno lunghi weekend mirati. Si prepara un new normal di soddisfacente distanza, a patto che le piattaforme online riescano a migliorare l’“esperienza” avvicinandosi alla tridimensionalità dei giochi online. E a quel punto la didattica a distanza avrà perso buona parte dei suoi minus. 

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